domenica 31 maggio 2015

MOSAIKON – Voci e immagini per i Diritti Umani





L'Associazione per i Diritti Umani è felice di comunicare l'uscita di “MOSAIKON – Voci e immagini per i Diritti Umani”, di Arcipelago edizioni, un libro in cui sono raccolte le interviste realizzate per il sito www.peridirittiumani.com, durante i nostri primi due anni di attività.

L'intento è quello di proporre un testo - cartaceo e fruibile - ricco di notizie e approfondimenti che permette di muoversi nella geopolitica, all'interno dei nuovi assetti sociali e religiosi, tra le vite quotidiane di uomini, donne e bambini per rimanere aggiornati sulla Storia contemporanea e sui temi di attualità. Crediamo, per questo, che il testo possa essere utilizzato anche a scopi didattici, come punto di partenza per ulteriori approfondimenti.



Per l'acquisto della vostra copia:



potete effettuare il pagamento di euro 12,50 tramite Paypall (in alto a destra sul sito) con carta di credito o bonifico.



poi inviate una mail all'indirizzo peridirittiumani@gmail.com con i dati e l'indirizzo esatto compreso di CAP e provvederemo a inviarvela subito per posta.



Grazie!

#MAIPIUCIE: chiudere definitivamente i CIE


Si è da poco concluso con successo il Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina di Milano, giunto alla sua 25ma edizione e l'Associazione per i Diritti Umani è stata invitata a presentare la campagna #MAIPIUCIE. E' stata l'occasione per parlare del documentario Limbo, di e con il regista Matteo Calore che, partendo proprio dalle storie raccontate nel film, ha illustrato quali sono le condizioni all'interno dei CIE e dei CARA, quali le conseguenze di queste vere e proprie detenzioni illegittime, quale la situazione dei familiari dei detenuti migranti anche fuori dalle strutture e, inoltre, quali siano le falle di un sistema politico in tema di migrazioni, sistema – leggi – decisioni improntati alla sicurezza e non alla tutela di chi chiede aiuto.



Per voi, l'Associazione per i Diritti Umani propone il video dell'incontro, ringraziando Matteo Calore, Zalab e il festival.





Vi ricordiamo che potete acquistare la vostra copia del libro “MOSAIKON – Voci e immagini per i Diritti Umani” tramite Pyapall, direttamente dal sito www.peridirittiumani.com. Scriveteci una mail con i dati e indirizzo a : peridirittiumani@gmail.com e vi sarà recapitata per posta nel giro di pochi giorni. Grazie !

sabato 30 maggio 2015

Una rubrica: STAY HUMAN - AFRICA


Cari lettori,

come alcuni di voi hanno già avuto modo di scoprire, oggi abbiamo aperto, sul sito www.peridirittiumani.com, una rubrica dal titolo STAY HUMAN – AFRICA. La rubrica è tenuta da Veronica Tedeschi, una brava e giovane laureata in Giurisprudenza a Milano e con un Master conseguito presso l'Università Sapienza di Roma sulla "Tutela internazionale dei diritti umani".

Ogni quindici giorni, di sabato, troverete un articolo sul continente africano. I Paesi africani sono tra i più colpiti al mondo da problemi climatici, dittature, guerre civili; dall'Africa fugge la maggior parte dei migranti che cercano asilo e protezione in Occidente e in Europa, in particolare. L'Africa ha in sé ricchezze territoriali e umane da salvaguardare. Abbiamo molto da imparare e molto da fare per salvare le nazioni africane e i loro popoli. Ecco perchè abbiamo accettato volentieri questa collaborazione e siamo sicuri che sarà molto interessante e farà molto piacere anche a voi.

STAY HUMAN – AFRICA

La rubrica di Veronica Tedeschi


La violenza sessuale come arma di guerra, il caso del Congo



Qui in Congo le donne sono state stuprate tre, quattro, dieci volte da uomini diversi, più che uomini bisognerebbe chiamarli animali. Finora ne abbiamo curate 384 ma continuano ad aumentare. Parecchie, atterrite dalla violenza, sono fuggite nella giungla e hanno paura di tornare per farsi curare” (Giorgio Trombatore, capomissione e incaricato della sicurezza dell’organizzazione non governativa americana IMC - International Medical Corp).



Durante la guerra del 1998, decine di centinaia di persone furono violentate nella Repubblica Democratica del Congo; si parla di più di 200.000 sopravvissuti a stupri. Goma fu il campo di battaglia maggiore durante la prima e la seconda guerra del Congo e, nonostante gli accordi di pace tra il Governo della Repubblica Democratica del Congo ed i governi dei Paesi confinanti Uganda, Ruanda e Burundi, sono state perpetrate continue violenze sulla popolazione civile. Queste violenze sono state definite “arma di guerra”, atti designati a sterminare la popolazione; lo stupro è stato ed è ancora oggi una semplice ed economica arma su tutti i fronti, più facilmente ottenibile di proiettili e bombe. Nonostante il processo di pace, cominciato nel 2003, l’aggressione sessuale da parte di soldati di gruppi armati e dell’esercito nazionale, continua in tutte le province orientali del Congo.

Lo stupro di guerra disumanizza, umilia e disonora. È un modo per negare l’umanità della donna come portatrice della vita; le milizie sia governative che ribelli, oltre a saccheggiare e distruggere paesi, villaggi e città che trovano sul loro cammino, si lasciavano alle spalle numerose e devastanti violenze sessuali compiute su donne e bambine.

In Congo furono documentati più di 500 stupri nell’agosto del 2010, conclusi con una semplice richiesta di scuse da parte di Atul Khare, il funzionario dell’Onu che fallì nel tentativo di proteggere la popolazione dalle brutalità messe in atto dai soldati e dall’esercito.

Il governo congolese ha ben presente la situazione delle donne nel suo Paese, è cosciente dei rischi che queste puntualmente incontrano nella vita sociale e familiare ma, nonostante questo, non riesce a creare un sistema di protezione adeguato per costituire una società civile in cui ogni donna possa vivere senza paura. Un esempio su tutti: la Repubblica del Congo, per una tassa non pagata, ha bloccato i fondi del Panzi Hospital, ospedale sito a otto chilometri dalla città di Bukavu. Il fondatore di tale struttura, Denis Mukwege, è l’unico dottore congolese che aiuta le donne vittime di stupri di guerra e per tale motivo risulta scomodo al governo. In un’intervista del 2014 le sue parole colpirono molto la platea: “Salviamo le donne il cui corpo è trasformato in campo di battaglia. La violenza sessuale di gruppo è un atto pianificato di guerra, per conquistare territorio”. Questo comportamento della Repubblica del Congo rappresenta un segnale di totale disinteresse da parte dello Stato che preferisce colpire un personaggio come il Dott. Mukege piuttosto che cercare di capire e affrontare in modo deciso quanto effettivamente sta accadendo.


A livello nazionale la situazione è, quindi, critica, gli stupratori operano nell’impunità totale; le donne che subiscono le violenze si trovano davanti membri delle forze dell’ordine che sono gli stessi perpetratori della violenza.

A livello internazionale la situazione sembra migliore: la Commissione Africana dei diritti umani e dei popoli, pur senza approfondire il ragionamento giuridico, ha dichiarato lo stupro una forma di tortura contraria a quanto disposto dall’art. 5 della Carta Africana dei Diritti umani e dei popoli. Questo ci fa tirare un sospiro di sollievo, se solo non sapessimo che, purtroppo, la “forza” e il lavoro della Commissione è pressoché nullo all’interno del continente africano.

La Commissione non ha alcun potere per assicurare l’attuazione di quanto da essa indicato, che rimane pertanto affidata alla buona fede degli Stati. L’unica misura possibile è l’invio da parte della Commissione di “richiami periodici” agli Stati responsabili di violazioni di diritti riconosciuti nella Carta Africana dei Diritti umani e dei popoli. L’evidente insufficienza di tali strumenti procedurali ha spinto gli Stati africani a redigere un Protocollo ad hoc alla Carta africana, adottato a Ouagadougou (Burkina Faso) nel giugno 1998 ed entrato in vigore il 25 gennaio 2004. Gli Stati che hanno ratificato il Protocollo per l’istituzione della Corte africana dei Diritti umani e dei popoli ad oggi (maggio 2015) sono 27. La mole di lavoro di tale istituzione, in questi primi anni di operato, risulta minima e quasi nessuno degli Stati africani riconosce realmente l’importanza e il potere degli atti da essa emanati.

Come si può desumere da questa sintetica ricostruzione, il Congo, come la maggior parte degli Stati africani, vede da sempre fianco a fianco i problemi derivanti da una legislazione interna inesistente e una legislazione internazionale che non è in grado di reagire per sconfiggere i reali problemi dell’Africa.


venerdì 29 maggio 2015

Giustizia per i crimini nel Mediterraneo !



VENERDI 5 GIUGNO 2015

Ore 11:30

STAMPA ESTERA – Sala della Biblioteca

Via dell'Umiltà, 83/C - 00187 Roma

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Il Mediterraneo è ormai una fossa comune, dove ogni giorno, si consuma un ennesimo naufragio.

A seguito della morte di oltre 1770 persone nel corso del 2015, e della morte di 3.279 persone nel 2014, della sospensione dell’operazione Mare Nostrum e delle decisioni dell’Unione Europea che sacrificano le esigenze di soccorso dei migranti in mare alle politiche di militarizzazione finalizzate a respingere migranti e potenziali richiedenti asilo, in attesa del vaglio del Consiglio di Sicurezza delle Nazione Unite di un probabile intervento militare in Libia, a fronte di un aumento dei flussi di profughi determinato dalle numerose guerre in corso in Africa ed in Asia e del rischio di un ulteriore aumento del numero di morti nel Mediterraneo, il Comitato “Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos” comunica di avere avviato le procedure formali per richiedere l’intervento del Tribunale Permanente dei Popoli perché si accerti l’esistenza di crimini commessi negli ultimi venti anni nei confronti dei migranti nel Mediterraneo e nel percorso dei cittadini dell’Africa e dell’Asia verso l’Europa, affinché vengano identificate e accertate le violazioni dei diritti dei migranti, in primo luogo del diritto alla vita; perché si giunga all’individuazione dei responsabili della commissione dei crimini di lesa umanità e della violazione dei diritti fondamentali dell’uomo e perché siano valutati gli obblighi giuridici che hanno le istituzioni europee e internazionali verso le persone che cercano rifugio e che fuggono da guerra, persecuzioni e miseria.

Il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) è un tribunale di opinione la cui opera è rivolta a identificare e rendere pubblici i casi di sistematica violazione dei diritti umani fondamentali, in particolar modo riguardo tutti quei casi in cui la legislazione nazionale e internazionale non riescano a tutelare con efficacia il diritto dei popoli. L’azione del TPP si basa sui principi espressi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli e dai principali strumenti internazionali di protezione dei diritti umani, ed è volta all’esame della realtà e allo studio del complesso di cause storiche, politiche ed economiche che portano alla loro violazione, al fine di emettere delle “sentenze” che ne individuino i responsabili. A oggi il TPP ha realizzato 40 Sessioni per denunciare casi di genocidio e crimini contro l’umanità. Tra queste è opportuno segnalare la Sessione sul Diritto d’asilo in Europa (Berlino, 1994) e quella recente sul Messico (2011-2014), che ha dedicato un capitolo importante alla violazione dei diritti umani dei migranti.

Partecipano:

Hedwig Zeedijk, Corrispondente Radio Televisione Belga

Enrico Calamai, Portavoce del Comitato “Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos”

Arturo Salerni, Presidente “Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos”

Lita Boitano, Madre di Plaza de Mayo, Presidente di Familiares di desaparecidos e detenuti per ragioni politiche

Meherzia Chargui, Madre di un tunisino disperso



Ufficio stampa:

Carolina Zincone 3338710675 - Flore Murard-Yovanovitch 3485268700





"Il Comitato “Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos” è una realtà associativa costituita nel 2014 che si propone di porre al più presto fine alle stragi di migranti e richiedenti asilo nel Mar Mediterraneo e nei Paesi di transito verso gli Stati dell’Unione Europea. Ne fanno parte familiari delle vittime, giuristi, giornalisti ed esponenti della società civile. Insieme all’obiettivo primario di cui sopra il Comitato si propone di ottenere il riconoscimento dell’identità delle vittime e di ricercare la verità sulla loro scomparsa anche attraverso l’istituzione di un Tribunale Internazionale di opinione, nonché chiedere l’individuazione e la condanna dei responsabili ed il risarcimento nei confronti dei familiari delle vittime nelle sedi giurisdizionali nazionali, comunitarie, europee e internazionali.


Le immagini che raccontano i fatti salienti dell' ultimo anno




Come ogni anno torna la mostra del World Press Photo, in contemporanea a Roma e a Milano.

Più di 5000 fotografi, provenienti da 131 Paesi, hanno partecipato al prestigioso concorso che si dipana in otto categorie: ritratti, natura, sport, attualità, vita quotidiana, lavoro, notizie spot e generali.

L'attualità sempre in primo piano come dimostra la fotografia di Massimo Sestini (vincitore del secondo premio della categoria “News”) che ritrae un salvataggio di migranti stipati su un barcone nel Mediterraneo. Entriamo, poi, nella vita misera e nella cucina di un'abitazione sventrata in Ucraina; mentre la svedese Asia Sjostrom, con una sola immagine, ci racconta la storia di Igor e Arthur, due fratellini gemelli che fanno parte dei tanti “orfani bianchi”, in Moldavia, bambini che cercando di sopravvivere senza i genitori, forse emigrati in cerca di un lavoro.

Le persone, i colori, le luci colpiscono il cuore ed emozionano mentre guardiamo, sconcertati, i tragici effetti della diffusione dell'ebola in Africa, o le divise delle giovani studentesse rapite in Nigeria da Boko Haram.

In pochi casi lo spettatore può tirare un sospiro di sollievo, osservando le immagini di una Natura potente e straordinaria, ma la realtà – spesso creata e voluta dagli Uomini – è sempre lì a ricordarci la nostra finitezza e i nostri errori.

La fotografia vincitrice dell'edizione 2015 del World Press Photo pone al centro della riflessione l'omofobia in Russia (e non solo): l'autore danese, Mads Nissen, usando in maniera delicata e sapiente la penombra, accarezza due giovani uomini, Jon e Alex, in un momento di intimità, a San Pietroburgo. Questa immagini fa parte di un progetto più ampio di Nissen, scattato per Scanpix, un progetto importante perchè, in Russia come in molte altre aree del mondo, le minoranze sessuali affrontano una profonda discriminazione sociale e legale, molestie e perfino violenti attacchi di fanatici religiosi o nazionalisti. Il presidente della giuria del Premio (in questo caso si parla della categoaria “Vita contemporanea) e direttore della fotografia del New York Times ha dichiarato: “E' un momento storico per la fotografia...l'immagine vincitrice deve avere un'estetica, essere di impatto e avere il potenziale per diventare un'icona. Questa foto è esteticamente potente e possiede umanità”...quell'umanità che dobbiamo rimettere al centro dei nostri comportamenti e delle nostre scelte.



World Press Photo

a Milano

Galleria Sozzani

Corso Como, 10

giovedì 28 maggio 2015

L'incontro "Il fondamentalismo afgano, la richiesta di asilo in Europa" del 31 maggio è stato rimandato...ma stiamo lavorando per voi :)) !!

Diritti dei minori sempre più negati



Un bambino non sorride, non parla, non cerca di socializzare: sono segnali importanti da prendere subito in considerazione. Spesso non si tratta di malattie neurologiche, ma sintomi di maltrattamento. E il maltrattamento non passa solo sul corpo, ma anche sulla psiche e nell'anima.

Il Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza, Vincenzo spadafora, ha deciso di realizzare un'indagine, in tutta Italia, per capire dove, come e in che misura le bambine e i bambini vengano maltrattati.

La ricerca è stata curata da “Terres des hommes” e “Cismai” e risultano censiti 91 mila minori.

Purtroppo i dati dicono che gli abusi avvengono più frequentemente al Sud e che le vittime più numerose sono le femmine e gli stranieri.

Ma cosa si intende per maltrattamento? Il termine si riferisce, ovviamente, alle percosse (e nella ricerca si parla - oltre che di schiaffi e pugni - anche di frustate), ma a seguire - e non meno grave - la violenza psicologica. Nel rapporto dell'Authority si leggono altre due forme inquietanti di violenza: la trascuratezza materiale e affettiva e la patologia delle cure. Il primo caso, come ha sostenuto Spadafora: “ E' una forma non evidente di maltrattamento, abusi che non si vedono, ma se ripetuti nel tempo possono creare danni gravissimi” e riguarda quei bambini che non sono amati, tanto trascurati e spesso malnutriti; il secondo caso riguarda quell'atteggiamento secondo il quale gli adulti o trascurano, sottovalutandola, la malattia del minore oppure somministrano a quest'ultimo troppe medicine.

Infine, balza agli occhi il dato che riguarda gli abusi sessuali: sui 91 mila bambini registrati nell'indagine, 3.800 li hanno subìti.

La cura dei più piccoli e degli indifesi dà sempre la misura della civilità di un popolo; continuiamo a monitorare, insieme, l'entità del fenomeno dei maltrattamenti e, quando è possibile, cerchiamo di intervenire. Lo chiediamo a tutti e, in particolare, a chi ha a che fare ogni giorno con i bambini e con i ragazzi, italiani e stranieri: genitori, nonni, parenti, insegnanti, allenatori. Ma, ripetiamo, tutti dobbiamo dare il nsotro contributo per proteggere le future generazioni.

 

Per ulteriori informazioni sull'”Indagine nazionale del maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia:






mercoledì 27 maggio 2015

La vita non facile dei diritti riscoperti dalle sentenze



di Luigi Ferrarella (da “Corriere della sera” 15 maggio 2015)





Quanti diritti ci possiamo permettere?


Quanti diritti ci possiamo permettere? Quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico? Fino a pochi anni fa una domanda simile sarebbe suonata bestemmia. Ora, invece, viene implicitamente declinata ogni volta che dalle Corti (Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, Corte di cassazione) arriva una sentenza all’incrocio di un dilemma: adesso tra rivalutazione delle pensioni e vincoli di bilancio, ma già in passato tra danni dell’inquinamento Ilva alla salute di Taranto e destino degli operai e dell’acciaio italiano, e prima tra ritmi giudiziari delle inchieste anticorruzione e invece esigenze extragiudiziarie di far aprire in tempo Expo 2015, o prima ancora tra impopolarità del tema carceri e condizioni inumane di vita di chi sta in prigione. E si può già scommettere riaccadrà nelle prossime sentenze che scioglieranno nodi sulle questioni di bioetica, o che metteranno il dito nel contrasto tra irrazionalità fiscali e esigenze dell’erario, o che incroceranno assetto degli statali e nuove regole per i dipendenti pubblici.
Sotto sotto, è come se ogni volta ribollisse questo non detto: quanti diritti ci possiamo permettere? Un retropensiero talmente sdoganato da nutrire reazioni sempre più insofferenti alle conseguenze di sentenze ripristinatorie di diritti, che sino a poco tempo fa sarebbero state percepite come ovvie riaffermazioni (di eguaglianza, dignità, equità sociale), e che invece adesso vengono vissute quasi come invasioni di Corti debordanti nel campo della politica, tapina perché commissariata dallo scippo giudiziario della sua facoltà di decidere tra più alternative possibili e di imporre questa scelta senza lacci e lacciuoli.
È un’insofferenza che trasuda già dalle parole usate da governo e parlamentari per definire la sentenza della Consulta sulle pensioni: «danno alla credibilità del Paese», verdetto che «scardina», decisione che (se applicata in toto) causerebbe conseguenze «immorali». Così, dopo ciascuna di queste sentenze, sempre più palese scatta il riflesso automatico di non applicarle, oppure — se proprio non è possibile disattenderle completamente — almeno di contenerle, di arginarne la portata, di neutralizzarne gli effetti, di mitridatizzarne le conseguenze. Plastico l’esempio delle condanne inflitte dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo all’Italia per le condizioni inumane e degradanti della detenzione nelle carceri: sentenze alle quali in questi mesi il governo ha ritenuto di adeguarsi con una legge su piccoli «rimedi compensativi» (8 euro al giorno per il passato, oppure lo scomputo di un giorno ogni dieci sulla pena ancora da scontare) dalle maglie normative però talmente strette che l’85 per cento delle domande avanzate a fine 2014 era stata dichiarata inammissibile, e soltanto l’1,2 per cento di richieste di risarcimento era stato accolto. E qualcosa del genere, in attesa che accada per le pensioni, sta avvenendo già in parte con la legge sulla tortura, in teoria introdotta sull’onda di un’altra condanna dell’Italia da parte di Strasburgo (stavolta per il G8 di Genova), ma in realtà parcheggiata (dopo approvazione in prima lettura) in un ramo del Parlamento con un testo di compromesso al ribasso.
Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche: il mordere della crisi economica, la coperta corta dei bilanci statali, l’urgenza della disoccupazione, la disabitudine alla ricerca di soluzioni che non siano vendibili in pochi slogan, il fastidio per ciò che inevitabilmente complesso non sia tagliabile con l’accetta, tutto congiura a domandare alle Corti superiori (come in fondo già ai magistrati nei gradi inferiori) di subordinare le proprie decisioni a
«compatibilità» con equilibri di volta in volta politici-sociali-economici e di assumere come parametro la «sostenibilità» dei propri atti. Con la conseguenza che non sembra più strano dare esecuzione a queste sentenze soltanto se e nella misura in cui esse siano compatibili con i bilanci statali, o appaiano socialmente accettabili, o risultino «digeribili» dalle esigenze delle imprese, o siano in linea con il momento politico, o siano empatiche con le emozioni dei cittadini.
Il che illumina due sottovalutazioni. La prima, nel presente, è che il ritardo con il quale il Parlamento sta mancando di eleggere i due giudici costituzionali di propria competenza influisce e di fatto altera la vita della Consulta, dove indiscrezioni attribuiscono ad esempio la contestata sentenza sulle pensioni al voto con valore doppio del presidente tra 6 favorevoli e 6 contrari. La seconda sottovalutazione, in prospettiva, è di quanto la combinazione tra nuova legge elettorale e nuovo Senato possa sbilanciare, a favore delle artificiosamente rafforzate maggioranze politiche di turno, le quote di giudici costituzionali e di componenti laici che spetta al Parlamento eleggere rispettivamente alla Consulta e al Consiglio superiore della magistratura.



martedì 26 maggio 2015

Ritratto di famiglia con bambina grassa: un inno alle donne, di ieri e di oggi


Pubblicato da Mondadori, Ritratto di famiglia con bambina grassa, della scrittrice e giornalista Margherita Giacobino, è subito diventato un successo. Maria, la madre amatissima, astro nel cielo dell'infanzia, e il padre Gilin, l'uomo di vento; Michin, la caustica e brillante prozia zitella, mai conosciuta ma vicina come una gemella d'anima; e poi Polonia, la zia ostetrica dolce e gaudente... Ma soprattutto c'è magna Ninin, la zia con cui Margherita è cresciuta, brusca e brontolona, sempre presente e insostituibile, «l'origine e l'archetipo. Ninin l'instancabile, Mulier Fabricans». Sì, perché Margherita Giacobino, classe 1952, è cresciuta in una famiglia di donne, e sente più che mai vive le proprie radici silenziose e forti. Nel ripercorrere le ramificazioni della propria famiglia, attraversa oltre un secolo di storia italiana: dalle campagne del Canavese alla fine dell'Ottocento alla Germania in cui il padre viene fatto prigioniero durante la Seconda guerra, dal boom economico fino a oggi. Seguendo le tracce della propria infanzia con l'attenzione e la cura di un archeologo, interroga i suoi familiari, li racconta, ridà loro vita con afflato lirico e acume antropologico, con una scrittura magistrale, con nostalgia e ironia. Con infinito affetto. Perché solo tramite chi ci ha preceduto possiamo arrivare a conoscerci davvero.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi Margherita Giacobino. La ringraziamo molto per queste sue parole.





Nel suo ultimo lavoro racconta la storia della sua famiglia tutta al femminile: c'è complicità, oggi, tra le donne?


Nel mio ultimo libro, Ritratto di famiglia con bambina grassa, parlo di una famiglia, la mia, in cui le donne erano molto unite, lavoravano insieme e si aiutavano. Non una famiglia idilliaca, ma una in cui ci si voleva bene e ci si dava riconoscimento a vicenda. Questo è stato molto importante per me, mi ha permesso di fare delle scelte libere nella vita, sentendomi sostenuta dai miei, soprattutto da mia madre.

La parola complicità secondo me non è quella che meglio esprime ciò che mi piacerebbe ci fosse tra donne, cioè la capacità di riconoscersi e sostenersi a vicenda - ma anche di criticarsi, di discutere quando è il caso. Riconoscere alle altre una forza, dei risultati, dei successi, e anche degli errori - essere in grado di parlarne insieme e di insegnarsi qualcosa a vicenda, scambiarsi affetto e buonumore quando si può - (non sempre) - questo sarebbe bello. Attualmente accade solo in parte, credo purtroppo in minima parte. Molte donne sono, ora come in passato, intente a proteggere e salvaguardare un qualche uomo, e a considerarsi insufficienti e incapaci di costituire per se stesse e per le altre delle interlocutrici degne di ascolto. Un grande spreco.



La storia personale è intrecciata alla grande Storia: quali sono le tappe principali del percorso che ha tracciato nel libro, soprattutto in termini di diritti negati o acquisiti?




Nella storia della mia famiglia (che comincia molto prima che io nascessi, a fine Ottocento) ci sono dei momenti di conquista di libertà e diritti, come quando la mia prozia, che all’epoca è una bambina di 12 anni, scende in città dalla montagna per andare a lavorare in fabbrica, sottraendosi così all’autorità e al controllo della famiglia paterna, e aprendo la strada all’emancipazione delle sorelle e della madre. Per me è stato soprattutto importante segnalare come le scelte di dignità e di indipendenza personale fossero collegate al lavoro, e alla possibilità di disporre del proprio denaro, cosa che non era affatto scontata per le donne. Anche il non sposarsi poteva essere, e per le mie zie è stata, una scelta di libertà, in un’epoca in cui il matrimonio era ancora un’istituzione fortemente patriarcale. E poi un’altra tappa importante è stata, per mia madre, la separazione legale in una situazione in cui i debiti di suo marito mettevano in pericolo la sua attività, il suo futuro e il mio. Anni dopo, mia madre ha fatto propaganda tra le sue conoscenze per la legge sul divorzio, e più tardi (scandalizzando molte persone del paese) per quella sull’aborto.



Si può affermare che con questo romanzo, come nelle altre sue opere, vengano affrontati i temi dell'amore (anche omosessuale) e dell'identità?



L’amore è un tema fondamentale in questo libro, anzi è l’energia da cui nasce. L’amore non è soltanto passione e scelta sessuale - mi premeva parlare di amore senza aggettivi, l’amore per la madre, per la donna amata, per i vecchi che mi hanno voluto bene da piccola… Come Audre Lorde, ritrovo nelle mie antenate la forza delle donne che si amano e lavorano insieme, siano essere sorelle o amanti.

Parto dalla mia famiglia materna per rivedere quello che è perduto per sempre nella dimensione del presente, ma che è vivo dentro di me, parte di me: luoghi, paesaggi, miti, passioni e paure, modi di dire, ciò che dà senso alla vita e anima il linguaggio. Questo libro è anche una discesa all’interno di un ‘io’ per vedere quel che c’è di ‘altri’ in me, per riconoscermi figlia di, nipote di, erede di tanti, con le loro abitudini e stranezze, le loro sofferenze e il loro modo di prendere in giro la vita. Un piccolo viaggio all’interno di quel mistero che è ogni essere umano, simile a tanti, diverso da tutti; e anche una ricerca archeologica sui frammenti della memoria, e i disegni che se ne possono ricomporre.



Pare di capire che non le interessi molto il “politically correct”...



Se per politically correct si intende la convinzione di pari diritti per tutti, e la volontà di non svilire nessuno con pregiudizi e stereotipi, mi sembra un ottimo punto di partenza a cui forse un giorno arriveremo, se ci comportiamo bene. Ma se invece si tratta dell’enunciazione di nobili principi o di minute rivendicazioni che serve a mettere chi la fa dalla parte della ragione e gli altri dalla parte del torto, la trovo una cosa che, al suo meglio, può essere fonte d’ispirazione per la satira.



Perchè la scelta di usare anche il dialetto?



Perché è la mia lingua madre. Prima della televisione, nessuno era nato ‘in Italia’, eravamo tutti nati in una qualche città, paese, campagna dell’Italia. E parlavamo tutti diverso. Oggi si parla tanto di salvaguardare la diversità, proprio perché la diversità sta per sparire, in fatto di linguaggi come di tante specie di piante e animali. Ho voluto rivolgere un pensiero d’affetto alla lingua che ha dato forma ai miei primi pensieri.


lunedì 25 maggio 2015

Un’agenda deludente, che non dà risposte alla necessità di mettere al primo posto la salvaguardia della vita dei profughi



Pubblichiamo di seguito il comunicato dell'Arci riguardante l'agenda europea in tema di migrazioni.




Esprimiamo delusione e amarezza per i contenuti dell’Agenda europea sulle migrazioni presentata oggi dalla Commissione europea.

Ancora una volta al centro non si colloca la salvaguardia della vita dei migranti, attraverso la messa in atto di operazioni di ricerca e salvataggio in mare e l’apertura di vie di ingresso legali, che è anche l’unica risposta efficace alla tratta degli esseri umani che si dice di voler combattere.

Si triplicano invece le capacità e i mezzi delle operazioni Triton e Poseidon dell’agenzia Frontex per il 2015 e il 2016, finalizzate alla sicurezza delle frontiere e non alla ricerca e al salvataggio dei naufraghi, e non se ne amplia il raggio di azione.



Si stabilisce in 20mila il numero di posti per i rifugiati da distribuire nei diversi paesi europei. Una cifra ridicola, se rapportata ai trecentomila arrivati l’anno passato alle frontiere europee.

Si stabiliscono le percentuali di profughi che i vari paesi Ue devono accogliere, ma senza prevedere la possibilità di successivi motivati spostamenti (per esempio per ricongiungimenti familiari) e consentire la libertà di circolazione che va considerato un diritto inalienabile di ogni essere umano. Il sistema delle quote va quindi accompagnato dall’abolizione del Regolamento Dublino e dall’introduzione dello status di rifugiato europeo.



Si parla di collaborazione con i paesi di partenza o di transito, presentandola come una possibilità per salvare vite umane eliminando le cause che spingono a migrare, ma in realtà l’intento è quello di esternalizzare le frontiere. Questo in molti casi significa bloccare le persone in paesi in cui i diritti umani sono sistematicamente violati.

Infine ci sembra estremamente pericoloso il tentativo, sostenuto dalla Commissione, di ottenere l’avvallo del consiglio di sicurezza dell’Onu ad intervenire anche militarmente in Libia per distruggere o sequestrare i barconi prima che partano, distruggere i depositi di carburante e le strutture di attracco. Il sospetto è che si usi il problema dei trafficanti per ottenere il via libera ad un intervento militare in un paese che è oggi un’autentica polveriera, col rischio di innescare una situazione esplosiva in tutta la regione. E d’altra parte qualsiasi ipotesi di bloccare i flussi via mare, attraverso il massiccio dispiegamento già in atto di navi militari, appare velleitario e incurante della necessità di mettere al primo posto la vita delle persone.

 



domenica 24 maggio 2015

Bibi e gli altri: la compagine del governo israeliano




di Monica Macchi



Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che si è più volte vantato di sabotare gli accordi di Oslo giurando che non ci sarà mai uno Stato palestinese mentre lui è al Governo, ha nominato i seguenti ministri:

Ministra della Giustizia Ayelet Shaked, già sostenitrice del progetto di legge “Basic Law: Israel Nation-State of the Jewish People,” che sancisce la priorità dell’identità ebraica sulla democrazia costituzionalizzando un contratto di esclusione sociale a scapito delle minoranze etno-linguistiche-religiose: in particolare punta a limitare la partecipazione dei non-ebrei alle cariche pubbliche

Ministro dello Sviluppo rurale, capo della Divisione per gli Insediamenti WZO Uri Ariel, colono e sostenitore del “Movimento del Tempio”: sotto la Moschea di Al-Aqsa c’è il Tempio di Salomone quindi “quella ebraica è la cultura indigena del luogo, fatta propria e alterata dai Palestinesi, arrivati in un secondo tempo”. Del resto l’archeologia è stata fondamentale nella formazione dell’identità israeliana fino dalla fondazione dello Stato: il primo ministro Ben Gurion ha dichiarato che “il diritto ebraico sulla Palestina si basa sullo scavare la terra con le nostre mani” cercando verso il basso la Terra Promessa; nei primi anni Ottanta la rete eversiva ebraica Mahteret Ha-Yehudit voleva fare saltare in aria la moschea di Al-Aqsa

Ministro dell'Economia Aryeh Deri, già condannato a 3 anni di carcere per corruzione

Ministro dell'Istruzione Naftali Bennett, sostenitore della “necessità” delle esecuzioni extragiudiziali (arrivando a dichiarare al Yedioth Ahronoth Reporter “io stesso ho ucciso molti arabi nella mia vita, e non c'è nessun problema con questo”) considera la massima priorità della scuola inculcare i valori sionisti della destra religiosa


Vice ministro della Difesa (responsabile dell'amministrazione civile della IDF)
Eli Ben-Dahan (colono che vive in un insediamento a Gerusalemme Est, Har Homa) sostiene la supremazia degli ebrei sui palestinesi


Ministro degli Esteri ad interim
Tzipi Hotovely sostenitore dell’annessione di tutta la Cisgiordania…anzi Giudea e Samaria secondo i termini biblici, con lo scopo di giudaizzare anche la toponomastica di Gerusalemme Est


Ministro della Cultura e Sport
Miri Regev ha definito i parlamentari arabi israeliani “traditori” e i richiedenti asilo provenienti dall'Africa come un “cancro”; sulla richiesta di sospensione di Israele dalla Fifa ha detto che “non vi sarà alcun incontro con Blatter perché politica e sport non si devono mischiare”

Ministro della Difesa Moshe Ya'alon che ha scoraggiato le indagini penali sulle denunce di crimini di guerra contro i soldati israeliani perché “il processo di pace è responsabile per il terrorismo”… e giusto pochi giorni fa a Kufr Kaddum un soldato ha chiesto ad un bambino di 5 anni di avvicinarsi e all’improvviso un altro soldato da un carro armato l’ha bersagliato con un getto di “skunk water” (acqua sporca e puzzolente di cui non si conosce l’esatta composizione) così potente da gettarlo a terra e ferirlo.

Il capo dell’opposizione Isaac Herzog ha commentato lapidario: “Questo non è un governo, è un circo” mentre per Ayman Odeh della Lista Araba Unita “La bandiera nera del razzismo ondeggia in cima al governo”.

sabato 23 maggio 2015

“DELL’ELMO DI SCIPIO SI E’ CINTA LA TESTA…”





di Alex Zanotelli



L’Alto Rappresentante della politica estera della UE, Federica Mogherini, sostenuta a spada tratta dal governo Renzi, da settimane sta premendo per ottenere dall’ONU il mandato per un’azione militare con lo scopo di distruggere i barconi degli scafisti nelle acque libiche e bloccare così l’esodo dei profughi. L’Italia sta brigando per essere capofila di questa coalizione militare che, con un’operazione navale e anche terrestre (così sostiene il Guardian) andrà a colpire gli scafisti.
Eppure se c’è una nazione che dovrebbe defilarsi è proprio l’Italia, particolarmente odiata dai libici come ex-potenza coloniale. Quando la Libia è stata una nostra colonia, noi italiani abbiamo impiccato e fucilato oltre centomila libici. Non contenti abbiamo partecipato attivamente a quella assurda guerra, iniziata dalla Francia e dall’Inghilterra nel 2011 per abbattere il regime di Gheddafi, che ha portato all’attuale situazione caotica della Libia. Ed ora l’Italia si prepara a guidare un’altra azione militare che, con il pretesto di salvare i profughi da morte nel Mediterraneo, creerà un altro disastro umano. Infatti anche se riuscissimo a distruggere i barconi degli scafisti(non sarà così facile!), non faremo altro che aggravare la situazione di milioni di profughi sub-sahariani, mediorientali e asiatici intrappolati ora in un paese in piena guerra civile. Amnesty International, in un suo recente rapporto parla di massacri, abusi, violenze sessuali, torture e persecuzioni (49 cristiani provenienti dall’ Egitto e dall’Etiopia sono stati decapitati) , perpetrate contro i profughi. Non è più possibile chiudere gli occhi- afferma Philip Luther di Amnesty- e limitarsi a distruggere le imbarcazioni dei trafficanti senza predisporre rotte alternative e sicure. Altrimenti condanneremo a morte migliaia e migliaia di rifugiati, ma questo avverrà lontano dai ‘ casti ‘occhi degli europei e dai media.
Il governo di Tobruk del generale Khalifa Haftar (sostenuto dall’Egitto) ha risposto :”Bombarderemo le navi non autorizzate.” E anche l’ambasciatore libico all’ONU ha parlato di intenzioni “poco chiare e molto preoccupanti.”Purtroppo le intenzioni sono ben chiare: è guerra!
Noi invece diciamo un NO ad un altro intervento militare della UE , capitanata dall’Italia. E’ mai possibile che questa nuova avventura militare italiana avvenga senza una discussione in Parlamento? E’ mai possibile il silenzio quasi totale dei partiti politici su questo argomento?
Dobbiamo chiedere invece alla UE e all’Italia di imporre un embargo sulla vendita di armi ai ‘signori della guerra’ in Libia. Chiediamo altresì alla UE perché faccia pressione sulla Tunisia e sull’Egitto perché questi due paesi confinanti aprano le loro frontiere per accogliere i rifugiati intrappolati in Libia. Ma la UE dovrà poi concordare con l’Egitto e la Tunisia l’apertura dei corridoi umanitari per permettere ai rifugiati di arrivare in Europa. Questa sì sarebbe una vera soluzione per i profughi e segnerebbe la sconfitta degli scafisti e delle organizzazioni criminali.
Ma la via che noi stiamo seguendo è un’altra. E’ quella del Processo di Khartoum:trattare con i governi dei paesi da cui provengono i profughi e costruirvi campi di raccolta nei paesi di origine, come il Sudan o l’Eritrea. Perseguendo questa politica, l’Unione Europea ,tramite il Fondo Europeo per lo Sviluppo, elargirà entro il 2020, 312 milioni di euro al governo eritreo, senza richiedere il rispetto dei diritti umani. Questi fondi sono stati sbloccati grazie alla visita in Eritrea di una delegazione italiana (24-26 marzo 2015) . Come italiani dobbiamo solo vergognarci! Purtroppo i nostri parlamentari ,che dovrebbero controllare la nostra politica estera ,dormono sonni tranquilli.
Chi pagherà questo protagonismo bellico italiano? Saranno proprio i profughi che il governo di Tripoli, vicino ai Fratelli Musulmani, incomincia già ad arrestare e a mettere in nuovi campi di concentramento. Saranno proprio i rifugiati a pagare più pesantemente per questa azione militare, inventata per salvare vite umane! Infatti il documento presentato all’ONU parla di “danni collaterali”. Quanta ipocrisia! “Si pensa di punire chi si occupa dell’ultimo tratto del viaggio- ha scritto il generale Fabio Mini- e non i governi degli stati che alimentano la violenza, la corruzione e la guerra creando le condizioni dalle quali i migranti vogliono fuggire.”
Per questo mi appello a tutto il movimento della Pace , perché abbia il coraggio di dire NO a questo rigurgito di spirito guerrafondaio nel nostro paese. E’ ora di urlare che “la guerra è una follia” (come dice Papa Francesco).





venerdì 22 maggio 2015

25 anni di mondo dagli schermi di Milano


di Ivana Trevisani, da 25 anni con piacere fedele al Festival


 

Il “Festival del Cinema Africano d'Asia e America Latina” anche quest'anno si è riaffacciato agli schermi milanesi e si è presentato con un compleanno speciale, venticinque anni, un quarto di secolo, di vita sua e di quella del pubblico che con affetto lo ha seguito lungo tutto questo periodo e ancora lo segue.

Non a caso il termine Vita, perchè di questo si tratta e ogni anno puntualmente si ripete: incrocio di vite, delle organizzatrici e degli organizzatori, delle persone sedute davanti allo schermo o davanti alle registe ai registi negli incontri aperti, e quelle restituite dallo schermo, più o meno lontane nello spazio e a volte nel tempo, ma riconsegnate nel presente dal loro dipanarsi nelle trame di film, lunghi o corti, e documentari.

Già dall'apertura si poteva intuire la scelta, anche per quest'anno, di condurci nella storia delle quotidianità, argomento poco visitato, anzi spesso ignorato dall'informazione formale. Ha aperto il festival il lungometraggio “Taxi Teheran” dell'iraniano Jafar Panahi, Orso d'oro all'ultima Berlinale; il regista che non può lasciare il suo Paese per vent'anni a causa del suo impegno di dissenso politico, diventando lo stesso taxista- personaggio del film, riesce attraverso i variegati passeggeri che si susseguono e dei loro squarci di storie comuni, a darci conto delle storture di un regime soffocante.

Immagini inattese della Tunisia, nel quotidiano pressochè sconosciuto in cui non sono i fantasmi del terrorismo ad agitare le vite, quanto problemi ordinari, ma non meno difficili da reggere, sono state offerte da “Le challat de Tunis” della regista Kaouther Ben Hania, che con sarcasmo e ironia, attraverso la ricostruzione della vicenda dell'aggressore seriale “lametta” (challat, appunto) restituisce i conflitti di genere nella società tunisina. Immagini inattese sono state date anche dal regista Lofti Achour, che con il cortometraggio “Père” affronta il tema della paternità, vera o presunta, una questione difficile da affrontare e gestire non solo nella cultura e società arabe, del resto.    



Restando nel vicino scenario di un'altra delle rivoluzioni che nella primavera del 2011 hanno scosso parte del mondo arabo mediorientale, il giovanissimo cineasta egiziano Yasser Shafie grazie al suo corto ma incisivo “The dream of a scene (Il sogno di una scena)”, rende con uno sguardo maschile di apprezzabile sensibilità, il forte radicamento - più culturale che religioso nel mondo arabo - come un nodo più stretto del nodo dei capelli femminili e del loro significato profondo nelle stesse donne. E non è tuttavia mancato il richiamo all'ironia che anima la cultura egiziana, affidato ai tredici minuti del cortometraggio del cairota Khaled Khella “130 km to Heaven (A 130 km dal paradiso), che riesce con umorismo solo velatamente amaro a sbugiardare l'abbaglio di stili di vita dorata veicolato da certo turismo occidentale.

Passage à niveau (Passaggio a livello)ci sposta poco più in là, sia geograficamente che tematicamente: l'algerino Anis Djaad infatti ci cala nel dramma della perdita di un lavoro più che trentennale e accomuna i due personaggi del cortometraggio nella scala socioeconomica, come ultimo e penultimo.

Restando nella stessa area geografica, ancora grandi traversie che sfiorano e a volte intrecciano la tragedia, in piccole comuni storie di vita nella realtà sia rurale che urbana del Marocco odierno: ce le hanno presentate la regista Tala Hadid con il suo The narrow frame of midnight (La cornice stretta della mezzanotte)che affrontando un dramma dilagante nel paese, patito da molte adolescenti, riesce ad incuneare nel racconto la connivenza e la responsabilità di deprecabili trafficanti europei. E “L'homme au chien (L'uomo con il cane)del regista Kamal Lazraq che mostra la crudeltà umana alimentata dal degrado sociale di ghetti ai margini nientemeno che della capitale Casablanca.

Ci spostiamo in una dimensione geografica molto lontana, nel Sudafrica del cortometraggio “Lazy Susan (Vassoio girevole)di Stephen Abbott, ma in una dimensione di difficoltà umana tra l'arroganza di un cliente e un meschino furto degli spiccioli di mance quotidiane. Sempre nel sud dell'Africa, in Angola, il cortometraggio “Excuse Me I Disappear (Scusatemi se sparisco)di Michael Mac Garry, già nel titolo anticipa la cifra di assurdità della non esistenza di un anonimo spazzino comunale, che scompare nell'anonimia e sperequazione socio economica del quartiere irreale in cui il lavoro lo porta ogni giorno.

I dodici minuti di “Discipline (Disciplina) dello svizzero-egiziano Christophe M. Saber, riportandoci appena oltre il nostro confine verso nord, rendono con straordinaria efficacia la babele non solo linguistica nel microcosmo svizzero di un supermercato, dove le incomprensioni linguistico-culturali generano fraintendimenti che alimentano una rissa dall'evoluzione esponenziale.

The Monk (Il monaco)del birmano The Maw Naing, sembra spostarci in una dimensione quasi irreale di ascetismo, ma le vicende umane oltre che spirituali del monastero nel cuore della foresta birmana e l'inatteso, breve incontro con la realtà urbana, lo rendono più concreto.

E per concludere, lasciandoci aperti al proseguo delle vite, i film hanno mostrato l'irrisolto di tragedie, troppo spesso archiviate o mal-trattate dal sistema mediatico, restando ferite non riemarginate e pronte a riaprirsi, seppure in forme diverse, attraverso l'intero mondo: dalla Haiti di “Meurtre à Pacot (Omicidio a Pacot)di Raoul Peck che scavando nelle macerie e nei sentimenti dei personaggi, ci rammenta di come le catastrofi ambientali, il terremoto nella fattispecie, colpiscano non solo nel momento dello scoppio, ma si insinuino tra le crepe dei muri e delle vite che vi si aggirano, mettendo a nudo i risvolti peggiori delle persone. Alle zone dell'Africa subsahariana già attraversate da sanguinosi conflitti interni ormai dimenticati dall'attenzione mediatica, in cui il cortometraggio “Umudugudu! Rwanda 20 ans après Umudugudu! Rwanda 20 anni dopo)dell'italiano Giordano Cossu ci conduce nell'esplorazione delle situazioni latenti e non concluse di un paese uscito dalla tragedia ma non dal rischio del suo riesplodere. O il lungometraggio del burkinabé Sékou Traoré “L'oeil du cyclone (L'occhio del ciclone), presentato in prima europea, che ci ricorda le bombe ad orologeria degli ex bambini soldato, diventati adulti mai recuperati dal danno del condizionamento che hanno subìto. Per arrivare, infine, purtroppo ancora nel presente, con le dolorose immagini delle “Letters from Al Yarmouk (Lettere da Al Yarmouk)del palestinese Rashid Masharawi, che ci accompgnano “oltre il disumano” ,come affermato lo scorso aprile dall'UNHCR, in quel tragico quotidiano della situazione tutt'ora aperta nel campo profughi palestinese dell'omonimo quartiere di Damasco, assediato da fame, da bombe e dalla morte ancor prima che dai criminali di Daesh.

L'augurio quindi che possiamo fare e farci, in questo significativo compleanno, è che il Festival Cinema Africano d'Asia e America Latina di Milano, possa continuare a regalarci per molti altri compleanni, oltre al valore artistico delle opere scelte, anche quello del suo impegno politico nel restituirci, come anche quest'anno ha fatto, un quotidiano che va oltre confini, muri, barriere geografiche, culturali o mentali e rende simile e vicina, in questo difficile passaggio della storia, tutta la comune umanità.

giovedì 21 maggio 2015

Bonus bebè anche per gli stranieri




Segnaliamo questa utile informazione sui BUONI BEBE' validi anche per gli stranieri:



   
Da lunedì 11 maggio è possibile fare le domande per il bonus bebe per tutti i nati dal 1 GENNAIO 2015 e poi entro 90 giorni per quelli che nasceranno.


Per poterlo fare bisogna NON superare il reddito massimo ISEE di 25.000 euro
La domanda può essere fatta anche dai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti con un normale permesso di soggiorno. Non è necessario il Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (ex-carta di soggiorno).
Per fare la domanda è possibile rivolgersi ai CAF.
Se per caso per fare la domanda venisse richiesto il Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (ex-carta di soggiorno) vi chiediamo di farcelo sapere perché non è corretto!
Segnalatelo via mail all’indirizzo: tc@todocambia.net o venendo al nostro sportello il lunedì dalle ore 18.15 alle 20.30 in via Oglio 21 Milano (presso Arci Corvetto)




mercoledì 20 maggio 2015


Un giudice, un attentato mafioso e una sopravvissuta







Sola con te in un futuro aprile di Margherita Asta e Michela Gargiulo (Fandango) racconta una storia dolorosa, terribile, ma che va ricordata.

È il 2 aprile di trent’anni fa, Carlo Palermo è arrivato in Sicilia da quaranta giorni. A Trapani aveva preso il posto di un magistrato coraggioso ucciso dalla mafia, Giangiacomo Ciaccio Montalto. Due macchine della scorta parcheggiano davanti al cancello di una villetta vicino a Bonagia, a 3 chilometri di distanza dalla casa della famiglia Asta.
Il giudice Palermo vive lì da pochi giorni e proprio lì arriva l'ultima telefonata di minacce che era stata ancora più esplicita e definitiva: "Dite al giudice che il regalo sta per essergli recapitato".

Il giudice, la mattina del 2 aprile 1985, scende di casa alle 8 e qualche minuto per recarsi al Tribunale di Trapani. Sul rettilineo di contrada Pizzolungo la macchina trova davanti a sé un'altra auto, una Volkswagen Scirocco, dentro ci sono Barbara Rizzo, giovane madre di 31 anni, e due dei suoi tre figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe di 6 anni che stanno andando a scuola. L'autista del giudice aspetta il momento giusto per iniziare il sorpasso; le tre auto, per un brevissimo istante, si trovano perfettamente allineate ed è proprio in momento che viene azionato il detonatore.

L'esplosione è devastante, una bomba al tritolo. L'utilitaria fa scudo all'auto del sostituto procuratore che si ritrova scaraventato fuori dalla macchina , è ferito ma miracolosamente vivo. Muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Nunzio Asta, il marito di Barbara in quei giorni va a lavoro un po' più tardi a causa di un intervento al cuore. Sente il boato, esce per andare a prestare soccorso, ma non lo lasciano avvicinare. La Volkswagen di sua moglie è stata polverizzata, non sospetta che la sua famiglia sia rimasta coinvolta. Margherita, l'altra figlia di dieci anni, in quel momento è già a scuola. Avrebbe dovuto essere a bordo anche lei, ma quella mattina i due fratellini ci mettevano troppo tempo a vestirsi e per non fare tardi la ragazzina chiede un passaggio in macchina alla mamma di una sua amica e si salva.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato la giornalista Michela Gargiulo che ringraziamo molto.



Come avete lavorato, lei e la sig.ra Margherita, per la stesura di questo libro che racconta una storia così dolorosa?


Conosco Margherita dal 2006 e, da quell'incontro, è nata subito un'amicizia, un rapporto speciale. Ho provato nei confronti di questa donna una senso di affetto profondo e quasi di protezione. Abbiamo iniziato a conoscerci sempre meglio e io, nei miei viaggi siciliani, finivo sempre a Pizzolungo con lei, la sua nuova madre e il fratello Giuseppe Salvatore. Ci sono state vicende personali che ci hanno unite, Margherita è madrina di mia figlia e il progetto di scrivere il libro della sua storia è nato molto tempo fa. Mi sono spesso avvicinata, in questi anni, ai ricordi di Margherita con timore e rispetto. La curiosità professionale ha sempre lasciato il posto alle confidenze e all'accoglienza. Margherita è una donna di grande coraggio ma tirare fuori un dolore così grande non è stato facile. Ho raccolto i ricordi di Margherita durante i nostri incontri. Pezzi di storia scritti spesso in rubriche e quaderni diversi che finivano sempre sul comodino, uno sopra l'altro. Margherita mi ha dato i preziosi giornali che suo padre Nunzio custodiva in cassaforte e sono stati per me uno strumento fondamentale per ricostruire molte scene del libro. Gli atti giudiziari sono stati l'ultimo tassello per ricomporre la sua storia, dal giorno dell'attentato ad oggi. "Sola con te in un futuro aprile" è un libro che è nato grazie al nostro rapporto di fiducia e di affetto profondo, è stato un lavoro di rilettura di fatti di cronaca decisivi per il nostro Paese fatto da un punto di vista unico: quello di chi aveva subito la perdita di tutto ciò che aveva di più caro. Credo che il lettore, di fronte al racconto intenso di questa donna, riesca a vivere il suo dramma personale e insieme a lei la rabbia delle ingiustizie subite ma allo stesso tempo capirà quanto è importante lottare contro la mafia e portare avanti un messaggio di speranza per costruire una storia diversa per il nostro Paese.


E' un percorso, anche interiore, quello che in questi trent'anni ha dovuto affrontare la sig.ra Margherita...


Margherita ha affrontato il dolore della perdita più grande, quella della madre. Ha dovuto gestire la rabbia e l'ha trasformata in una risorsa che le ha permesso di cercare la verità sulla sua storia. Ha costruito il suo futuro sulla speranza e questa è la dimostrazione della sua grande umanità.


Vogliamo spiegare più approfonditamente di cosa si stesse occupando il magistrato Carlo Palermo?


E' impossibile raccontare in poche righe l'ampiezza delle indagini di Carlo Palermo. Lui ha iniziato la sua attività di giudice istruttore a Trento nel 1980 e da allora non si è mai fermato fino al quel tragico 2 aprile 1985. Dai traffici di morfina base che transitavano da Trento provenienti dalla Turchia e diretti in Sicilia ha indagato sui traffici di armi, due mercati che, nelle sue inchieste, erano paralleli. Ha messo sotto inchiesta uomini dei servizi segreti, trafficanti, mercanti della droga, mafiosi e pidduisti. Poi, nel 1984, ha iniziato a percorrere le tracce che lo portavano dritto a due società vicine al partito socialista. Era la pista politica. Quell'inchiesta scatenò l'ira dell'allora presidente del consiglio Bettino Craxi e Carlo Palermo capì in quel momento che per le sue inchieste rimaneva poco tempo. Sul giudice istruttore arrivò un procedimento disciplinare, si aprì un'inchiesta penale per l'arresto di due avvocati. Fu costretto a chiudere l'inchiesta su armi e droga prima che questa fosse trasferita a Venezia ad altri giudici. Allora, a novembre 1984 decise di trasferirsi a Trapani per riprendere i fili del traffico di droga. Arrivò in Sicilia a fine febbraio 1985 e dopo soli 40 giorni ci fu l'attentato. Dopo l'attentato Palermo non ha mai smesso di cercare la verità e da trenta anni si interroga ancora su chi voleva la sua morte.

E' un testo che parla del nostro Paese: cosa è cambiato da allora?


Sono cambiate molte cose, altre sono rimaste immutate . La mafia ha cambiato volto e modalità ma gode sempre di un sistema di complicità a vari livelli. I meccanismi di infiltrazione sono sempre più sofisticati e meno riconoscibili. Io credo che anche i sistemi criminali si siano adeguati ad un mondo globale in continua evoluzione e che sarà sempre più difficile colpire gli interessi e i capitali frutto di attività criminali. Gli anni che ci lasciamo alle spalle sono stati anni terribili segnati da stragi e morti innocenti. Ancora oggi, per molti di quegli episodi non conosciamo né i colpevoli, né i moventi. Non sapere la verità su episodi che hanno segnato il corso della storia di questo Paese ha creato un sistema fragile, frutto di segreti e quindi di ricatti.


Qual è stato l'esito del processo per gli esecutori dell'attentato e come si può commentare quella sentenza?


Il primo processo sugli esecutori materiali della strage rappresenta un capitolo nero della nostra storia. In primo grado, nel 1988, la Corte di Assise di Caltanissetta, condannò all'ergastolo tre uomini per avere messo in atto la strage di Pizzolungo. Erano Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. Furono condannati, rispettivamente a 19 anni e a 12 anni, Giuseppe Ferro e Antonino Melodia. In secondo grado gli stessi uomini furono assolti e la prima sezione penale della corte di cassazione, presieduta da Corrado Carnevale confermò la sentenza di appello. Solo nel 2002, durante il processo sui mandanti i pentiti racconteranno che erano stati proprio quegli uomini a eseguire materialmente la strage ma anche di fronte a quel quadro accusatorio convergente e completo nessun tribunale potrà più processare chi è stato assolto per sempre.


Nell'attentato hanno perso la vita una madre e due figli piccoli: questo libro è dedicato a loro e crediamo porti anche un messaggio importante per i ragazzi di oggi...


I nostri ragazzi dovrebbero conoscere la storia di Barbara, Giuseppe e Salvatore e con questa andare a scavare nella cronaca recente del nostro Paese. La loro morte drammatica raccontata in questo libro dovrebbe essere uno stimolo per i giovani a guardarsi intorno e chiedersi quante sono le vittime innocenti delle quali non ci ricordiamo nemmeno i nomi. Sono 900 le persone uccise dalla mafia, alcune di loro sono state dimenticate e i loro nomi risuonano il 21 marzo quando Libera dedicata loro la giornata della memoria. Io spero che "Sola con te in un futuro aprile" faccia sentire anche le voci di chi non è stato raccontato. I ragazzi sono la nostra speranza e per costruire un mondo più giusto devono conoscere a capire qual è stata la storia del nostro Paese.