venerdì 31 gennaio 2014

Il carteggio tra il Patriarca e il governatore sul tema dell'accoglienza



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Il 22 gennaio scorso, il Patriarca di Venezia, Monsignor Francesco Moraglia, scrive una lettera aperta sul Corriere del Veneto in cui chiede alle istituzioni una risposta valida e concreta all'accoglienza dei profughi e dei richiedenti asilo politico.

Comprendo le difficoltà e anche le obiezioni sollevate da parecchi sindaci del nostro territorio. So bene che certe zone e popolazioni sono già da tempo sotto pressione o hanno vissuto esperienze non sempre positive, anche in un recente passato. Problemi o complicazioni di carattere finanziario e normativo non sono di poco conto e non vanno sottovalutati. Siamo, però, di fronte a persone in grave difficoltà che chiedono d'essere accolte e aiutate a risollevarsi. E sappiamo, d'altronde, che nessuno lascia il proprio Paese volentieri; me lo ha ricordato, con tutta la forza della sua testimonianza, una giovane donna incontrata all’inizio dell'anno nel carcere della Giudecca.

"Migranti e rifugiati non sono pedine sullo scacchiere dell'umanità. Si tratta di bambini, donne e uomini che abbandonano o sono costretti ad abbandonare le loro case”, scrive Monsignor Moraglia e aggiunge: “ Ma soprattutto la politica, nelle sue diverse articolazioni, è chiamata a farsi carico dei problemi, senza sfuggirli, soprattutto per quello che riguarda il tempo del «dopo accoglienza» che richiede serie politiche europee e nazionali per una vera integrazione e l’inserimento reale nel tessuto sociale del nostro continente. L’immigrazione non deve più essere considerata solamente un problema italiano. Come dicevo proprio ai giornalisti qualche giorno fa, a Cavallino, sono fiducioso che la cultura e la tradizione delle genti venete - le cui radici, cristiane, sono intessute di accoglienza e di solidarietà vere e concrete - saprà affrontare con animo grande, nel rispetto di tutti, questa nuova emergenza che, sappiamo, non è facile da fronteggiare. Auspico perciò che essa si trasformi in opportunità; è una sfida da vincere insieme, nel rispetto della coesione sociale. Come è vero che nessuno deve tirarsi indietro, è anche vero che ognuno deve fare la sua parte e nessuno, alla fine, deve essere lasciato solo; in questo, capisco le difficoltà e i timori delle amministrazioni interpellate. Domenica a Mestre, nell’omelia, ricordavo che «l’accoglienza è la risposta alla globalizzazione dell’indifferenza. E proprio tale dimensione culturale-politica diventa necessaria per costruire una società che sia realmente a misura d’uomo».
Non tarda ad arrivare la risposta - sempre informa di lettera aperta e pubblicata il 24 gennaio sullo stesso quotidiano - del governatore della Regione Veneto, Luca Zaia, di cui riportiamo di seguito alcuni brani.
...Questa regione ha ridato prospettive di vita a 510 mila immigrati (il 10,2 per cento della popolazione, di cui 255 mila occupati), di questi ben 39 mila hanno avviato una attività imprenditoriale. Il peso dell'immigrazione sul Pil, cioè sulla ricchezza prodotta è del 14,2 per cento. I figli di questi immigrati vanno a scuola e giocano con i nostri figli, e spesso parlano il dialetto meglio di noi. Il Veneto è la prima regione d’Italia per immigrazione legale. Il Veneto non ha dunque paura del diverso, dell’immigrato: smettiamola con questo luogo comune, e sfatiamolo una volta per tutte.
Quale veneto resta indifferente di fronte a un bambino sofferente e in evidente stato di denutrizione? Il sottoscritto, quando era presidente della Provincia di Treviso, ha aperto in Veneto il primo sportello per l’assistenza agli immigrati. Il Veneto è e resta quindi uno dei modelli meglio riusciti di integrazione. Integrazione con chi e per chi viene qui a lavorare, a dare una prospettiva diversa alla propria famiglia e ai propri figli, a cercare una via d'uscita a una vita che nelle terre d’origine è spesso convivenza con guerre e quotidiane violenze. Cos’è dunque accaduto da rendere la materia così incandescente fino al punto da trasformarla in elemento di forte contrapposizione? Cos’è accaduto da suscitare tanta paura e riluttanza nei cittadini? È accaduto che, scambiando integrazione con buonismo, diritto con pacca sulle spalle, si sono aperte le frontiere anche a chi non aveva alcuna intenzione di integrarsi, a chi non voleva fuggire da fame e stragi e povertà ma semplicemente da un pessimo rapporto con la giustizia. Il buonismo ha fatto sì che si confondesse il giusto diritto a integrarsi in una nuova società o a fuggire da una realtà orrenda, con il diritto a venire in Italia e ad arrangiarsi con condotte criminali. Col risultato che gli stessi immigrati che altro non chiedono che di lavorare onestamente e onestamente vivere, pagano oggi un conto salatissimo a questo lassismo sconosciuto in tutti gli altri paesi europei che applicano leggi assai severe contro chi trasgredisce o chiede ingresso senza validi motivi.

Dobbiamo dunque avviare una serie riflessione sull’immigrazione. Possiamo e dobbiamo compiere scelte razionali, evitando demagogia, scorciatoie e fronteggiando una dei problemi più seri che le società occidentali si trovano a dover affrontare. Prima scelta. Dividere i richiedenti asilo dai migranti per motivi economici. Il somalo, il libico, il siriano, chiunque fugga da zone calde del mondo sa che difficilmente tornerà mai più nel suo Paese. Il marocchino, il tunisino, l’egiziano che vengono qui per lavorare e trasferire la famiglia e i parenti non appena hanno consolidato un minimo di benessere, tornano spesso e volentieri nella propria patria. Guardiamo le cose per quello che sono, senza far finta di nulla: forse non a caso è proprio in questa seconda fascia di migranti che si concentra il più elevato tasso di delinquenza e di popolazione ospitata nelle carceri. È sotto gli occhi di tutti l’immagine di barche da cui scendono non disperati, non rifugiati, non persone desiderose di lavorare ma giovani con pantaloni, magliette, occhiali alla moda e telefonino. Seconda scelta. Se è vero quanto affermato in precedenza, occorre tornare a pensare a flussi d’ingresso regolati sulla base delle richieste del mondo del lavoro. Non credo sia discriminazione affermare che di fronte a un Veneto con 170 mila disoccupati, aziende in crisi, riduzione del Pil e un giovane su quattro senza lavoro (di cui due precari), non si debba e non si possa prima pensare alla nostra gente, a risollevare prima una economia in cui non c’è più spazio lavorativo neppure per gli immigrati.

... È un caso se il governo inglese sta facendo profonde riflessioni, spaventato dall’apertura delle frontiere romene e bulgare, e se ragionamento molto simile stanno facendo il Presidente Hollande, in Francia, e il Cancelliere Angela Merkel, in Germania? Lei, Patriarca, guarda alla politica, ma giustamente anche alla Ue. L’ho detto più volte e lo ripeto perché credo che questo sia il vero spartiacque su cui corre la questione: dobbiamo cambiare radicalmente prospettiva. Lampedusa, e tutte le località del nostro Mezzogiorno dove avvengono gli sbarchi, non possono più essere considerati soltanto il confine sud dell’Italia ma devono diventare - non soltanto geografica mente ma anche politicamente - il confine sud di tutta l’Unione Europea.

Il tema dell'accoglienza e delle frontiere è dunque una problematica che deve investire e riguardare tutta la Ue, quell’Europa che ha lasciato sempre sole Lampedusa e l’Italia a gestire il problema di flussi crescenti di immigrazione, quell’ Europa di Schengen che ha visto nazioni leader (quelle sempre pronte a chiedere agli altri il rigoroso rispetto delle regole) chiudere dal giorno alla notte le frontiere senza alcuna condivisione con i partner, facendo strame del diritto e lasciando il nostro Paese - con i suoi 7 mila 456 chilometri di coste - a gestire la disperazione di chi arriva con ogni mezzo dal Sud del Mondo. La Chiesa fa tanto per gli immigrati, in alcune realtà spesso soltanto la Caritas e le organizzazione cattoliche riescono a garantire la sopravvivenza a masse di disperati. Giusto quindi il richiamo alla politica. Mala politica ha il dovere di decidere con razionalità ed equilibrio, e soprattutto con buon senso...”

Ancora acceso, quindi, il dibattito in Italia sul tema dell'accoglienza e sulle politiche riguardanti l'immigrazione. Ed è bene fare sempre il punto della situazione e capire in che direzione si sta andando.

giovedì 30 gennaio 2014

Ci è pervenuta la comunicazione di questa bella iniziativa, organizzata dalla Rete Scuole Senza Permesso, e ve la segnaliamo. Si terrà presso il Cinema Beltrade di Via Oxilia 10 a Milano.


Video di presentazione del film IL FIGLIO DELL'ALTRA

 
 
Possono ebrei e palestinesi condividere la stessa terra? Possono due popoli tanto diversi imparare a convivere pacificamente? E dei genitori possono amare i figli di altri? Questo e molto altro nell'opera prima cinematografica di Lorrein Levy, regista francese di origini ebraiche, intitolata "Il figlio dell'altra".
Il film è stato presentato dall'Associazione per i Diritti Umani nell'ambito del cineforum organizzato dall'Istituto SERAPHICUM, di Roma (Via del Serafico, 1). Ringraziamo tantissimo gli organizzatori e il pubblico per  l'accoglienza, l'interesse e la partecipazione.
 
Ricordiamo che i nostri video sono anche disponibili sulla pagina YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani
 
 
 
 

mercoledì 29 gennaio 2014

Il Presidente e le madri-coraggio



Le mamme della Terra dei fuochi sono state ricevute, nei giorni, scorsi dal Presidente Giorgio Napolitano che porta nel suo cognome le proprie radici e l'appartenenza a quella stessa terra.

Accompagnate dal parroco di Caivano, Don Maurizio Petricello, che si è unito a loro per combattere l'ecomafia e lo scempio di una regione bellissima, quelle madri-coraggio hanno chiesto al capo dello Stato e alle istituzioni di non essere abbandonate.

Abbiamo altri bambini che vogliamo far crescere”, ha detto Anna Magri, una delle donne che ha perso il figlio per un tumore insorto a causa degli sversamenti tossici sul territorio.

Chiare le parole di Don Petricello: “ Il decreto è una buona cosa, ma è nato piccino piccino. E anche noi, come comitato, abbiamo messo insieme una quindicina di emendamenti...La Sanità è la parte che manca nel decreto”. “ Per esempio dopo due anni l'esercito se ne va e i 50 milioni per la sanità sono un tantum: dopo lo screening che le cura le persone? Non si può chiedere ad una famiglia se curare la madre o la figlia”. E ancora: “ Dobbiamo smetterla con questa barzelletta degli stili di vita. I roghi non sono finiti e non potranno mai finire; e se sono finiti, si stanno spostando. Ma il vero problema è che cosa brucia e chi brucia...Bruciano i rifiuti industriali di imprese in regime di evasione fiscale. E' tutto il sistema che non funziona più: noi non vogliamo liberare la Terra dei fuochi a danno di altri, che sia la Puglia o la Basilicata o l'Europa dell'Est”.

Intanto l'Aula della Camera ha ripreso l'esame del decreto sull'emergenza ambientale: un emendamento approvato prevede che, oltre all'esercito, vengano utilizzate tutte le vetture presenti nei depositi della Protezione Civile e del Corpo dei Vigili del Fuoco della Campania e anche piante bonificanti quali, ad esempio, il vetiver. Ma, notizia ancora più importante, con il decreto viene introdotto nell'ordinamento italiano il reato di combustione rifiuti che ha portato a due arresti. Su twitter il Ministro dell'Ambiente, Andrea Orlando, ha scritto: “ Approvato il decreto Terra dei fuochi che afferma un principio fondamentale: la tutela dell'ambiente è tutt'uno con la lotta alla criminalità organizzata”.

Durante i racconti delle mamme, il Presidente Napolitano si è commosso e ha promesso l'avvio di una vera e propria operazione di risanamento ambientale, ma anche giustizia per quello che è successo. Vero è che, purtroppo, l'impegno arriva troppo tardi e molti bambini hanno pagato, con le loro giovani vite, il prezzo dell'indifferenza.


martedì 28 gennaio 2014

La shoah dei bambini





Continuiamo il nostro percorso sull'importanza della memoria con la segnalazione del libro intitiolato La Shoah dei bambini di Bruno Maida, edito da Einaudi. Il saggio è stato presentato lo scorso 19 gennaio presso la Casa della Cultura di Milano.

Un libro che riattraversa «con occhi di bambino» le tragiche vicende della persecuzione antiebraica: per i bambini «ariani», cresciuti nell'educazione al razzismo e alla guerra e, soprattutto, per i bambini ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, quando non della distruzione e dell'eliminazione fisica della propria famiglia. Da questa prospettiva - peculiare, e tuttavia indispensabile per comprendere l'essenza di una persecuzione razziale, dunque fondata propriamente sulla nascita - la storia che abbiamo alle spalle assume nuovi significati e stratificazioni. In bilico tra due registri - narrativo e storiografico - il libro si colloca in un filone d'indagine che vede crescere a livello internazionale l'interesse verso la storia dell'infanzia nel Novecento.



Abbiamo intervistato il Prof. Maida che ringraziamo molto per la sua disponibilità.



Ogni anno, il 27 gennaio, si parla della Giornata della memoria, ma che cos'è la memoria storica e quanto è importante per il Presente e per il Futuro dell'umanità?



La memoria non è la Storia, sono due cose differenti. La memoria è una fonte straordinaria per la Storia, per la possibilità di raccontarla, soprattutto nel caso della Shoah dove molte prove sono state cancellate e distrutte e, quindi, è molto difficile ricostruirne il processo.

 

Nel suo libro affronta il tema dell'Olocausto da un punto di vista inusuale: quello dei bambini. Perchè questa scelta?

 

Per due ragioni, fra le molte importanti: una è che la Shoah dei bambini è la Shoah. Perchè, se il tentativo era quello di distruggere completamente un gruppo, di annientarlo, uccidere i bambini era la condizione primaria. In secondo luogo, più in generale, perchè parlare dei bambini significa attribuire un protagonismo all'infanzia e, quindi, considerare i bambini non soltanto come oggetto della Storia, ma come soggetto protagonista della Storia.



Cosa significa essere genitori di bambini perseguitati?

 

Vuol dire, prima di tutto, essere perseguitati in prima persona e,quindi, essere soggetti che progressivamente si indeboliscono e perdono quella possibilità e capacità di proteggere, di difendere i propri figli. Nello stesso tempo significa, come è accaduto in quella vicenda, riuscire a far emergere straordinarie energie, oltre alla capacità di costruire quel simulacro di normalità nel clima di persecuzione e, così, di garantire ai propri figli una condizione meno brutta possibile.



Anche i bambini ariani, in fondo, sono stati vittime dell'educazione nazista...



Il nazismo educò alla morte, all'intolleranza, alla violenza. Sicuramente i bambini educati all'ideologia nazista furono anch'essi vittime, in molti modi differenti: lo furono perchè si formarono su alcuni sistemi di valori di quel genere, lo furono perchè costretti anche a combattere, lo furono anche senza essere ebrei perchè alcuni ariani vennero perseguitati e uccisi solo perchè considerati inferiori, pensiamo, ad esempio, ai bambini handicappati.

L'ideologia nazista, infatti, aveva al suo centro l'infanzia e si basava sulla distruzione di tutte quelle parti d'infanzia che non corrispondevano al suo modello.



Il suo saggio è molto documentato: dove ha reperito il materiale per prepararlo?

Questo lavoro si è costruito, soprattutto, come la raccolta di voci: voci di testimonianze orali, di raccolte, di documentazioni scritte. Le fonti principali sono state il Centro di documentazione ebraica di Milano e la Fondazione Spielberg che forniscono tantissime storie. Il mio obiettivo era ricostruire quella vicenda e, contemporaneamente, ridare voce pubblica a quei bambini.







lunedì 27 gennaio 2014

Un genocidio quasi dimenticato

In attesa dell'importante intervista che pubblicheremo domani, oggi - in occasione della Giornata internazionale della Memoria - vi riproponiamo due video sul genocidio degli armeni, per ricordare, oltre all'Olocausto degli ebrei, anche altri drammi che hanno , purtroppo, segnato il '900.
I due filmati - interessanti sia dal punto di vista del contenuto sia da quello artistico - sono stati realizzati da un ragazzo che frequenta la scuola media, in onore della sua nonna armena: per conoscere, per capire, per divulgare la Storia. Storia che appartiene a tutti.


(Ricordiamo che tutti i nostri contributi video sono anche disponibili sul canale dedicato YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani)

Verso l'abolizione del reato di clandestinità




Con 182 sì, 16 no e 7 astenuti è passata in Senato, nei giorni scorsi, la norma che abroga il reato di immigrazione clandestina, ma si mantiene il “rilievo penale delle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia”. Il reato, quindi, da una lato viene abolito e, dall'altro, viene trasformato in illecito amministrativo.

Il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, ha spiegato: “Chi per la prima volta entra clandestinamente nel nostro Paese non verrà sottoposto a procedimento penale, ma verrà espulso. Ma, se rientrasse, a quel punto commetterebbe reato” e ha precisato che: “Lo Stato deve regolare i flussi migratori in modo compatibile con le concrete possibilità di accogliere i migranti e questo non solo per ragioni di ordine pubblico, ma anche per motivi umanitari. A persone che cercano di sfuggire da situazioni di estrema indigenza e spesso disumane dobbiamo garantire un'ospitalità dignitosa. Occorre, invece, continuare a punire con severità chi sfrutta e favorisce questi fenomeni migratori incontrollati che possono causare tragedie come quelle di Lampedusa”; infine, dal punto di vista tecnico, Ferri ha aggiunto: “ La sanzione penale appare sproporzionata e ingiustificata e quella pecuniaria è di fatto ineseguibile considerato che i migranti sono privi di qualsiasi bene. Oltretutto il numero delle persone che potrebbero essere potenzialmente incriminate sarebbe tale da intasare completamente la macchina della giustizia penale, soprattutto nei luoghi di sbarco”.

L'Onorevole Khalid Chaouki, esponente dei Nuovi Italiani del Partito Democratico, ha così commentato il voto della Commissione Giustizia: “Con il voto al Senato inizia un percorso che, in tempi brevi, dovrà cancellare questo odioso reato che criminalizza i sopravvissuti alla drammatica tragedia di Lampedusa e porre le basi per una nuova legge sull'immigrazione”.

L'emendamento è stato presentato dal Movimento 5 Stelle che ha precisato: “Rimangono in piedi tutti i procedimenti per l'espulsione e tutte le altre fattispecie di reato collegati, compresi dalla Bossi-Fini. Alla prova dei fatti il 'reato di clandestinità' non ha risolto nulla aggravando solo i costi per la Giustizia con meno sicurezza per le strade, senza combattere il fenomeno e lo sfruttamento legato a quest'ultimo, addirittura aggravandolo...Con questo procedimento il clandestino rimane clandestino, ma sarà più facile procedere con le espulsioni. Con questo emendamento le espulsioni dei cittadini irregolari potranno procedere per via civile, senza inghippi, senza inutili spese burocratiche (che gravano sulle tasche dei cittadini italiani), chi troverà persone in mezzo al mare potrà salvarle senza incorrere in nessun tipo di reato. Non lasceremo più morire nessuno in maniera inumana, ci sarà più sicurezza, più legalità, più umanità”.

La Lega Nord ha risposto a queste parole e a questo voto promettendo battaglia:

L'abolizione del reato di clandestinità è una vergogna”, ha affermato Massimo Bitonci, chiedendo che il Ministro Alfano e tutto il Pdl “siano coerenti con quanto fatto e detto fino ad oggi” e che sia posto rimedio a “questo grave errore”.

domenica 26 gennaio 2014

In memoria di Nelson Mandela



 
Nella storia dell'umanità, sono tanti i fatti e le persone da ricordare e da onorare perchè - in situazioni difficili, di guerra, di discriminazione - hanno cercato la pace, la riconciliazione, il rispetto di tutti. E noi, nel nostro piccolo, in questi giorni della memoria, vogliamo onorare Nelson Mandela, a poche settimane dalla sua scomparsa: un uomo che ha lasciato un esempio e un testamento morale importantissimi.

Vogliamo ricordare Madiba con la galleria di immagini di Cinzia Quadrati, una nostra lettrice che ce le ha mandate e che ringraziamo. Le fotografie sono state scattate, lo scorso dicembre, davanti all'abitazione di Mandela a Johannesburg e, nel tragitto  tra le città di Johannesburg, Durban e Cape Town, come testimonianza dell'affetto e della riconoscenza del popolo sudafricano per il suo leader.

 (Se volete, potete cercare su questo sito gli altri articoli correlati a questo argomento)










venerdì 24 gennaio 2014

Fari puntati sulla Siria



Giovedì 23 gennaio è iniziata la Conferenza sulla Siria che ha visto protagonisti, al tavolo delle trattative, le maggiori potenze internazionali. Noi decidiamo di pubblicare il seguente articolo, uscito su http://www.thepostinternazionale.it/blog,  che racconta qualcosa di diverso rispetto agli organi di stampa occidentali e ufficiali: un altro punto di vista a cui riteniamo sia giusto dare spazio.

Ringraziamo Shady Hamadi per avercelo segnalato e l'autore per averci dato il permesso di pubblicarlo.

Il boia di Damasco reloaded


CNN, the Guardian e Le Monde pubblicano un rapporto che accusa il regime siriano di torture e assassini "su scala industriale"



di Lorenzo Declich



 



A due giorni dall'inizio di Ginevra2, la conferenza sulla Siria che - secondo diversi analisti - si rivelerà una farsa (e già in parte lo è), la CNN, seguita poi dal Guardian e Le Monde, pubblica un rapporto compilato da sei esperti (giuristi, scienziati forensi, un antropologo, un esperto di immagini digitali) chiamati a dare un loro parere su 55.000 fotografie riguardanti, secondo le stime, 11.000 persone torturate e uccise nelle carceri di Bashar al-Asad.

Le ha fornite "Caesar", nome in codice per un supertestimone che fino a ieri faceva il fotografo della polizia segreta e oggi è fuggito in un luogo a noi sconosciuto insieme alla documentazione che ha messo a disposizione.

Il quadro è terribile - i dettagli potete leggerli altrove - ma quella che esce dal rapporto è una verità che da tempo in tanti conoscono e denunciano - .ad esempio Human Rights Watch già nel luglio 2012

Il fatto che esso sia stato reso pubblico proprio a ridosso di Ginevra2 farà gridare al complotto i sostenitori del regime. Mentre, probabilmente, chi l'ha fatto filtrare ha atteso proprio una "finestra" come Ginevra2 per riportare l'occhio letargico dell'opinione pubblica occidentale sui pesi e le misure con i quali, quando parliamo di Siria, dobbiamo confrontarci.

Un'opinione pubblica che era stata abbondantemente anestetizzata con la conclusione - che conclusione ovviamente non è - della "resa chimica" del regime e che ora deve sapere che quelli torturati ed eliminati non erano jihadisti, qaidisti, terroristi: quelli Asad li ha liberati, a suo tempo, cioè all'inizio della rivolta.

No: quelle persone erano attivisti, gente che chiedeva libertà, democrazia, dignità.

Erano persone che nessuno rappresenterà a Ginevra2.


giovedì 23 gennaio 2014

Se il prezzo per la pace lo pagano le donne



Afghanistan: la scorsa settimana un commando suicida talebano ha provocato la morte di ventuno persone, aprendo il fuoco in un ristorante libanese in pieno centro, a Kabul: hanno perso la vita 8 afghani e 13 stranieri.

A fine gennaio l'esercito italiano lascerà l'ultima base, situata tra Herat e Shindand, e nel 2014 anche gli Stati Uniti ritireranno le loro truppe.

Ma cosa accadrà dopo, soprattutto per quanto riguarda la condizione sociale delle donne?

Grazie alla ratifica della CEDAW (Convenzione sull'Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione contro le Donne) del 2003, oggi le donne afghane godono di qualche diritto in più rispetto al passato: godono di un maggior accesso all'istruzione e all'uso delle tecnologie e hanno una migliore assistenza sanitaria mentre, all'epoca del dominio talebano, le donne non potevano studiare, potevano uscire di casa solo se accompagnate da un membro maschile della famiglia ed erano costrette ad indossare il burqa anche all'interno delle proprie abitazioni alla presenza di ospiti estranei.

L'ex Segretario di Stato americano, John Kerry ha dichiarato: “Da quando le donne afghane hanno più diritti, c'è da credere che non vogliono tornare indietro”, aggiungendo: “Dobbiamo essere determinati a non lasciarle sole”. Hillary Clinton, ha ribadito che, grazie ad alcuni donatori internazionali, verranno convogliate risorse economiche per finanziare progetti a favore delle donne anche dopo il 2014.

Intanto, in Italia, la vicepresidente della Camera, Marina Sereni, ha proposto, a Montecitorio, un'indagine dal titolo: Afghanistan, la cultura come sfida per la ricostruzione: opinioni e proposte della società civile sul potere delle donne e lo sviluppo educativo dei bambini e dei giovani nel loro Paese”.

Ho incontrato una giovane donna di 23 anni sposata a un uomo di 60. Vive con lui da nove anni e, mentre parlava con me, tremava: le è proibito avere contatti con chiunque. E' sposata perchè la famiglia l'ha data come 'compenso' dopo un omicidio commesso da suo padre. Il marito non è un pashtun come lei: non parlano la stessa lingua, hanno tre figli, ma non comunicano. Io per prima non sapevo che cio fossero casi così”: questo è un racconto della ricercatrice, Fereshta Abbasi Shahpasandzada che frequenta l'Università di Herat e che ha preso parte all'indagine. Il lavoro è stato curato, infatti, dalle università di Herat, di Strathclyde, di Glasgow, dalla Rebaudengo di Torino e dall'Ong Peacewaves ed è durato per tre anni.

L'attività di ricerca si è svolta nelle aree rurale e metropolitane (Herat, Kabul e Nangarhar) e sono state ascoltate più di 1500 persone diverse per età e professioni. Dai dati raccolti emerge una maggiore consapevolezza dei propri diritti di base, da parte delle donne, e anche del fatto che i bambini non possano essere educati e formati soltanto nelle moschee, ma che abbiamo anche loro il diritto ad un'educazione più ampia per riuscire ad acquisire competenze utili per lavorare in futuro.

Marco Braghero, di PeaceWaves, però sottolinea un risultato ambiguo che riguarda una parte della popolazione giovanile, quella che - nelle scorse settimane - è scesa in piazza a Kabul a manifestare contro l'approvazione proprio della legge che punisce la violenza sulle donne e vieta i matrimoni forzati: “ Nelle risposte al questionario e alle interviste”, spiega Braghero, “ c'è una grande differenza generazionale, dove gli adulti e gli anziani sono più ben disposti verso l'educazione dei bambini e i diritti delle donne rispetto ai ventenni e ai trentenni. Quelle sono le generazioni perdute, cresciute durante 25 anni di guerra”.

C'è, quindi, ancora tanto da fare. “ In dodici anni”, ha commentato Marina Sereni, “ la situazione femminile in Afghanistan è certo cambiata e lo dimostra anche questa ricerca, ma le difficoltà sono ancora enormi. Lo scorso 22 maggio, Human Rights Watch ha reso noto che nell'ultimo anno e mezzo il numero delle donne finite in carcere per i cosiddetti 'crimini morali' è aumentato del 50%. Secondo l'Ong sono tante quelle arrestate per essere scappate dalla violenza domestica e dai matrimoni forzati. Non possiamo abbassare la guardia proprio ora, tenuto anche conto della possibilità che la stabilizzazione del Paese passi per una riconciliazione con parte dell'opposizione armata.”

mercoledì 22 gennaio 2014

Per la giornata della memoria: presentazione del film IL FIGLIO DELL'ALTRA




In occasione della Giornata della memoria, il 27 gennaio, l'Associazione per i Diritti Umani presenterà il film Il figlio dell'altra, opera prima della regista francese, di origine ebraica, Lorrein Lévy. Il film veicola molti argomenti importanti e universali: si parlerà, infatti, dell'importanza della memoria storica, individuale e collettiva; di Storia contemporanea; di relazioni umane, in particolare del rapporto tra genitori e figli; della faticosa ricerca della propria identità, complicata dal contesto di guerra.

Il film si inserisce nel cineforum organizzato dall'istituto Seraphicum di Roma e sarà proiettato venerdì sera - 24 gennaio - alle ore 21.00 e sabato 25, al pomeriggio alle ore 16.00, con la presentazione dell'Associazione per i Diritti Umani.

Per il programma completo del cineforum www.seraphicum.org

Indirizzo: Via del Serafico, 1 ROMA      








Di seguito una breve recensione del film IL FIGLIO DELL'ALTRA



Tel Aviv, oggi. Orith e Alon sono una coppia con due figli: durante la visita per il servizio militare del loro primogenito, Joseph, si viene a scoprire che il ragazzo non è il loro figlio biologico perchè, alla nascita, è stato scambiato con Yacine, figlio di una coppia palestinese che vive in Cisgiordania.

L'errore è il motore del confronto tra due famiglie, tra due popoli da sempre in una situazione di conflitto; è l'occasione, per giovani e adulti, per occupati ed occupanti, di osservare e tentare di capire le ragioni dell'Altro. I padri cercheranno di negare l'accaduto; i figli tenteranno una conciliazione attraverso la conoscenza profonda; le madri si affideranno all'istinto.

La cinepresa racconta di un Paese lacerato da muri, check point, filo spinato; una città ricca, ariosa e luminosa (Tel Aviv) da una parte e i territori poveri e polverosi, in cui le persone sono imprigionate per l'odio atavico di chi governa, dall'altra. Ma la gente comune sa parlare e capire, è capace - nonostante tutto - di superare ideologie e pregiudizi per mettere in campo quei sentimenti che appartengono a tutti: la solidarietà, la comprensione, l'amore.


martedì 21 gennaio 2014

L'iter burrascoso del decreto svuotacarceri



Alla fine del 2013 è stato approvato, con il decreto legge n. 146, l'abbassamento della pena massima da 6 a 5 anni per i reati di lieve entità come, ad esempio, lo spaccio di sostanze stupefacenti che è la principale causa del sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani. Ma l'iter della riforma carceraria prosegue: dal 14 gennaio, infatti, la Commissione Giustizia, in Senato, ha esaminato quattro ddl sui temi dell'amnistia e dell'indulto.

Secondo l'articolo 1 del ddl 20, unificato al 21, "è concessa amnistia per tutti i reati commessi entro il 14 marzo 2013 per i quali – si legge - è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, ovvero una pena pecuniaria". All'articolo 3 del ddl si legge che "è concesso indulto, per tutti i reati commessi fino a tutto il 14 marzo 2013, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per le pene pecuniarie". Previste anche misure di revoca o esclusione dell'indulto e di rinuncia all'amnistia. Vengono affidate al ddl 21 altre norme che entrano più nello specifico sia dei reati previsti sia da quelli esclusi ma che ancora devono concludere l'iter di discussione in commissione Giustizia, presieduta da Francesco Nitto Palma (Forza Italia). L'esame congiunto riprenderà l'8 gennaio 2014. Il ddl 21 prevede, per esempio, che l'indulto non si applica a pene per associazione mafiosa anche straniera, riciclaggio denaro sporco, strage, usura, sequestro di persona a scopo d'estorsione, saccheggio, associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e anche produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Queste sono solo alcune delle novità introdotte dai due ddl, l'esame adesso entrerà nel vivo con il seguito della discussione e l'esame congiunto degli altri due dei quattro disegni di legge.

Non serve a risolvere il problema del sovraffollamento, è molto peggio di un indulto. E, soprattutto, premia i mafiosi”. Questo il commento del procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita, esaminando il decreto svuotacarceri. Ardita è una delle persone più competenti in materia essendo stato per nove anni direttore generale dei detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e spiega che le critiche più pesanti riguardano la “liberazione anticipata speciale”, ovvero la norma che porta da 45 a 75 i giorni di sconto concessi ogni sei mesi di detenzione. Misura che prevede una retroattività al 2010. “Avendo deciso di affrontare il sovraffollamento rinunciando alla sanzione penale – scrive Ardita nella sua relazione –, il legislatore d’urgenza sembrerebbe da un lato aver effettuato una opzione minimale, e dunque certamente non in grado di risolvere il problema dell’affollamento, e dall’altro avere scelto i soggetti da scarcerare tra i mafiosi e i più pericolosi ( condannati a pene lunghe) e solo in parte minima tra coloro che sono stati raggiunti dall’intervento penale a pioggia (in primo luogo extracomunitari e tossicodipendenti)”.
La misura prevista dal decreto si applica a tutti i detenuti, 416-bis compresi, perché si basa come unico presupposto sull’“opera di rieducazione. Che, attenzione, non vuol dire altro che colloqui con la famiglia, attività teatrali, attività sportive. Nessuno escluso, dunque. Ma quanto la liberazione anticipata inciderà realmente sul problema per cui Strasburgo rischia di condannarci, e cioè il sovraffollamento? Non potrà che incidere in modo molto marginale – scrive Ardita – "potendo riguardare al più qualche migliaio di soggetti.
Non usciranno certo di galera i poveri cristi, o saranno pochissimi, mentre verranno premiati – non si sa a fronte di cosa – coloro che sono stati condannati a pene lunghe. TRADOTTO: chi deve scontare, da sentenza, sei anni di carcere potrebbe uscire dopo tre anni e mezzo. “Anche un penitenziarista poco esperto – prosegue il procuratore aggiunto – può ben comprendere come uno strumento così concepito venga a minare alle fondamenta i principi stessi del trattamento penitenziario, che presuppone sempre percorsi nei quali i benefici siano il frutto di sacrificio, attraverso la revisione critica del proprio passato criminale e la provata volontà di reinserirsi nel tessuto sociale”.
Un regalo, bello e buono, a chi ha commesso gravi delitti e non ha mostrato neanche il minimo segno di pentimento. C’è poi un altro elemento che vale la pena evidenziare. Il ministro Cancellieri ha messo in piedi il decreto per svuotare le carceri sovraffollate, ma coloro che hanno condanne pesanti, i criminali veri, sono in celle doppie o al massimo triple, non sono certo stipati come bestie sulle brandine a quattro piani.
Più che rispondere alle accuse di Strasburgo, il provvedimento potrebbe tornare utile a delinquenti dentro i nostri confini". Ardita conclude la sua relazione con una domanda importante: perché destinare il costo sociale di quest’operazione ai cittadini, che ne pagherebbero la pericolosità, visto che – statisticamente – il numero dei reati aumenterebbe?



Intanto vi segnaliamo la seguente iniziativa che ci sembra utile e interessante
 
 

carcerAzioni. Prigionie dei nostri tempi

Sono la libertà e la sua privazione i temi centrali dell'iniziativa carcerAzioni. Prigionie dei nostri tempi, che dal 7 dicembre 2013 all'11 aprile 2014 coinvolgerà alcuni spazi dedicati alla cultura di Roma Capitale - Casa della Memoria e della Storia, Casa dei Teatri, Sala Santa Rita, Nuovo Cinema Aquila, Teatro di Villa Torlonia - oltre al Museo storico della Liberazione di Via Tasso e al Museo Laboratorio della Mente.
Attraverso mostre, incontri, letture, proiezioni, laboratori e performance, carcerAzioni ricerca e approfondisce il significato di libertà, un valore oggi sempre più negletto, incerto ed esposto al rischio di perdita delle garanzie conquistate nella storia dell'umanità. La prigionia nelle carceri, l'isolamento dal mondo per scelta o impedimento fisico, il disagio esistenziale diventano temi di una serie di appuntamenti, momenti di approfondimento che aprono lo sguardo sull'altro per riconoscervi la nostra stessa condizione, soltanto apparentemente differente.
La scelta del tema nasce dall'osservazione delle enormi trasformazioni a cui tutti assistiamo e che stanno modificando anche il nostro quotidiano, come le trasmigrazioni da un bacino all'altro del Mediterraneo, dal Sud al Nord del mondo, causa di tragiche sofferenze umane. Il mondo occidentale e democratico è uno snodo fondamentale per tornare a discutere di libertà dell'individuo contemporaneo, di prigioni come metafora dell'esistenza umana, di segregazione come vera e propria chiusura al mondo, impedimento come reclusione. Un approfondimento sul "carcere" nel senso etimologico della parola, dal latino "càrcer" - recinto, chiuso e quindi prigione - che ha radice dal verbo co-èrcio da cui il significato di luogo ove si restringe, si rinchiude ed anche si castiga e si punisce.

Per il programma completo della manifestazione: www.comune.roma.it/cultura




lunedì 20 gennaio 2014

Europa, che passione!





Europa, che passione! Storia di un amore tormentato. Questo il titolo di uno spettacolo musicale sul processo di integrazione europea dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Proposto dall'Associazione “Gli spaesati”, fondata da Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo, lo spettacolo prevede canzoni e videoproiezioni in cui vengono sintetizzati i momenti-chiave nello sviluppo di istituzioni europee sovranazionali: la guerra, la dichiarazione Shuman, il Progetto di Comunità politica, i Trattati di Roma e il mercato unico, le tensioni degli anni'70, Maastricht, il tentativo costituente agli inizi del 2000, le sfide odierne, per citare solo alcuni momenti importanti. Un pezzo di Storia che ci riguarda molto da vicino.







Abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Pigozzo - che ha scritto il testo insieme a Daniela Martinelli - per approfondire i temi dello spettacolo che si terrà venerdì 24 gennaio, alle ore 20.45 al Teatro Dal Verme, Via San Giovanni sul Muro, 2 a Milano. Ingresso libero.




Perché avete sentito la necessità di scrivere questo racconto in musica dedicato all'Europa? E perché la scelta di comunicare attraverso immagini e canzoni?



Il problema cui "Europa: che Passione!" vuole rispondere è: come rendere grandi numeri di cittadini europei consapevoli e partecipi delle decisive vicende che riguardano la creazione di istituzioni europee? Per i più giovani, si tratta di far scoprire da dove viene una storia che pesa enormemente sul loro futuro. Per i più adulti, di vedere con occhi del tutto nuovi la loro storia, perché quel che ci siamo raccontati finora ci impedisce di capire quel che ci sta accadendo e cosa possiamo fare per smettere di lamentarci e tornare a progettare con speranza concreta il futuro. La musica e il linguaggio artistico in generale ci sono parsi la risposta più naturale alle nostre esigenze: una musica popolare e immagini simboliche, che parlano in modo diretto alle emozioni del pubblico. Il problema con l'Europa non è soltanto far conoscere fatti e dati, ma ri-sintonizzare il maggior numero possibile di cittadini con il processo storico di cui fanno parte.



Quali sono state le tappe fondamentali che, dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno caratterizzato il progetto di un'Europa unita?




Noi ne abbiamo scelte dodici, non per ragioni simboliche ma pensando effettivamente ai passaggi più importanti di questa storia. Ovviamente ogni selezione di questo tipo comporta delle semplificazioni, ma sulle tappe fondamentali nessuno potrebbe avere dei dubbi. Ne vogliamo sottolineare una: 9 maggio 1950, la Dichiarazione Schuman, ovvero il gesto con cui la Francia tese la mano alla Germania Occidentale per arrivare alla gestione sovranazionale del Carbone e dell'Acciaio (CECA) - le basi dell'industria pesante (e bellica) dell'epoca, le ragioni di fondo per le contese territoriali che avevano condotto alle guerre mondiali. Troppo spesso si sente dire che il progetto europeo ha scopi economici, nasce dall'interesse di gruppi specifici: la Comunità europea nasce per creare condizioni strutturali di pace sul nostro continente, a beneficio di tutti i suoi cittadini. La creazione del mercato comune venne dopo, e per motivi diversi da quelli che ci si potrebbe immaginare: fu la risposta al fallimento del progetto che seguì la nascita della CECA, e che ci avrebbe dato l'unità politica dell'Europa già sessant'anni fa… Si chiamava CED (Comunità Europea di Difesa), una proposta ancora una volta francese che col decisivo apporto dell'Italia si trasformò nell'idea di una Comunità Politica Europea - fallì per un soffio, nel 1954. Se dovessimo indicare altre tappe essenziali salteremmo al 1989-1992 (caduta del Muro, nascita della UE con impegno a fare l'Euro) e ai giorni nostri - proprio oggi stiamo vivendo una nuova occasione storica di completare l'unità politica del continente.



Cosa vuol dire essere "europei" oggi?



Per noi, significa agire in modo consapevole e responsabile, in tutti i contesti possibili, affinché l'Europa (l'Eurozona innanzitutto, ma senza confini prestabiliti o chiusi) si doti di un governo democratico, con poteri limitati ma ben chiari, che sia competente assieme agli altri livelli di governo territoriale in materia fiscale, di bilancio e di politica economica e che sia competente in modo esclusivo in materiale di politica estera, di sicurezza e di difesa. Sembra una cosa tecnica, ma non lo è affatto: significa che essere "europei" oggi vuol dire non farsi abbindolare dal falso dibattito "Europa sì, Europa no" o "Euro sì, Euro no" - quel che c'è in gioco è "quale Europa" vogliamo avere. Quella che per non abbandonare il feticcio (ormai vuoto) delle sovranità nazionali, lascia che in ultima istanza le decisioni fondamentali siano prese dai rappresentanti degli Stati nazionali, in modo poco trasparente e in base ai rapporti di forza? Oppure quella che ha dato alla modernità la democrazia, l'universalità dei diritti, la divisione dei poteri e le istituzioni liberali, lo stato sociale? Perché la crisi di oggi ci costringe appunto a scegliere tra i vecchi feticci e la piena applicazione, alle istituzioni europee, della nostra stessa cultura politica e giuridica - sono in fondo cento anni esatti che ci rifiutiamo di effettuare questa scelta, ma rimandarla ancora ai tempi della globalizzazione significa rinunciare del tutto alla nostra autonomia e quindi anche a giocare un ruolo responsabile nella storia del pianeta.



Qual è l'origine della crisi che stiamo vivendo e quale la sua possibile soluzione?



La crisi che stiamo vivendo va compresa a due livelli fondamentali: globale ed europeo.




A livello globale, si tratta né più né meno della crisi dell'ordine che gli Stati Uniti d'America hanno saputo mantenere - nel bene e nel male - fin dalla Seconda Guerra Mondiale: un periodo in cui l'interdipendenza (produttiva, finanziaria, sociale, culturale) tra i popoli, le società, gli Stati del pianeta è andata crescendo in modo esponenziale. Oggi, sia sul piano della sicurezza che sul piano economico e finanziario, è finita la possibilità stessa per un singolo Stato, sia pure di dimensioni continentali, di garantire da solo (con i privilegi e gli oneri che gliene derivano) le condizioni necessarie all'interdipendenza globale. La crisi del 2007- 8, di cui noi europei soffriamo ancora oggi le conseguenze, non è altro che un aspetto di questo importante e difficile cambiamento storico - tra l'altro un aspetto non ancora risolto, che si può tradurre così: il predominio del dollaro non può durare per sempre, avremmo urgente bisogno di una moneta "terza" e più equa per favorire lo sviluppo economico globale, l'industria del denaro che produce denaro non potrà più essere la locomotiva della crescita economica degli Stati Uniti perché gli USA dovranno rinunciare alla facilità del credito e al basso costo del denaro che deriva loro non dalla mano invisibile del mercato ma dall'enorme afflusso di ricchezza reale prodotta altrove e attratta dal "potere di signoraggio" del dollaro.



A livello europeo, quel che stiamo vivendo è l'ennesima crisi che proviene da vicende mondiali in cui noi c'entriamo poco, ma che ci colgono impreparati e deboli perché siamo divisi. Ci capita così da quando tutti i nostri Stati nazionali sono diventati semplicemente troppo piccoli per essere realmente sovrani. Ma questa volta c'è una differenza. La crisi nata negli USA ha toccato il punto più sensibile e avanzato dell'intera costruzione europea: la moneta unica. L'Europa è entrata in crisi perché nel 1992, quando ha deciso di dotarsi dell'Euro, ha contestualmente deciso di non mettergli a fianco un governo democratico sovranazionale ma una serie di vincoli di bilancio reciproci. Come dire che una coppia decide finalmente di comprare casa e poi, per paura di perdere l'indipendenza, si crea minuziosi regolamenti sulle modalità di utilizzo e continua a vivere separata. Ma quel che serve alla coppia non sono regole sull'utilizzo della casa, è un patto chiaro per andarci a vivere assieme - persino la loro indipendenza ci guadagnerebbe… Fuor di metafora, pur di salvare l'apparenza dei feticci nazionali, gli Stati europei hanno imbrigliato le loro democrazie e si sono costretti a diffidare sempre più gli uni degli altri - se si fossero dotati di una Costituzione federale sarebbero stati di fatto più liberi e gli europei non solo sarebbero stati al riparo dalle tempeste ma avrebbero contribuito in modo molto più efficace al superamento degli stessi squilibri globali.



L'Euro da solo ha funzionato a meraviglia finché il contesto mondiale glielo ha permesso, ma ora non basterà a tirarci fuori dai guai. Per questo la crisi è diversa dal solito: se non diamo la risposta giusta, stavolta rischiamo di perdere tutto. In un contesto mondiale pieno di rischi e incertezze, in cui è in corso una redistribuzione di potere che privilegia una serie di attori di taglia continentale, l'Europa ha bisogno di piani di sviluppo di taglia direttamente continentale - ha bisogno di un governo democratico, che la rimetta in grado di discutere creativamente e collettivamente il futuro a lungo termine. Ce lo impone una stagnazione economica che è in realtà un problema strutturale vecchio di qualche decennio, camuffato dal successo temporaneo dell'Euro. Ce lo impone la necessità di corposi investimenti sovranazionali che puntino sull'innovazione, sulla formazione e sulla sostenibilità ambientale e sociale - non solo perché è idealmente giusto, ma perché è l'unica strada concreta per la nostra competitività. Ce lo impongono l'insicurezza delle zone del mondo ai nostri confini, l'insostenibilità del vecchio modello di sviluppo basato sui beni materiali e sullo squilibrio e lo sfruttamento di interi continenti (con conseguenti pressioni migratorie per sfuggirli), la salvaguardia di un modello ad elevato grado di giustizia sociale e l'importanza cruciale per il mondo del superamento pacifico di vecchie sovranità statuali bellicose.



Quanto è importante la memoria storica?



La memoria storica è fondamentale, purché non si riduca a un semplice ammonimento moralistico ma diventi un profondo stimolo morale. Questo riguarda tanto la storia collettiva quanto quella individuale. Il rischio per tutti noi è sempre di non accorgerci delle nuove forme e delle varianti che ci faranno cadere nei vecchi errori. Non basta esortarci a comportarci "bene" la prossima volta: finché non mettiamo in questione perché ha potuto diventare possibile che ci comportassimo "male", tenderemo a non riconoscere "la prossima volta". La memoria storica non ci fornisce modelli assoluti di comportamento, ma strumenti di comparazione per dare significato al presente e permetterci di pensare il futuro.


domenica 19 gennaio 2014

100ma Giornata internazionale dei migranti e dei rifugiati

Cari lettori, scusateci per il ritardo di questa pubblicazione, ma abbiamo avuto un problema tecnico.
Oggi, in occasione della 100ma Giornata Internazionale dei migranti e dei rifugiati, vogliamo riproporvi un'importante intervista che abbiamo fatto ai registi del documentario intitolato IL RIFUGIO. Lasciamo la parola a chi ha incontrato alcune di quelle persone che sono costrette a lasciare il proprio Paese d'origine a causa di guerre, persecuzioni, sfruttamento, discriminazioni. 
Immagini e testimonianze, quelle raccolte nel film, che valgono più di tanti discorsi.

Il rifugio, documentario di Francesco Cannito e Luca Cusani : profughi abbandonati in alta montagna




Nel giungo 2011, 116 profughi, provenienti dalla Libia, sono stati trasferiti in un albergo disabitato sulle Alpi, a 1800 metri. Per mesi hanno vissuto in completo isolamento nell'attesa che venisse riconosciuto il loro status di rifugiati. Il documentario, intitolato Il rifugio di Francesco Cannito e Luca Cusani, racconta la loro vita sospesa tra sogni e aspettative deluse ed è stato proiettato presso la sede del Naga, a pochi giorni dallo scadere del piano “Emergenza nord-africa” che abbandonerà per strada i profughi.
 

Abbiamo rivolto alcune domande a Luca Cusani

Quando avete girato il documentario? E come vi siete relazionati alle persone che hanno partecipato a questo lavoro?

Abbiamo girato dall'agosto 2011 per circa un anno perchè la vicenda è durata a lungo e non si sapeva se, con l'arrivo dell'inverno, gli immigrati sarebbero scesi a valle e, quando hanno cominciato a smistarli nei paesini, a quel punto abbiamo continuato a seguirli per vedere come andava a finire.
Erano tutti uomini, alcuni giovani, altri con qualche anno in più; tutti dell'Africa sub-sahariana. Alcuni erano diffidenti e chiusi, qualcuno da subito si è messo in gioco per raccontare la propria storia e noi abbiamo seguito chi si è dimostrato disponibile.
C'è stato un momento di tensione perchè loro volevano andare via da lì, ma le autorità non glielo permettevano: la nostra presenza, a quel punto, è stata ben accetta perchè potevamo avere un effetto sulle autorità stesse per il fatto di essere lì con le cineprese...

Perchè il loro arrivo è stato gestito come un'emergenza?

L'interpretazione data dalla cooperativa che si è occupata di loro è che i politici non volevano prendersi carico di questa cosa, anzi questa ondata di rifugiati dava fastidio e,quindi, la situazione è stata gestita in modo tale da metterli il più lontano possibile.
Inoltre, è stata gestita dalla Protezione Civile, secondo lo schema che abbiamo visto anche negli anni scorsi: la cosa è stata derubricata come “emergenza” e, quindi, gestita in maniera molto libera, anche affidandosi ai privati. Queste persone, infatti, sono state messe in una struttura privata che ha percepito 46 euro al giorno per ogni profugo, per quattro mesi, con un guadagno di circa 500 mila euro.

Per queste persone, invece, cosa vuol dire essere “rifugiati”?

Lo status di rifugiato permette di stare tranquilli, di avere i documenti in regola, la protezione sussidiaria etc. Però in Italia è difficile ottenere tutto questo: mancano le strutture e non si effettuano inserimenti lavorativi, ad esempio.
Queste persone sono state tenute in stand-by per più di un anno: alcuni non hanno ottenuto i documenti, ma anche quelli che li hanno ottenuti non hanno risolto i problemi pratici. Alcuni profughi sono rimasti in Italia, magari grazie all'aiuto di qualche connazionale; altri sono rimasti nella struttura di Monte Campione e dal 28 febbraio non si sa che fine faranno; altri ancora hanno tentato di andarsene.
 

Perchè molti di loro non hanno ottenuto i documenti?

Perchè la valutazione da parte delle Commissioni considera una serie di fattori: per esempio, se il Paese di provenienza sia effettivamente rischioso, le storie personali, le condizioni da cui si vuole scappare. Il tutto deve essere supportato da evidenze, da prove. E' una strada molto stretta che tanti non riescono a percorrere.

Il documentario fa emergere tre storie. Puoi anticiparcele?

Abbiamo seguito, in particolare, un nigeriano che si autoproclama un “profeta” e che, per motivi religiosi, è scappato dal Paese percorso da grandi tensioni tra il movimento islamico e i cristiani; un profugo del Gambia fuggito, invece, per motivi politici (in quanto oppositore del regime), con il padre ucciso dalle autorità e lui stesso torturato; e un altro ragazzo, sempre nigeriano, che era approdato in Libia dove era diventato un calciatore professionista, ma - a causa dell'esodo dopo la guerra - è arrivato in Italia, sperando di poter ricostruirsi una vita anche grazie allo sport, e, invece, questo non è accaduto.


sabato 18 gennaio 2014

Un'associazione e una biografia dal Libano






Pubblichiamo la seguente comunicazione che ci ha mandato una nostra lettrice, Mona Mohanna, che ringraziamo. Crediamo che possa interessare molti di voi.




Chers amis, chères amies,

J’espère que vous vous portez bien et que vous avez passé de bonnes vacances d’été.

Comme vous devez le savoir, la situation actuelle au Liban n’est pas fameuse due à la crise syrienne et à la division politique qui en découle, ce qui nous met dans une situation d’inquiétude permanente. Le Liban accueille actuellement autour de 1.5 millions de réfugiés syriens selon les estimations du gouvernement, et pourtant nous réussissons à maintenir une situation viable. L’association Amel est devenue un acteur crucial dans l’aide apportée aux populations en difficulté et aux réfugiés syriens au Liban. Le travail sur le terrain porte réellement ses fruits, et Amel a plus de 24 centres sur tout le territoire et trois cliniques mobiles aidant tous les nécessiteux, indépendamment de leurs appartenances religieuse, politique, géographique ou communautaire.J’ai le plaisir de vous écrire ce message pour vous annoncer la publication de la biographie de Kamel Mohanna: «Un médecin libanais engagé dans la tourmente des peuples: les choix difficiles» aux éditions de L’Harmattan écrit par le talentueux auteur, Chawki Rafeh, avec une préface de George Corm et une introduction d’Ibrahim Baydoun.Après trois publications au Liban en arabe, la version en français est enfin disponible. Ce livre parle d’une vie d’engagement humanitaire et est le couronnement d’années de travail et d’investissement dans des causes justes.

«Né l'année de l'indépendance du Liban, en 1943, à Khyam, un village du Liban Sud, le Docteur Kamel Mohanna a étudié à l'époque de l'analphabétisme, défiant la pauvreté pour devenir médecin. Il s'est forgé un rôle libanais en s'engageant dans le mouvement étudiant qui, dans les années soixante, a soulevé la France. Puis, dans les années soixante-dix, suivant la route tracée par Che Guevara, il rejoignit les révolutionnaires dans les montagnes du Dhofar. C'est là-bas qu'il participa à la marche des « médecins aux pieds nus » sur les pas de Mao Tsé-toung. Il résista ainsi aux sirènes de Paris, du Canada et des quartiers chics de Beyrouth. Il leur préféra, à son retour au Liban, la misère des camps de réfugiés palestiniens où il vécut auprès des pauvres et des malades dont il fit sa cause. En pleine guerre civile, dans les années soixante-dix et quatre-vingt, il sillonna le Liban, n'hésitant pas à aller à l'encontre de tous les préceptes politiques communément admis. En 1979, il créa l'association Amel, pacifiste en temps de guerre, ouverte à tous en temps de partition, prêchant la vie à l'ombre du suicide collectif. Jusqu'à aujourd'hui et à travers cette organisation non confessionnelle, il œuvre afin de développer l'humanité de l'être humain, sans tenir compte de ses appartenances religieuses, politiques et géographiques, vers un monde plus juste et plus digne.

Kamel Mohanna est aujourd’hui président d’Amel Association International et Coordinateur général du collectif des ONG libanaises et arabes. Il est aussi pédiatre et professeur à l'université libanaise.». Cette biographie est un témoignage crucial dans cette période de recrudescence de tension et de haine afin que la nouvelle génération n’oublie pas toutes les atrocités qui ont été commises au nom de différents confessionnels. Il est donc important que ce livre reçoive un accueil favorable et touche le plus de personnes possible en France, au Liban et ailleurs. Plusieurs évènements de lancement auront lieu: A Beyrouth d’abord lors du Salon du Livre du 1er au 10 Novembre où se tiendra une table ronde, et à Paris à des dates qui restent à confirmer – nous vous les communiquerons dès que possible.

Un grand merci pour votre soutien et l’intérêt que vous pourrez porter à cette biographie qui retrace le parcours d’un médecin pris dans la tourmente des hommes et d’un engagement permanent dans les causes humanitaires.

Bien cordialement,

Equipe de Communication d’Amel Association

Eva Boisrond et Marie Justine Delmas
info@amel.org.lb - youtube: amelassociation's channel
http://www.amelassociation.org
https://twitter.com/#!/AmelNGO