martedì 31 dicembre 2013

L’Angelus del Papa di tutti



Papa Francesco mette d’accordo tanti: i cattolici, ma anche i fedeli di altre confessioni, come i migranti di Lampedusa o di Ponte Galeria che a lui si sono appellati in nome dell’umanità che dovrebbe appartenere a tutti. E proprio agli immigrati sono andati il pensiero e la preghiera dell’Angelus di domenica 29 dicembre 2013.

“In terre lontane anche quando trovano lavoro - e non sempre - non sempre i profughi e gli immigrati incontrano accoglienza vera, rispetto, apprezzamento dei valori di cui sono portatori. Le loro legittime aspettative si scontrano con situazioni complesse e difficoltà che sembrano a volte insuperabili”: questo un brano del discorso del pontefice, parole lucide e prive di retorica che ritornano a far riflettere sugli ultimi tragici fatti di cronaca, che per noi lettori è soltanto, appunto, “cronaca”, ma per molti richiedenti asilo e aiuto è speranza di vita. “Pensiamo al dramma di quei migranti e rifugiati che sono vittime del rifiuto, dello sfruttamento, che sono vittime delle persone e del lavoro schiavo”: qui il Papa sottolinea, senza reticenze, quali sono i problemi e le difficoltà di chi lascia il proprio Paese d’origine, affronta un viaggio spesso spaventoso, si affida agli estranei e cerca la sopravvivenza. Uomini, donne e anche bambini. Non fa sconti, il Papa, nel ricordare le responsabilità e diventa portavoce di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini.

Ma l’Angelus è stato rivolto anche agli altri “esiliati”, quelli che non sono poi così lontani, che magari sono all’interno delle nostre stesse famiglie, nei nostri palazzi, nelle strade che percorriamo ogni giorno: sono quelli che Papa Francesco ha definito “esiliati nascosti. Gli anziani, per esempio, che a volte vengono trattati come presenze ingombranti”. A loro possiamo aggiungere anche i senzatetto e tutti quei poveri che non si meritano tanta indifferenza.

La società è, o potrebbe ritornare a farsi famiglia: una comunità dovrebbe reggersi sull’ attenzione e sulla reciprocità. E il discorso di un uomo non solo di Chiesa, ma di un uomo semplicemente religioso può contribuire a ricordarlo anche a chi, come chi scrive, è laico e crede ancora nei valori e nei diritti universali.

lunedì 30 dicembre 2013

Un artista in transito: Adrian Paci a Milano



 
Jolanda risponde ad alcune domande sulla sua vita e, con la naturalezza dei suoi cinque anni, dice di essere nata a Siena, ma di essere anche albanese; racconta di aver paura dell’Albania perché ci sono i banditi con la pistola, ma di aver voglia di tornare perché può andare da sola dalle amiche, mentre a Milano è pericoloso perché ci sono le macchine.

Jolanda è una delle due figlie di Adrian Paci, l’artista albanese che vive e lavora a Milano dal 1997. Il PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea, in Via Palestro, gli dedica una ricca retrospettiva che si può visitare fino al 6 gennaio 2014 e dal titolo “Vite in transito”.

Nato nel 1969 a Scutari, Paci è arrivato in Italia negli anni’90, gli anni del cosiddetto “primo flusso migratorio” quando tanti suoi connazionali venivano dall’Albania e dal resto dell’Europa dell’Est in cerca di fortuna su barconi carichi di persone e di speranze. Un fenomeno, questo, che da allora continua ripetersi per tanta umanità sfortunata.

Adrian Paci è, invece, arrivato in aereo e con il visto sul passaporto perché voleva studiare in Italia come vincitore di una borsa di studio in “Arte e liturgia” ottenuta presso l’Istituto Beato Angelico di Milano. E da qui inizia la sua carriera.

Una carriera che è possibile ripercorrere nella mostra in corso al PAC di Milano e il cui titolo Vite in transito fa riferimento alla propria e a quella della sua famiglia, ma soprattutto a quella di tanti migranti poveri che cercano in Occidente un eldorado, spesso veicolato dalle immagini fittizie della televisione e di altri media, ma che non corrisponde più alla realtà. Il titolo della retrospettiva , però, può essere letto anche in senso più metaforico: si riferisce, infatti, anche al divenire dell’esistenza stessa che, per tutti, porta a continui cambiamenti.

Pittura su vari materiali, tecniche diverse di tratti e di segni, videoinstallazioni, fotografie: la ricerca poliedrica creativa e stilistica di uno degli artisti contemporanei più affermati al mondo, riporta sempre al centro della riflessione temi di grande attualità. Sdraiata verso la grande vetrata dell’edificio e imponente, si allunga una grande colonna di marmo che ricorda quelle antiche greco-romane: si tratta dell’opera più recente realizzata da Adrian Paci. Una colonna di marmo orizzontale rivolta verso una parete su cui scorre un video. Nelle immagini è inquadrata una nave cargo sulla quale alcuni artigiani cinesi stanno lavorando un grosso pezzo di marmo da cui prenderà forma proprio quella colonna. The column, questo il titolo dell’installazione, riprende i temi cari all’autore: il viaggio come speranza e utopia, la de-localizzazione del lavoro, la trasformazione delle tradizioni.

A proposito di lavoro, Paci ritorna sul tema anche in Electric blue: si tratta di un video in cui un uomo, per mantenere la sua famiglia, rinuncia al sogno di diventare regista e decide di copiare videocassette di film porno. Scoprirà che suo figlio le guarda e deciderà di cancellarle con filmati presi dalla televisione. Il risultato sarà che sulle videocassette verranno registrate immagini della guerra appena scoppiata nel Kosovo mischiate a quelle porno: ma qual è la vera pornografia?

Alla Biennale 2005 di Venezia, l’artista porta un video dal titolo Turn On: al PAC è esposta una bellissima fotografia, tratta da quell’opera, che racconta da sola altre vite in transito, o meglio, in attesa: è ritratto, infatti, un gruppo di disoccupati di Scutari, seduti sui gradini dello stadio, ad aspettare di essere reclutati per un lavoro a cottimo. E’ notte e ognuno di loro ha con sé un generatore di corrente: una luce fioca che illumina volti seri e segnati dal freddo; una luce tenue ancora di speranza.

La speranza, o l’illusione, dei protagonisti anche del video intitolato Centro di permanenza temporaneo: lo spettatore si trova di fronte a una scena di mobile immobilità, l’aeroporto come luogo di transito per eccellenza, ma anche non-luogo.  La scaletta del velivolo piena di persone pronte a partire…ma manca l’aereo e i migranti restano sospesi nel vuoto.

sabato 28 dicembre 2013

Save my Dream

Spazio Tadini
 
 

Cari lettori, oggi vi proponiamo il video dell’incontro che abbiamo avuto con Mohamed Ba – attore e scrittore – in occasione del progetto ideato e organizzato da Associazione Spazio Tadini, intitolato SAVE MY DREAM: alcuni artisti hanno donato un’opera, esposta nella mostra allestita nello spazio dell’associazione fino alla fine di gennaio. Le opere sono in vendita e il ricavato sarà devoluto ai Comuni di Lampedusa e di Linosa per contribuire all’aiuto e all’accoglienza dei migranti.

L’Associazione per i Diritti Umani ha organizzato, giovedì 12 dicembre scorso, l’incontro-intervista con Mohamed Ba per approfondire i temi legati ai processi migratori: perché molte persone decidono di abbandonare il Paese d’origine? Quali sono le difficoltà che incontrano una volta arrivate in Europa, in Italia?  Cosa dovrebbero fare le istituzioni per migliorare le loro condizioni? Si è discusso di questo e di molto altro a partire anche dal libro intitolato “Il tempo dalla mia parte” e dallo spettacolo teatrale “Il riscatto”.

Vi ricordiamo, inoltre, che abbiamo scritto la recensione del film Và pensiero-Storie ambulanti, recensione che potete trovare nei post precedenti. Il film riprende queste tematiche e Mohamed è uno dei protagonisti: non solo del film, ma purtroppo, anche di una bruttissima storia che lo ha segnato, in tutti i sensi, e che dovrebbe continuare a far riflettere.

Ecco a voi il video della serata!
 


venerdì 27 dicembre 2013

Quelle bocche cucite

 
Foto Ansa
 
Senza parole. Basta parole, vogliamo i fatti. Forse con queste frasi si può interpretare la scelta di cucirsi, letteralmente, le labbra; una scelta effettuata da dieci immigrati - sei marocchini e quattro tunisini - rinchiusi nel Centro di Identificazione e di Espulsione di Ponte Galeria, nel Lazio, come forma di protesta per le condizioni in cui si trovano e anche per la scomparsa, da parte di uno di loro, dei soldi inviati alla famiglia in Tunisia mentre si trovava in carcere, a Civitavecchia.
Foto Ansa
E' vero: alcuni immigrati sono stati in prigione, ma dopo aver espiato la pena sono stati di nuovo rinchiusi nel CIE. Per questo motivo il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha rilasciato un comunicato in cui chiede il superamento dei CIE e nuove procedure per il rientro nei Paesi d'origine per i migranti detenuti.
Il Garante si riferisce alla possibilità del rimpatrio volontario assistito (RAV) che dovrebbe essere finanziato dal Ministero dell'Interno, un progetto che prevede - per chi sceglie di tornare in patria al termine della pena - di intraprendere un percorso assistito basato su tempi certi e senza passare di nuovo per il CIE dove i migranti vengono identificati. Invece “l'introduzione di un meccanismo di identificazione già in carcere”, sostiene  Marroni, “è la premessa per permettere ai detenuti stranieri di scontare la loro pena nel Paese d'origine”.
Foto Ansa
Il Direttore del Centro, Vincenzo Lutrelli, afferma che la situazione è sotto controllo, anche se uno dei migranti con le labbra cucite si è sentito male e altri 37 stanno facendo lo sciopero della fame.
Un ultimo episodio di disperazione, inoltre, si è verificato lunedì scorso, quando un urlo improvviso è salito dal reparto donne del centro, dove si trovano circa trenta persone. Una giovane tunisina voleva togliersi la vita, impiccandosi con un lenzuolo. Lei e il suo compagno, arrivati a fine novembre a Lampedusa, avevano appena ricevuto il rigetto della loro richiesta di asilo politico. Lutrelli ha parlato con la donna, le ha fatto incontrare il compagno ed è riuscito a farla desistere dal suo intento suicida. Ma per quanti richiedenti asilo la situazione potrebbe degenerare?
Intanto, in questi giorni, un altro gesto, un'altra scelta significativa: quella del deputato Pd, Kalid Chaouki, che si era rinchiuso nel centro di Lampedusa per chiederne la chiusura dopo la vergogna dei migranti “disinfettati” con un getto d'acqua gelata, in pieno inverno, all'aperto e privati degli abiti. Il giorno della vigilia di Natale sono cominciati i trasferimenti degli immigrati verso altre strutture.
Il ministro per l'integrazione, Cècile Kyenge, ha così commentato le notizie  che arrivano dai CIE: “Gli ultimi fatti confermano la necessita’ di modificare un sistema che ha portato tensioni e difficolta’ all’interno dei centri”, impegnandosi a ripensare e migliorare, 'di concerto con il Governo', le misure di accoglienza”, mentre i migranti di Ponte Galeria scrivono a Papa Francesco, appellandosi al suo senso di giustizia.
 
 
 

giovedì 26 dicembre 2013

Parlare di mafia e sorridere: si può


Parlare di mafia, sorridere e commuoversi: è possibile. E' riuscito a farlo Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif - ex del trio de Le Iene, celebre trasmissione televisiva di Italia 1, ma anche aiuto regista di Marco Tullio Giordana in quel capolavoro de I 100 passi (sulla vicenda di Peppino Impastato) di cui La mafia uccide solo d'estate è come un fratello cinematografico.
Diliberto è cresciuto professionalmente e ha deciso di mettersi dietro la cinepresa per raccontare la mafia attraverso gli occhi di un bambino, Arturo, e con il registro della commedia che, spesso, durante la narrazione, porta al sorriso.
Nato a Palermo, Arturo è stato concepito lo stesso giorno in cui venne ucciso Michele Cavataio per mano di Riina, Provenzano, Bagarella e da due affiliati della famiglia Badalamenti, tutti travestiti da militari della Guardia di Finanza. 

Sono gli anni in cui la mafia abbatte quegli eroi contemporanei che hanno lottato fino all'ultimo per sconfiggerla, in una città omertosa, impaurita o rassegnata. E il piccolo Arturo, che cresce in questo ambiente complesso e contraddittorio dove alcuni sono gentili e altri spietati, vuole incontrare chi sta dalla parte giusta come il commissario Boris Giuliano o il Generale Dalla Chiesa. L'unico che non riesce ad incontrare è il Presidente del Consiglio, che in quegli anni era Giulio Andreotti, ma che dallo schermo televisivo gli impartisce una lezione sentimentale. Sì, perchè il nostro giovane protagonista è da sempre innamorato di Flora che vede come una principessa fin dai tempi delle elementari.
Passano gli anni, i bambini crescono e Arturo coltiva la passione per il giornalismo; non riesce ad essere molto diverso da quella comunità che non vuole ribellarsi al malaffare. Ma, nel '93, qualcosa cambia. Cambia per Arturo e Flora, cambia per Palermo, cambia per l'Italia intera: l'uccisione dei giudici Falcone e Borsellino squarcia le coscienze e riconsegna la voglia di dire “no” alla violenza e all'ingiustizia. E dal sorriso si passa alla riflessione. 
Un viaggio lucido, a tratti anche divertente, in un Paese-bambino che, forse, un po' negli anni è cresciuto: come il protagonista, infatti, anche gli italiani hanno acquisito lucidità e fermezza nell'affrancarsi dalla cultura della prevaricazione e delle minacce per desiderare riaffermare i valori dell'onestà e dell'amore, quello autentico e pulito. Pif, anche lui palermitano, guarda con disincanto la propria terra, ma le attribuisce la capacità di riscattarsi grazie al ricordo e all' esempio di tante persone cadute per lasciare a tutti noi un futuro limpido e rassicurante. Arturo legge le targhe con i nomi di quelle persone, uomini e donne, giovani e meno giovani, che hanno perso la vita in nome della libertà, della giustizia, del rispetto e della legalità. Quelle targhe che devono essere un monito quotidiano per il nostro impegno a fare altrettanto.

Il film lLa mafia uccide solo d'estate è ancora proiettato nelle sale cinematografiche italiane e presto uscirà in DVD.


  

lunedì 23 dicembre 2013

Le novità del decreto carceri



Martedì 17 dicembre, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Giustizia, Mariagrazia Cancellieri, ha approvato il decreto legge riguardante le carceri e il disegno di legge sul processo civile.
Il Presidente, Giorgio Napolitano, la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell'Uomo avevano più volte sollecitato il governo italiano a rafforzare misure, anche alternative al carcere, per risolvere il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari, nel rispetto della sicurezza sociale.  
Mauro Scrobogna La Presse
Il decreto sulle carceri, innanzitutto, prevede la nascita del “Garante nazionale dei diritti dei detenuti”, senza alcun onere per la finanza pubblica.
Viene, poi, incentivata la scarcerazione anticipata. In questo caso, ha affermato il Ministro Cancellieri, resta ferma e fondamentale la decisione del giudice: non si tratta di una scarcerazione “di massa” e automatica, ma viene spalmata nel tempo e comunque è sottoposta alla valutazione del giudice che deve verificare il corretto comportamento dei detenuti. La Cancellieri ha, inoltre, voluto sottolineare che non si parla di “indulti o indultini perchè non c'è nulla di automatico e tutto viene affidato al giudice il quale prevede, se lo ritiene, l'uscita agevolata”. La riforma della custodia cautelare è, invece, al vaglio del Parlamento.
Nasce il reato di spaccio lieve e viene inserita un'altra nuova misura: l'uso del braccialetto elettronico per i piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti. I soggetti tossicodipendenti potranno essere affidati a comunità di recupero e agli organismi di assistenza sociale per ottenere le cure di cui necessitano. L'uso del braccialetto elettronico riguarda i casi di detenzione domiciliare e garantisce, secondo le parole dei ministri, “ il mantenimento di adeguati standard di controllo istituzionale sui detenuti”. 


In tema di detenzione ed espulsione degli stranieri il Guardiasigilli ha dichiarato: “Sarà più facile l'espulsione dei detenuti stranieri”: il ddl prevede , infatti, l'anticipazione delle procedure di identificazione al momento dell'arresto. Tale anticipazione dovrebbe avvenire grazie ad un'amministrazioone congiunta tra Ministero dell'Interno, Ministero di Giustizia e consolati e questo eviterebbe il transito degli stranieri verso i CIE. Una volta espiata la pena, i detenuti stranieri dovrebbero essere espulsi anche se le espulsioni saranno disposte in base alle risorse disponibili e secondo la decisione di un magistrato di sorveglianza.
Per quanto riguarda, infine, la giustizia civile, le procedure saranno più veloci. In caso di cause semplici, il giudice potrà passare a una riduzione del processo da tre a un anno, avvalendosi anche delle consulenze tecniche: questo può risultare utile, ad esempio, nei contenziosi per gli incidenti stradali.
Il Premier Letta, al termine della lettura del testo, ha voluto ribadire che dalle misure sulle carceri “non ci sono in nessun modo elementi di pericolosità per i cittadini”.



sabato 21 dicembre 2013

Se ci piacciono i gamberetti...



La globalizzazione fa viaggiare anche le merci e, tra queste, i prodotti alimentari; ma se siamo ghiotti di piccoli crostacei, al momento dell'acquisto, guardiamo da dove provengono e facciamo una riflessione.
La Thailandia è il Paese leader mondiale nell'esportazione dei gamberi perchè ne produce una grandissima quantità e perchè i gamberi Thai sono più convenienti di quelli di altri Paesi. Ma per questo c'è una spiegazione.
Un documentario trasmesso dal servizio pubblico statunitense - a cui ha fatto seguito una serie di indagini - dimostra che l'industria del gambero sfrutta il lavoro migrante minorile.
Secondo i dati ufficiali solo 150 su 700 operatori di pesce primari sono registrati presso il Ministero e le grandi fabbriche basano il loro guadagno sulle centinaia di capannoni in cui lavorano bambini che provengono dal Myanmar. Perc proprio loro? Perchè vengono percepiti come una minaccia alla sicurezza nazionale, diventando, per questo, vittime di un pregiudizio etnico.
Le statistiche rilevate dal Labour Rights Promotion Network (e riportate anche da Altroconsumo, dicembre 2013), dicono che il 19% dei minori sfruttati ha meno di 15 anni e il 22% ha tra i 15 e i 22 anni. Sono costretti a sgusciare gamberi per dodici ore al giorno, chiusi nei capannoni sporchi e soggetti a sostanze chimiche dannose; spesso subiscono maltrattamenti fisici da parte dei caporali e la confisca dei documenti; sono stati, inoltre, riscontrati anche casi di estorsione da parte dei poliziotti. Questa situazione non riguarda solo il settore della pesca, ma anche quello dell'edilizia, dell'agricoltura e dell'abbigliamento dove sono impiegate, come moderni schiavi, migliaia di persone, tra giovani e adulti.
Ancora più serio il problema quando si tratta di bambini e adolescenti che, anche secondo la legge thailandese, dovrebbero vedersi assicurato il diritto ad un'istruzione gratuita e obbligatoria e che, invece, si ritrovano a sopravvivere in condizioni terribili.
Il problema è ora monitorato dal governo degli Stati Uniti che ha trasformato il “Rapporto sul traffico di persone” in uno strumento diplomatico per avvertire Bangkok che questo traffico deve terminare e, se la Thailandia non dovesse dimostrare la volontà di cambiamento, le conseguenze a livello diplomatico ed economico sarebbero importanti anche perchè verrebbe equiparata, in termini di violazione dei diritti umani, alla Corea del Nord e all'Iran.

venerdì 20 dicembre 2013

Il video delle polemiche e dell'ipocrisia




Sono persone eritree, ghanesi, siriane, kurde, nigeriane e di altre nazionalità. Sono persone e basta. Sono state riprese denudate, in fila, mentre sui loro corpi veniva sprizzato un getto di disinfestante per prevenire il pericolo di malattie infettive, ammesso che alcuni migranti ne siano affetti. Queste le immagini del video trasmesso in esclusiva dal TG2, un video che fa indignare.
Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, l'isola che da anni accoglie chi scappa dal proprio Paese d'origine e dove si trova il Centro di identificazione e di espulsione in cui sono state fatte le riprese, ha così commentato la situazione: “ E' una pratica da lager. Una pratica sanitaria non si fa all'aperto, irrorando gli ospiti nudi, con un tubo. Lampedusa e l'Italia intera si vergogna di queste pratiche di accoglienza”. A queste parole hanno fatto seguito molte altre di esponenti delle istituzioni. La Presidente della Camera, Laura Boldrini ha aggiunto: “ Uomini e donne, per essere sottoposti ad un trattamento sanitario, vengono fatti denudare all'aperto in pieno inverno. Quelle immagini non possono lasciarci indifferenti. Tanto più perchè arrivano dopo i tragici naufragi di ottobre e dopo gli impegni che l'Italia aveva assunto in materia d'accoglienza. Quesi trattamenti degradanti gettano sull'mmagine del nostro Paese un forte discredito e chiedono risposte di dignità”.
Si parla di “immagine” di un Paese quando si dovrebbe parlare di “civiltà” e, inoltre, in entrambi questi interventi viene ripetuto il termine “accoglienza”, ma l'accoglienza si mette in pratica con i fatti e non con discorsi e promesse.
Sono intervenuti, ovviamente, anche il Ministro per l'integrazione Cècile Kyenge e il Premier Enrico Letta, ai quali è stata fatta una richiesta chiara da parte di Laurens Jolles, delegato dell'UNHCR per l'Italia e il Sud Europa: “ Il centro di accoglienza dovrebbe essere riportato rapidamente alla sua capienza originaria di 850 posti” per dare agli ospiti un'assistenza adeguata.
Ma che le condizioni dei migranti che vengono smistati all'interno dei CIE siano gravissime non è notizia di attualità. E' una situazione che permane invariata da anni. L'Associazione per i Diritti Umani, alcuni mesi fa, ha intervistato Alexandta D'Onofrio che, in un progetto con Grabriele del Grande, ha realizzato un film dal titolo La vita che non CIE. Intervista che vi riproponiamo qui di seguito.

La vita che non CIE di Alexandra D'Onofrio

Più di mille migranti si trovano, in questo ultimo periodo, nel centro di accoglienza di Lampedusa: una struttura che avrebbe una capienza massima di 300 posti. Dall'isola i migranti vengono smistati nei CIE, Centri di identificazione e di espulsione. Ma cosa succede a queste persone, senza permesso di soggiorno, dentro e fuori dai Cie? Ne abbiamo parlato con Alexandra D'onofrio, regista del documentario intitolato La vita che non Cie, una trilogia di cortometraggi, prodotta da Fortress Europe, in cui si narrano le storie di un ragazzo che cerca di raggiungere la moglie incinta, dalla Tunisia all'Olanda; di un uomo che cerca di aiutare, dall'esterno, i suoi compagni rimasti all'interno del Cie di Torino, dopo esserci stato lui stesso; e di un figlio che non cresce con il padre, espulso in Marocco dopo aver vissuto tanti anni in Italia. Un lavoro cinematografico nato nel Cie di Modena dove, nel febbraio 2011, Gabriele Del Grande ha conosciuto Kabbour, il protagonista dell' ultima vicenda intitolata “Papà non torna più”. Alexandra D'Onofrio ha, poi, seguito Kabbour in Marocco e ha deciso di raccogliere altre storie per riflettere sul tema della giustizia e sulle politiche riguardanti l'immigrazione ma, soprattutto, per raccontare relazioni difficili e sentimenti universali.

La vita che non Cie è il titolo di una trilogia che, attraverso le vicende di un ragazzo, di un uomo e di un bambino, racconta l'odissea dei migranti da punti di vista differenti. Da dove nascono queste storie?

Abbiamo girato questo film tra marzo e aprile 2011 e ci siamo posti l'obiettivo di andare a cercare dei ritratti, delle storie che potessero raccontare ciò che non si viene a sapere dai canali ufficiali, dai media. Il problema è stato che, nel 2011, c'era il veto di entrare nei Cie per giornalisti e documentaristi (adesso, invece, c'è questa possibilità) e, quindi, abbiamo tessuto le storie di persone che ci hanno raccontato i Cie da fuori. Nel primo caso si racconta la storia d'amore di un ragazzo che è evaso: il fotografo Alessio Genovese - che ha seguito la vicenda fin dall'inizio e del quale ho usato le immagini lavorando in Audiodoc - aveva incontrato la moglie di Nizar e aveva cominciato a fotografare lei mentre andava a trovarlo al Cie. Dopo un mese c'è stata una rivolta, i reclusi sono evasi e il Cie è stato chiuso. Si tratta del Cie di Chinisia, fuori Trapani: Gabriele mi ha proposto di scrivere il soggetto e poi io ho seguito Nizar in Olanda dov'era andato per raggiunegre la sua compagna in attesa di un figlio... Attraverso questi corti abbiamo, infatti, voluto raccontare sentimenti universali: l'amore, la genitorialità, la solitudine.
Nel secondo corto si parla del Cie di Torino attraverso la storia di una persona rilasciata dopo circa cinque mesi di reclusione. Al tempo abitavamo a Torino e l'unica realtà che restava in contatto con i detenuti era una radio, Radio Black Out, che metteva in onda le interviste alle persone dentro il Cie. Abdelrahim, una volta uscito, si era impegnato a fare “da tramite” e a portare dentro alcune cose che potessero servire ai reclusi, come cibi o vestiti, ad esempio; il film, infatti, inizia con lui che va al mercato a comprare reggiseni per le ragazze della sezione femminile. Abbiamo cercato di capire quanto la vita di Abdelrahim fosse cambiata dopo l'esperienza di detenuto nel Cie e abbiamo anche cercato di capire il motivo della sua scelta di mantenere questa relazione con i compagni.
 La terza storia parla di una deportazione, di un rimpatrio. E' la storia di Kabbour che ha vissuto in Italia per 11 anni, ha fatto le medie e le superiori qui per poi lavorare nei mercati, ma si trova costretto a tornare in Marocco perchè vendeva CD contraffatti. E' un reato per il quale è stato considerato “socialmente pericoloso” e per cui ha perso il permesso di soggiorno ed è stato rispedito indietro. Nel frattempo, Kabbour si è formato una famiglia con una compagna, cittadina polacca, con cui ha avuto un bambino, Tareq che, l'anno in cui il padre è stato rimpatriato, aveva cinque anni.

In base alle testimonianze che avete raccolto, com'è la vita all'interno dei centri? O si deve parlare di sopravvivenza?

Una cosa interessante del primo corto è che siamo riusciti ad utilizzare materiale realizzato dai protagonisti stessi, che hanno filmato con i telefonini. Le immagini riprendono la traversata, i primissimi giorni con i festeggiamenti per essere riusciti ad arrivare, con cerchi di canti e danze, ma poi i cellulari hanno ripreso anche la situazione all'interno dei Cie, con le rivolte o con le persone che stanno lì senza fare niente, ingabbiate, a guardare il cielo. Per i reclusi la cosa straziante è non capire perchè: non hanno commesso reato, hanno solo fatto la traversata senza avere la carta giusta oppure si trovano senza permesso di soggiorno perchè l'hanno perso strada facendo o perchè il loro contratto di lavoro non è stato rinnovato. Non avere il permesso è un reato amministrativo che equivale a passare con il semaforo rosso, eppure queste persone sono detenute. Oltretutto, il periodo di reclusione è salito da sei a diciotto mesi.

Nei titoli di coda si sottolinea che il 60% delle persone trattenute non viene né identificato né rimpatriato. Dopo un anno e mezzo di Cie, cosa succede?

Una volta fuori, queste persone rischiano semplicemente di non essere ancora identificate e di essere riportate dentro. Mentre giravo la storia a Torino ci è stato spiegato che - siccome i detenuti non riescono a dare un senso a quello che succede, non sanno quando verranno rilasciati o se verranno riportati a casa - non riescono a dorire di notte e , quindi, chiedono i calmanti. I calmanti, però, vengono dati molto facilmente perchè servono anche a mantenere la calma all'interno del Cie; vengono usati per sedare la rabbia. Quando facevo le interviste per telefono, capivo che dall'altra parte c'era una persona che non riusciva a parlare perchè intontita dai farmaci.

Nel terzo corto, attraverso la storia di Kabbour e Tareq, padre e figlio, si affronta il tema del “principio del bilanciamento”, riconosciuto dalla Corte europea di Giustizia: di cosa si tratta?

Il principio del bilanciamento dice che spetta al giudice dare la priorità all'interesse del minore oppure a quello dello Stato. Se il soggetto è stato considerato un “pericolo sociale” ma ha un figlio, è lo Stato che decide a chi o a cosa dare la priorità, ma non esiste una normativa precisa riguardo a queste situazioni. Kabbour è uno di quelli che sono riusciti a vincere la causa e da circa due mesi è ritornato in Italia.



giovedì 19 dicembre 2013

I detenuti incontrano i cittadini


 

Mentre il Consiglio dei Ministri dà via libera al decreto sulle carceri (di cui parleremo nei prossimi giorni), noi diamo voce anche ai detenuti. L'Associazione per i Diritti Umani, ha partecipato ad un' importante iniziativa per capire meglio come si vive, o meglio si sopravvive, negli istituti penitenziari italiani.
Come si fa a muoversi, per mesi o per anni, in una cella di pochi metri quadri? Fino a ventuno ore al giorno e con cinque persone accanto...Come si fa a far trascorrere un tempo infinito senza avere nulla da fare? Come è possibile salvaguardare la propria dignità?
Queste e molte altre domande hanno dato vita all'incontro che si è tenuto, a fine novembre, presso l'Urban Center di Milano, incontro al quale hanno partecipato
Davide Dutto, fotografo - coautore con Michele Marziani del libro "Il gambero nero" (Edizioni Cibele) e promotore dell'associazione "Sapori reclusi" che, partendo dal comune bisogno
dell'uomo di nutrirsi, vuole riunire uomini e donne che vivono nascosti agli occhi dei più, con il resto della società - e Giorgia Gay, antropologa, giornalista ed autrice dell'e-book ... e per casa una cella - I detenuti e lo spazio: tattiche di reazione e domesticazione, una ricerca sulla percezione e l'utilizzo dello spazio in una comunità ristretta.
La serata ha visto la partecipazione significativa,di due detenuti del carcere di Bollate e di Opera che hanno raccontato la loro esperienza, ma hanno posto l'accento anche sulle difficoltà di coloro che si trovano ancora nelle strutture penitenziarie e di coloro che sono usciti, ma che fanno fatica a reintegrarsi nella società.
Al dibattito sono intervenuti, infine, anche Emilio Caravatti e Lorenzo Consales, docenti a contratto del Politecnico di Milano che hanno raccontato la loro esperienza di interazione tra studenti di architettura e persone detenute sulla riprogettazione degli spazi del carcere.



L'Associazione per i Diritti Umani vi propone il video dei momenti più interessanti. (Vi ricordiamo che potete vedere il materiale filmato della nostra associazione anche sul canale dedicato Youtube)












mercoledì 18 dicembre 2013

Apre a Milano la Casa dei diritti


Venerdì scorso è stata inaugurata a Milano la Casa dei diritti, in Via De Amicis 10, uno spazio annunciato dal palco del Pride lo scorso giugno e che secondo le parole di Pierfrancesco Majorino, assessore alle politiche sociali, “rappresenta il racconto di quello che stiamo facendo e che vogliamo continuare a fare per la promozione della persona”.
Questo luogo di proprietà del Comune segna il patto tra l’amministrazione, l’associazionismo ed il terzo settore con lo scopo esplicito di declinare la parola diritto in varie accezioni e sarà la sede permanente di alcuni servizi: dai centri anti-violenza al testamento biologico, dalla task force contro la discriminazione sull’orientamento sessuale alle attivita’ di 2G, dalle esperienze legate al forum città-mondo (in attesa dell’apertura del museo delle culture) ai percorsi laboratoriali per le scuole milanesi sui diritti umani nel mondo con Survival.
In particolar modo poi, l’intervento del sindaco Pisapia ha sottolineato il fatto che sia l’istituzione ad aprire una casa dei diritti ma che poi la gestirà insieme ai cittadini con due effetti: parlare al Paese, in particolare a Roma per combattere tutte le discriminazioni e parlare al mondo intero, tramite la vetrina di Expo2015 come dimostra l’esempio della Cascina Triulza, struttura che si occupa del tema della fame nel mondo e che nel post-Expo diventerà la Casa delle ong. Il sindaco ha, infatti, illustrato il progetto della Casa dei diritti con queste parole: “Un luogo che riafferma Milano come capitale dei diritti e dell’innovazione sociale. Un luogo da cui far partire anche un’azione di stimolo al Governo e al Parlamento su temi ormai centrali per riallineare il diritto e la politica alla realtà sociale. Mi riferisco alla lotta contro la discriminazione sessuale, al contrasto all’omofobia, alla tutela della donna, tutti temi che non devono più aspettare di diventare emergenze sociali, ma devono far parte dell’agenda ordinaria della politica”.
Nella seconda metà di gennaio si terrà un Forum in cui verrà spiegato alle associazioni come partecipare a questo progetto. E noi attendiamo fiduciosi che venga spiegato a tutte le associazioni che operano a Milano come si può farne parte e qual'è l'iter per proporre le iniziative. 
 
A cura della nostra redazione



martedì 17 dicembre 2013

Và pensiero. Storie ambulanti, il nuovo film di Dagmawi Yimer


Mohamed Ba, accoltellato da uno sconosciuto mentre aspettava un autobus in pieno centro, a Milano; Mor Sougou e Cheike Mbengue, feriti gravemente a Firenze, nel 2011, in occasione dell'eccidio di Piazza Dalmazia; e poi ancora due persone uccise. Queste sono le storie di chi è sopravvissuto ad episodi di violenza ingiustificata e ingiustificabile, esperienze e testimonianze raccolte nel film Và pensiero. Storie ambulanti di Dagmawi Yimer, presentato nei giorni scorsi a Bologna e prodotto da Amm-Archivio delle memorie migranti. Un film importante per mantenere viva la memoria su fatti recenti e per continuare un approfondimento sui temi dell'immigrazione e del razzismo. Un fenomeno questo che può far paura o far torcere il naso a qualcuno ma che, in forme più o meno sottili, serpeggia ancora nella società italiana, una società che, come può ricordare il titolo del film con un omaggio a Giuseppe Verdi, dovrebbe essere ricca di Cultura e la Cultura dovrebbe aprire la mentalità.
Il regista, rifugiato dall'Etiopia, vuole raccontare al pubblico la violenza attraverso la voce e le emozioni di chi l'ha subita sulla propria pelle a causa del colore di quella pelle. E l'intento è duplice: far uscire le vittime dall'anonimato e far capire che, dietro ai corpi e ai volti, ci sono degli uomini e tutti gli esseri umani sono uguali.
Il film parte da un fatto di cronaca: l'11 dicembre 2011 Gianluca Casseri, estremista di destra, spara e uccide quelli che, su molti organi di stampa, vengono definiti genericamente “due immigrati senegalesi”: Yimer, invece, li fa conoscere attraverso il loro nome e cognome per dare sostanza e dignità alle loro vite a alla loro morte: Diop Mor che ha lasciato un bambino che, all'epoca, aveva sei anni e Sam Modu, 40 anni che lavorava in Italia per mandare i soldi in Senegal, dove vive sua figlia tredicenne che lui non aveva mai conosciuto.
Mohamed Ba, ferito nel 2009 e sopravvissuto ad un accoltellamento, racconta che la ferita ancora più dolorosa (e probabilmente inguaribile) gli è stata inflitta dall'indifferenza delle persone che, al momento dell'aggressione, hanno fatto finta di niente e delle istituzioni che, in seguito all'accaduto, non hanno dato alcun segnale. Un uomo con la testa rasata gli si avvicina e dice “Qui c'è qualcosa che non va” e Mohamed risponde: “No, non c'è niente che non va, è una spledida giornata di sole”. L'uomo estrae il coltello e gli affonda la lama nello stomaco. Non contento, quando Mohamed cade a terra, gli sputa addosso. E ancora: Moustafa Dieng, a causa dell'aggressione di Casseri, ha perso l'uso delle gambe e ora vive in centro per disabili per seguire corsi di riabilitazione senza, però, riuscire a riprendere a lavorare.
Queste quattro persone sono due volte vittime, secondo il regista: vittime dell'odio cieco e ottuso, ma vittime anche della stampa e dei mezzi di informazione che invece di mettere al centro della notizia le conseguenze per gli stranieri aggrediti, hanno scelto di parlare (e di accandere i riflettori) sui delinquenti. Questo film vuole ristabilire un giusto equilibrio e una corretta prospettiva nell'analisi dei fatti.


lunedì 16 dicembre 2013

Quando i bambini sono tanto poveri


 Un minore su dieci, in Italia, vive in uno stato di povertà assoluta, un milione e 344 bambini che subiscono le conseguenze devastanti della crisi economica e dei tagli agli enti locali: questo emerge dall'ultimo rapporto redatto dall'organizzazione Save the children dal titolo “L'Italia SottoSopra”, 4° Atlante dell'Italia (a rischio).
Spesso sono figli di disoccupati o monoreddito oppure i loro genitori hanno un livello di istruzione assente o molto basso: dal rapporto emerge se i capofamiglia sono privi di un titolo di studio, il tasso di povertà è del 3,1%. 


La logica obbligata del risparmio costringe i piccoli e gli adolescenti a vedersi privati dei servizi di base o di cure mediche: molti non si possono permettere una visita dall'oculista o dal dentista, i libri per la scuola, anche alcuni capi di abbigliamento; tanti vivono in condizioni abitative disagiate per non parlare della possibilità di partecipare ad attività ricreative o sportive.
Interessante anche il dato che i bambini più poveri soffronto spesso di obesità: non è una contraddizione, ma un'altra conseguenza del loro stato. Non si alimentano con cibi sani e nutrienti, perchè costano troppo, per cui consumano prodotti che “riempiono”, ma fanno ingrassare e minano la salute.
La povertà, colpice maggiormente e come sempre, il Centro e Sud dell'Italia, ma anche nel Nord si registra un incremento del 43% rispetto a due anni fa.
Questi dati sono sottolineati dalle parole di Valerio Neri, Direttore generale di Save the children Italia: “In questa fase di crisi i bambini e gli adolescenti si trovano stretti in una morsa: da una parte c'è la difficoltà di famiglie impoverite, spesso costrette a tagliare i consumi per arrivare alla fine del mese, dall'altra c'è il grave momento che attraversa il Paese, con i conti in disordine, la crisi del welfare, i tagli dei fondi all'infanzia, progetti che chiudono. In mezzo, oltre un milione di minori in povertà assoluta, in contesti segnati da disagio abitativo, alti livelli di dispersione scolastica, disoccupazione giovanile alle stelle”. 


Grave, infine, il risultato sull'analisi del cosiddetto “early school leavers”: 758mila ragazzi sono fermi alla licenza media e tantissimi abbandonano il circuito formativo. Nel dossier si legge, infatti, che la scuola “fa più fatica ad attrarre e trattenere gli studenti più disagiati, impedendone la dispersione e il rafforzamento delle competenze”.
Un numero così grande e crescente di minori in situazione di estremo disagio, ci dice una cosa semplice”, aggiunge Neri, “la febbre è troppo alta e persistente e i palliativi non bastano più, serve una cura forte e strutturata”. La cura consiste nell'investire proprio nella formazione e nella scuola di qualità perchè “la recessione non è iniziata soltanto cinque anni fa in conseguenza della crisi dei mutui subprime o degli attacchi speculativi all'euro, ma affonda le sue radici nella crisi del capitale umano, determinato dal mancato investimento, a tutti i livelli, sui beni più preziosi di cui disponiamo: i bambini, la loro formazione e conoscenza”.

sabato 14 dicembre 2013

Lontano da Mogadiscio: partire dal Passato per capire meglio il Presente





Shirin Fazel Ramzanali è nata a Mogadiscio; ha studiato nelle scuole italiane della Somalia, agli inizi degli anni '70, e poi si è trasferita in Italia, con la sua famiglia, per fuggire dal regime dittatoriale di Siad Barre. Nel 1994 ha scritto un libro, diventato un testo fondamentale per parlare di colonialismo e primo vero esempio di letteratura italiana della migrazione.
Un testo che narra la Storia attraverso uno stile "meticcio": spunti, considerazioni, note biografiche, riflessioni politiche. Un libro diviso in sei parti: la prima incentrata sulla Somalia un Paese che, come scrive l'autrice: "Un tempo era il Paese delle favole"; nella seconda parte predomina l'aspetto autobiografico con la diffidenza, da aprte degli italiani, nei confronti di chi aveva il colore della pelle più scuro; poi la scrittrice racconta i viaggi all'estero a fianco del marito e, nella quarta parte, riporta la brutalità della guerra civile in Somalia per riprendere l'argomento nella sezione successiva in cui spiega come il suo Paese d'origine sia stato sfruttato dalle superpotenze occidentali. La scrittrice, infine, racconta l'inserimento nella società italiana.
Lontano da Mogadiscio torna in versione e-book e in edizione bilingue (italiano e inglese) ed è arricchito da una postfazione di Simone Brioni.


Abbiamo intervistato per voi Shirin Fazel Ramzanali che ringraziamo tantissimo per la sua disponibilità    





Shirin Fazel Ramzanali




Perchè la decisione di far uscire di nuovo il libro, apparso nel 1994, come primo testo di letteratura post-coloniale?

Lontano da Mogadiscio, a distanza di vent’anni è un libro vivo, fa discutere su temi importanti. E’stato usato e lo usano tuttora nella sezione di Italianistica in molte università. Purtroppo il cartaceo, dopo un numero di anni, va fuori stampa e diventa introvabile. La nuova versione è bilingue, italiano-inglese; ed il fatto che è in formato e-book lo rende reperibile ad un’ampia cerchia di lettori internazionali.
E’ una opportunità per i giovani (italiani e somali) che vorranno leggerlo, scoprire che Mogadiscio un tempo poteva sembrare una città di provincia italiana. Si tende a guardare il presente senza riflettere sul passato, dimenticando molto spesso che il fenomeno dell’immigrazione è in parte anche legato ad un passato coloniale di molte nazioni europee.
La versione inglese è tradotta da me. Alcuni brani li ho riscritti, per cercare di trasmettere le emozioni del momento. Questa riscrittura sicuramente darà una nuova chiave di lettura al testo.
Nei capitoli inediti parlo delle mie esperienze degli ultimi decenni maturate durante le mie permanenze in paesi diversi, racconto di luoghi come la città inglese di Birmingham dove risiede una folta comunità di somali. Sono a contatto con la diaspora e consapevole di tutte le problematiche e difficoltà che si trascina dietro. Inoltre, osservo e racconto con distacco questa Italia che sta cambiando volto, ma ahimè attuando anche nuove sottili forme di discriminazione.





Che cosa è cambiato, a distanza di vent'anni, nel suo Paese d'origine?


Purtroppo in questi ultimi vent’anni la Somalia è stata violentata, sfruttata, calpestata senza avere una voce in capitolo a livello mondiale come stato sovrano. Milioni di rifugiati sparsi nei quattro continenti, hanno faticato per rifarsi una nuova vita. Anche se fisicamente lontani, hanno sempre sostenuto, con le loro rimesse ai parenti, l’economia del paese. Abbiamo una generazione che ha conosciuto solo guerra e continua a cercare all’estero una vita migliore. Sono ancora fresche nella memoria le immagini delle centinaia di persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo. I giovani che rappresentano il futuro della nazione purtroppo non hanno prospettive. Penso che la Somalia ha sofferto abbastanza, e ha vissuto sulla propria pelle gli orrori di una guerra civile. Certamente c’è chi ha beneficiato di questa situazione, ma non voglio innescare una polemica. Voglio essere positiva anche perché finalmente per la Somalia si è aperto un nuovo orizzonte. Anche se ci sono elementi che mirano a destabilizzare il paese, si ha la palpabile sensazione di una luce in fondo al tunnel. Oggi c’è un governo stabile, e riconosciuto. A Mogadiscio si stanno riaprendo le ambasciate. Il paese cerca una rinascita in tutti i settori. Questa energia positiva ha innescato nei somali che vivono all’estero la voglia di ritornare in patria e di portare il loro know-how acquisito in questi lunghi anni di forzato esilio.



Ci può raccontare quali sono state le difficoltà durante il suo inserimento nella società italiana?

Io sono arrivata in Italia nei primi anni settanta già come cittadina italiana. Avendo frequentato le scuole italiane, ed essendo bilingue sin da bambina, non ho avuto barriere a livello linguistico. Venendo però da una città multiculturale, mi sono dovuta adattare ad una città provinciale italiana che prima di allora non aveva avuto contatti con persone di provenienza africana. Ho subìto sguardi di gente curiosa, che mi rivolgeva domande imbarazzanti. Non è bello sentirsi osservata come un fenomeno di baraccone.



Qual è il suo rapporto con l'Italia e con gli italiani, oggi?

L’Italia è il mio paese, ho vissuto i cambiamenti politici e sociali degli ultimi quaranta anni. I miei genitori sono sepolti qui. I miei figli e nipoti sono nati in questa terra . Mi sento inserita, vivo e partecipo i problemi che tutti i cittadini affrontano. Il mio rapporto con l’Italia di oggi è quello che vivono un po’ tutti. Anche se vivo all’estero, grazie alla tv satellitare e le varie risorse che la tecnologia ci offre, sono quotidianamente in contatto con la realtà italiana. Sono estremamente delusa da una classe politica che ha portato il paese allo sfascio, nonostante gli enormi sacrifici imposti alle famiglie italiane, nonostante le continue vessazioni subite dai piccoli imprenditori che sono la linfa vitale dell’economia italiana e malgrado il lavoro umile degli immigrati che con i loro sacrifici tengono a galla numerosi settori e contribuiscono fattivamente alla formazione del Pil. Vorrei finalmente al governo delle persone veramente capaci, in sintonia con il popolo e che avessero come priorità il benessere dell’Italia. In altre parole io, tutti noi vogliamo assistere ad un cambiamento positivo nella gestione della cosa pubblica.
Come italiana di origine somala, sono delusa del fatto che il governo italiano ha fatto troppo poco per accogliere i rifugiati somali. Come persona migrante sono indignata che
gli immigrati vengano penalizzati da leggi che non tutelano la loro dignità di persona o di cittadini.
Il mio rapporto vis-à-vis con gli italiani è di vecchia data, gli ho avuti come compagni dai tempi dell’asilo. “Ragazzi” con cui sono a contatto ancora oggi. Tra gli italiani ho amici, conoscenti e persone che stimo moltissimo. Conosco e scambio quattro chiacchiere con le persone che abitano nel mio quartiere. Ho un rapporto di confidenza con i miei vicini, ci beviamo un tè insieme. Io non mi creo barriere mentali.



Secondo lei, gli italiani hanno cambiato mentalità o permangono pregiudizi consolidati nei confronti degli stranieri?

Non mi piace generalizzare. Sparsi come formiche, per tutto il territorio italiano c’e il lavoro di migliaia di persone che ogni giorno si danno da fare per costruire una società sana e priva di pregiudizi.
Purtroppo sui media vanno a finire soltanto gli episodi di intolleranza e razzismo più eclatanti, ma riportati in una prospettiva che invece di condannarli senza possibilità di appello innescano piuttosto sterili polemiche che si trascinano inutilmente per settimane. Ci sono i politici che usano questo tipo di propaganda per fini elettorali. Di conseguenza l’uomo comune si lascia trascinare in questo vortice che non fa altro che alzare il livello di scontro e aumentare le paure per “l’altro”. Quello che secondo me deve cambiare nella nostra società è di dare spazio alla meritocrazia. Leggi che tutelano gli immigrati facendoli sentire anche politicamente parte del territorio in cui vivono. Non ghettizzarli. Riconoscere come cittadini italiani i ragazzi nati e cresciuti nel nostro paese, che in effetti sono italiani.
Che senso ha dire ad un giovane di pelle scura, nato e cresciuto in Italia di tornare al suo paese?
Solo quando una società dà pari opportunità ai propri cittadini allora cambia il modo di pensare, il modo di percepire l’altro.
Non si può credere di avere dei privilegi solo perché si è bianchi.
Non scordiamoci che la ricchezza dell’ Europa è costruita dallo sfruttamento di risorse primarie che provengono da paesi etichettati “poveri”.

venerdì 13 dicembre 2013

Work for hope: come aiutare i palestinesi nei territori



Fino al prossimo 16 dicembre 2013 è possibile visitare, presso il chiostro del Palazzo delle Stelline in Corso Magenta 59 a Milano, la mostra “Work for Hope”, un progetto fotografico di Alessandro Gandolfi che si inserisce in un'iniziativa voluta da COOPI (Cooperazione Internazionale) e dalla Commissione Europea, dipartimento Aiuti Umanitari e rivolta ai palestinesi che vivono nei territori occupati: Striscia di Gaza e Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est.  

L'iniziativa prevede progetti di “cash for work”: si individuano le opere utili da compiere e, nella loro messa in atto, vengono coinvolti i capofamiglia dei nuclei più poveri con un impiego a tempo determinato. In questo modo si risponde, almeno in parte, ai bisogni familiari di base (cibo, salute e scuola) e si immette liquidità nell'economia locale.
I programmi sono pensati, ad esempio, per migliorare le infrastrutture di base, anche perchè gli anni di occupazione e di conflitto non hanno fatto altro che determinare un forte impatto sulle condizioni di vita delle persone: gli spostamenti all'interno degli oPt sono continuamente bloccati dalla presenza del muro, dei posti di blocco e dei gates; la libertà di movimento è fortemente limitata anche dalla richiesta di pass e di permessi per le aree ad accesso limitato. Questo impatta sulla quotidianità con la mancanza di strutture sanitarie, lavorative e scolastiche. Ecco, quindi, che l'intervento dei “cash for work” può servire a creare aree gioco per i bambini, può essere utile per il recupero delle cisterne per la raccolta dell'acqua piovana, per la ristrutturazione di vecchi edifici o per la manutenzione delle strade.
Sempre attraverso il coinvolgimento delle comunità locali, la Commissione Europea e Coopi sono impegnate anche in un'attività di “civil protection”, nell'Area C dove i villaggi sono più a rischio di insicurezza e di sfollamento e dove le restrizioni idriche e l'impossibilità di
coltivazione della terra discriminano ancora di più le popolazioni palestinesi residenti.
Da tutto questo nasce anche un progetto multimediale, sempre a cura del fotoreporter Alessandro Gandolfi in cui, attraverso video-testimonianze, storie di ricostruzione e visite virtuali ai villaggi, si raccontano piccoli, ma significativi passi per salvaguardare la vita e la dignità dei coloni sotto assedio.

Per saperne di più: workforhope.org (da cui abbiamo tratto anche le fotografie pubblicate)

giovedì 12 dicembre 2013

Con il fiato sospeso: il diritto alla salute e le morti di Stato



Stella, una studentessa di farmacia entra in un gruppo di ricerca per svolgere la sua tesi. Nel laboratorio di chimica qualcuno sta male, si parla di coincidenze. Anna, una sua amica, vorrebbe che la ragazza lasciasse il laboratorio perchè lo considera insalubre. Ma la vicenda di Stella si intreccia con quella di un dottorando che ha già percorso la strada in cui la giovane si imbatterà. Questa è la fiction.
Nel dicembre 2008 esce la notizia dell'apposizione dei sigilli ai laboratori di chimica alla facoltà di farmacia dell'università di Catania, a causa del sospetto ambientale, oltre al ritrovamento del memoriale del dottorando Emanuele Patané, morto di tumore al polmone nel 2003. E questa è la realtà.
Attualmente è in atto un processo che vede imputati i vertici della facoltà per inquinamento e discarica non autorizzata. Vincitore del premio "Gillo Pontecorvo - Arcobaleno Latino" all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia dove è stato presentato fuori concorso,
Con il fiato sospeso di Costanza Quatriglio mette anche in luce la ricattabilità in cui spesso vivono gli studenti universitari.


Abbiamo intervistato per voi Costanza Quatriglio che ringraziamo molto



Questo suo ultimo lavoro nasce da un fatto realmente accaduto. Ce lo può raccontare?

Questo lavoro nasce da un fatto realmente accaduto che è la scoperta che i laboratori di chimica della Facoltà di Scienze farmaceutiche dell'università di Catania sono stati chiusi dalla magistratura e adesso c'è un'inchiesta in corso per inquinamento ambientale.
Questa notizia non è stata particolarmente ripresa dai giornali, ma quando l'ho letta, ho letto anche del rinvenimento di un diario di un dottorando che, cinque anni prima nel 2003, aveva scritto cinque pagine molto dettagliate sulla vita all'interno del laboratorio: si lavorava senza norme di sicurezza. Questo ragazzo è morto di un tumore al polmone e, nel diario, accusava l'università di essere la causa di questa sua malattia.
Oltre a lui sono morti altri ragazzi.

Quali sono stati i passaggi necessari per reperire il materiale utilizzato per la realizzazione del film?

Ho iniziato a lavorare a questo film nel 2008/2009 e ci sono stati passaggi molto, molto difficili da tutti i punti di vista. La prima difficoltà è stata affrontare la questione dal punto di vista umano perchè ho trovato un muro di omertà gigantesco da parte dell'istituzione universitaria.
L'altra difficoltà è stata capire come utilizzare il diario e uscire dalla cronaca, per far diventare il film qualcosa di più universale possibile: cioè, il ricercartore universitario che parla di mancanza di sicurezza sul lavoro può diventare non solo una denuncia di cronaca, ma anche “etica”. Ho frequentato i laboratori di chimica di altre facoltà universitarie, ho conosciuto tante persone e ho capito che questa vicenda raccontava una storia non solo catanese, ma italiana.
Racconta di un Paese in cui le norme di sicurezza sono poco considerate in generale, di un Paese che non valorizza i talenti, di un Paese alla deriva.
L'intossicazione delle persone che fanno ricerca lì dentro trascende l'aspetto biologico e diventa una morte di Stato.

Questa è la denuncia più forte che ha voluto fare con questo film?

Sì, la denuncia più forte; infatti ho avuto difficoltà a produrre questo film.
E' passato di mano in mano e ho lavorato con varie case di produzione che però, all'inizio, sembravano accettare questa sfida molto complessa, ma poi mi facevano perdere tempo.
Solo tra questa primavera e l'estate, con altri collaboratori, siamo riusciti a partire.
Il mio primo obiettivo era quello di fare un cortometraggio tradizionale, poi ho cambiato il dispositivo narrativo.

Perchè, infatti, la scelta di mescolare finzione e documentario?

In realtà il film è un film di finzione, nel senso che rimette in scena completamente una storia scritta, inventata, anche se riprende una vicenda reale. Lo fa utilizzando il gioco del cinema: io intervisto il personaggio e l'intervista fa parte del linguaggio classico del documentario. Per questo motivo si parla anche di stile documentaristico.
Comunque all'interno di un racconto di dolore c'è anche la vitalità dei giovani che è, anche questa, etica e reale.

Dove si può vedere il documentario ?

In alcune sale cinematografiche italiane, con grande coraggio da parte degli esercenti.
A Catania è stato in programmazione tre settimane anche con quattro spettacoli al giorno. La stessa cosa è successa a Roma.
Secondo la mia opinione, il film - che dura 35 minuti – deve essere proiettato una o due volte al giorno all'interno delle programmazioni ufficiali.

La scelta dell'argomento riguarda anche la sua esperienza personale?

Io mi identifico in una generazione che ha ereditato un Paese guasto. Certamente è un film che mi riguarda profondamente e riguarda tanti di noi.