sabato 30 marzo 2013

Un Filmfestival milanese che riflette sulla condizione femminile



Si è conclusa da poco l'ultima edizione di Sguardialtrove, filmfestival a regia femminile che si è tenuta dal 4 al 10 marzo a Milano e di cui abbiamo già anticipato il programma in un articolo precedente.
Per tutto il mese di marzo è stata allestita, in Triennale, una mostra dedicata all'area latino americana, sempre con un'attenzione speciale per il mondo femminile. Sì, perchè la XX edizione della manifestazione, con la direzione artistica di Patrizia Rappazzo, anche quest'anno si è proposta come obiettivo quello di riflettere sul rispetto della dignità delle donne e di rilevare il livello di consapevolezza sulle dinamiche tra maschi e femmine, ragazzi e ragazze. Questo argomento è stato approfondito nella sezione “Cinema e formazione” attraverso una tavola rotonda dal titolo: “Dalla parte delle bambine e delle ragazze: come crescono le bambine oggigiorno? Come diventano ragazze e poi donne consapevoli di sé?”. Ad arricchire questa riflessione, è stata proposta una retrospettiva sulle opere della regista Roberta Torre.
Ma il festival si è anche confermato come uno studio sui temi di stretta attualità. Vogliamo qui ricordare alcuni film che sono stati premiati in questa edizione e che mettono in luce contraddizioni politiche, problemi sociali ancora irrisolti, ricerca dell'identità da parte di tutti , uomini e donne, e in tutto il mondo.
Il film vincitore del concorso internazionale documentari “Le donne raccontano” è andato a The only son di Simonka De Jong : il diciannovenne Pema vive in Olanda, ma le sue origini sono nepalesi. I suoi genitori lo avevano dato in adozione, costretti dalla miseria e ora vorrebbero che sposasse una ragazza del suo villaggio: Ma Pema desidera continuare a studiare e a vivere un'esistenza “all'occidentale”. Il film è stato premiato con la seguente motivazione: “Per l'intelligenza con cui ha saputo raccontare l'inconciliabilità dei desideri all'interno di una famiglia e la lacerante contrapposizione tra i bisogni di generazioni cresciute con punti di riferimento geografici e culturali diversi. Non c'è accordo possibile tra il futuro sognato dai genitori per se stessi e per i propri figli e il fatto che le ambizioni di questi implichino il coraggio di convivere con l'inevitabile senso di colpa che questa comporta per inseguire la propria felicità. Un momento cruciale che la filmmaker affronta con sensibilità accompagnando lo spettatore lungo un cammino comune a uomini e donne di tutte le latitudini”.
Una menzione speciale è andata a Il limite di Rossella Schillaci in cui la vita quotidiana dell'equipaggio di un peschereccio d'altura siciliano diventa specchio del presente e della crisi che produce effetti sull'intera esistenza dei pescatori. Nella motivazione si legge: “ Per la spontaneità con cui riesce ad avvicinare i personaggi in un mosaico che riflette i rischi, la precarietà, la fatica e la poesia che la vita di mare comporta. Lo sguardo della regista si dispone al racconto della vita dei pescatori intessendolo con una drammatica attualità fatta di difficoltà economiche e sbarchi di clandestini”.
Il concorso internazionale Lungometraggi “Nuovi sguardi” ha visto come vincitore il film Eat sleep die, di Gabriela Pilcher. Il film narra la storia della ventenne Rasa che vive, con il padre, nella Svezia meridionale. La ragazza lavora in una fabbrica, ma a un certo punto perde il posto. La cinepresa la segue nella sua lotta per rimanere nel villaggio, nonostante sia senza lavoro e le richieste governative che impongono la ricerca di un'occupazione anche lontano da casa. Il lungometraggio racconta “la disperazione e l'emarginazione sociale con toni mai patetici, ma con energica determinazione”.
Infine, anche nel concorso italiano “Corti Doc Sguardi (S)confinati” è stata premiata un'opera che pone al centro della riflessione il tema del lavoro (e delle donne): Licenziata di Lisa Tormena. La Omsa – storica fabbrica faentina di calze - chiude per essere delocalizzata in Serbia. 350 persone licenziate, quasi tutte donne e molte in cassa integrazione. Un gruppo decide di raccontare la propria storia di rabbia e di delusione. La motivazione, più che valida, del premio recita: “ Per l'urgenza e la forza con cui mette in scena il dramma di un gruppo di donne coraggiose che trovano uno sfogo creativo a una situazione di protesta e di rabbia. Lisa Tormena dimostra la capacità di leggere la realtà e di interpretare le dinamiche sociali con una particolare attenzione al mondo femminile”. 
 




venerdì 29 marzo 2013

I matrimoni gay in Francia: proteste e contromanifestazioni



Il governo socialista del Presidente Hollande, a febbraio, ha approvato la norma che rende possibile il matrimonio tra persone dello stesso sesso e apre loro la strada anche all'adozione di bambini. 329 voti a favore contro 229 contrari. “Non si considereranno più le persone in base al loro orientamento sessuale, facendo delle differenze. Un elemento di discriminazione in meno, questo è davvero un grande giorno per l'uguaglianza di tutti”, queste le parole di Bruno Le Roux, presidente del gruppo socialista all'Assemblea Nazionale.
Il 24 marzo scorso, invece, le dichiarazioni sono state altre, da parte dei manifestanti contro la legge. “Per noi un uomo e una donna si completano e se un bambino è allevato da due uomini o da due donne ovviamente sarà amato, ma gli mancherà qualcosa di fondamentale per la sua evoluzione”, ha spiegato una ragazza; oppure “I senatori spiegheranno senza dubbio perchè questa legge che autorizza l'adozione avrà delle conseguenze molto gravi. Parliamo di bambini senza legami di sangue con i genitori, senza un padre e una madre”, ha sostenuto Tugdual Derville, un portavoce del corteo che ha visto la partecipazione del popolo conservatore, molti cattolici ed esponenti del centro-destra.
Il percorso delle marcia di protesta è partito dalla Défense e si è snodato fino all'arco di Trionfo, per otto chilometri: alla marcia hanno partecipato migliaia di persone, tra gli oppositori alla legge e i sostenitori. I primi accusano la Polizia di aver usato gas lacrimogeni contro famiglie e bambini; i secondi di aver strumentalizzato proprio i minori, portandoli a manifestare con cartelloni e magliette per le strade di Parigi.
Intanto si aspetta, a giugno, la decisione, in materia, da parte della Corte Costituzionale degli Stati Uniti. Una decisione che potrebbe essere storica.


giovedì 28 marzo 2013

Una conversazione con Clelia Bartoli, autrice del saggio “Razzisti per legge. L'Italia che discrimina”, Editori Laterza




 In Razzisti per legge. L'Italia che discrimina (Editori Laterza) Clelia Bartoli, docente di Diritti umani alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo, riesce a dimostrare che - nonostante gli italiani dichiarino di non essere razzisti, la “razza” -  nel Belpaese, non sia un dato naturale, ma un oggetto sociale e che essa prenda corpo perchè collettivamente, attraverso le leggi e il comportamento, la facciamo esistere. E, in particolare,sempre secondo la tesi dell'autrice, i migranti siano diventati una “razza” nuova, contemporanea: quella dei clandestini.



Abbiamo rivolto alcune domande a Clelia Bartoli



Quanto è importante, oggi, monitorare il linguaggio? Le parole, pronunciate e scritte, confermano stereotipi e pregiudizi?

La parola, come eminente espressione umana, è impregnata dalle relazioni di potere. Il linguaggio pone un ordine nel pensiero e nelle emozioni, censurando, enfatizzando, plasmando ciò che crediamo e sentiamo. Ciò significa che le frasi offensive, i discorsi escludenti, gli epiteti pregiudiziali costituiscono una forma di razzismo. Ma la discriminazione si annida perfino nella grammatica, nella sintassi, in espressioni comuni apparentemente neutrali. Ad esempio l’uso del plurale maschile per indicare un gruppo di donne e uomini, significa che il genere (non solo grammaticale) per eccellenza è quella maschile. L’usare la parola “nero” e “scuro” associate a situazioni negative, mentre il “bianco” e il “candore” alla bontà e all’innocenza, sono tutte connotazioni del linguaggio cariche di giudizio, che è bene smascherare e rovesciare. Un percorso di liberazione e affermazione di un gruppo oppresso passa comunque dal linguaggio, il Black power l’aveva ben capito, non a caso diffonde slogan come: “Nero è bello”.
Consiglio di leggere a questo riguardo il bel libro di Federico Faloppa, Razzisti a Parole (per tacer dei fatti), edito da Laterza.

Cosa si intende per “razzismo istituzionale”?

Quando si usa la parola razzismo ci si riferisce generalmente ad atti, parole o atteggiamenti discriminatori posti in essere da una persona contro un individuo o un gruppo. Esiste però un altro tipo di razzismo ancora più pericoloso perché suoi effetti sono più estesi ed è meno visibile, ed è il razzismo istituzionale.
Si tratta della disuguaglianza, della marginalità prodotta da leggi, regole, burocrazia, prassi amministrative, con o senza l’intenzione. Ad esempio sono forme di razzismo istituzionale il fatto che un ragazzo nato o cresciuto in Italia, perché figlio di immigrati, non possa avere la cittadinanza e dunque abbia meno diritti degli altri suoi compagni. È una forma grave di razzismo l’istituzione dei “campi nomadi”, che non hanno nulla a che vedere con la cultura rom, ma sono un modo per ghettizzare, impoverire e avvilire. Altro caso è la detenzione amministrativa nei Cie, che si basa sul principio che un migrante, in quanto tale, può essere privato del più antico e fondamentale dei diritti: quello della libertà, in mancanza di una colpa e di un processo. E potrei continuare a lungo con esempi di razzismo istituzionale.

L'Italia è un Paese razzista?

Evidentemente l’Italia è un paese affetto da razzismo istituzionale. Certamente non è l’unico. Purtroppo il razzismo istituzionale, come quello interpersonale, è un fenomeno diffuso ad ogni latitudine e longitudine. La cosa più saggia da fare e, oserei dire, più patriottica è ammettere questo problema, diagnosticarlo nelle sue diverse forme e correggerlo. C’è chi l’ha fatto, la Gran Bretagna ha saputo intraprendere un esteso processo di ripensamento delle istituzioni in chiave più inclusiva dopo il report MacPherson.
Si badi, ciò andrebbe fatto non solo per una questione di giustizia e bontà verso i poveracci, ma perché l’uguaglianza e un certo benessere sociale sono la condizione per stare bene tutti. Dove le tensioni sociali sono forti, dove esiste una parte della popolazione in grave difficoltà, vi sono importanti ripercussioni anche sul piano della sicurezza e dell’economia dell’intera comunità.

Ci può raccontare un caso, invece, di “buona pratica”?

Fortunatamente ci sono anche delle felici esperienze di istituzioni che intendono essere accoglienti, anche se purtroppo hanno difficoltà a divenire sistema. Nel mio libro racconto il caso del Comune di Riace. Un comune montano calabro, svuotato dall’emigrazione, abbandonato e diroccato che è rifiorito accogliendo i rifugiati. Le case abbandonate sono state rimesse a posto e divenute alloggi per i rifugiati, sono stati recuperati i mestieri tradizionali aprendo botteghe che coniugavano l’abilità dei migranti con quelle degli abitanti del luogo, la scuola e altri servizi sono stati rimessi in funzioni grazie al nuovo popolamento. A Riace sono passati centinaia di migranti e non c’è stato alcun problema di ordine pubblico; il sindaco Domenico Lucanospiega come a Riace, grazie alla politica nuova e vecchia dell’accogliere, ci sia bisogno di artigiani, educatori, mediatori, insegnanti, ben poco di polizia.
Con il Comune di Palermo abbiamo appena intrapreso un’esperienza di accoglienza istituzionale complessa, ma che spero dia buoni frutti. Abbiamo costituito un FoRom, un forum sui rom e soprattutto con i rom, un cantiere di democrazia partecipata, per elaborare delle strategia che possano dare dignità e valore a questa parte di cittadinanza, coinvolgendola attivamente nel processo decisionale e progettuale.

Può aiutarci a riflettere sul significato dei concetti di “contaminazione” e di “democrazia”?

Le mie prime ricerche le ho svolte sugli intoccabili in India, cioè su quelle caste che sono considerate così indegne e impure e il cui contatto risulta altamente contaminante per i membri delle alte caste. La vita degli intoccabili è terribile: sono costantemente evitati, umiliati, usati per i mestieri più sgradevoli e pericolosi, privi del ben che minino diritto.
Si dovrà però convenire che la paura della contaminazione, l’assillo di non perdere il proprio status frequentando persone non ritenute sufficientemente degne, non è una cosa che riguarda solo l’India. La preoccupazione per la salvaguardia del proprio status impedisce l’incontro, la scoperta di altre persone, di possibili amici o addirittura amori. Lo slogan di quest’anno dell’Unar lo dice bene: se chiudi con il razzismo ti si apre un mondo.
Bisogna però dire che gli intoccabili non si sono rassegnati, che l’India non è un continente senza storia e che uno dei più influenti padri costituenti, Ambedkar, era un leader di origine intoccabile che ha introdotto nella costituzione indiana l’abolizione dell’intoccabilità, nonché azioni positive per raggiungere un’uguaglianza sostanziale di classi, caste e tribù svantaggiate. La democrazie è quindi quel dispositivo che prevede la contaminazione, che scardina le differenze di nascita, che crea legami civici in luogo di quelli di sangue.
Ma la democrazia è anche altamente cagionevole, va costantemente accudita, sorvegliata e corretta.


Clelia Bartoli

mercoledì 27 marzo 2013

Il diritto del dissenso




Si può discutere sulle modalità di dissentire o di protestare, ma non del diritto di farlo.
Inna Shevchenko, Oksana Shachko, Anna Hutsol sono le cofondatrici dell'Ong femminista Femen, fondata nel 2008 in Ucraina e che oggi vede attiviste anche in Italia, Germania, Olanda, Francia, Brasile, Stati Uniti e Canada. Le donne, giovani e meno giovani, organizzano dei blitz, si mostrano a seno nudo e con scritte rosse sul corpo e gridano slogan.
Il loro nome - “femen”, appunto - significa, in latino, “coscia” e proprio il corpo è la loro unica arma per combattere la mercificazione e la denigrazione della donna in tutte le società, il turismo sessuale e ogni forma di sessismo.
La protesta delle Femen è arrivata anche in Tunisia. Ma per poco.
Perchè l'attivista che voleva lanciare il movimento anche nel Paese nordafricano, Amina, è stata raggiunta da una fatwa, ovvero è stata minacciata di morte.
19 anni, studentessa liceale, Amina aveva pubblicato sulla propria pagina Facebook alcune sue fotografie a seno scoperto con le scritte, in arabo e in inglese, “ Il mio corpo mi appartiene e non è di nessuno” mentre fuma una sigaretta, oppure “Fanculo la tua moralità”. La pagina del social-network ha raccolto 3700 amici, ma anche tantissimi insulti. Anche la sua famiglia non ha accettato l'atto di rivolta della ragazza, atto che in Tunisia è passibile, dal punto di vista penale, di una condanna a sei mesi di reclusione per l'accusa di “offesa al pudore”. Ma non è finita qui.
Da martedì scorso non si hanno più notizie di Amina: il cellulare è spento e risultano disattivati i suoi profili Facebook e Skype. La situazione è preoccupante se si considera che la ragazza è stata minacciata da un gruppo di salafiti i quali - tramite una dichiarazione ufficiale del predicatore integralista Adel Almi - hanno richiesto, per lei, la quarantena, la fustigazione e,infine, la lapidazione.



 

martedì 26 marzo 2013

Il diritto allo studio: quando non è scontato



Si chiama Malala Yousufzai ed è una ragazzina pakistana di 15 anni. Cinque mesi fa è stata aggredita dai talebani: le hanno sparato alla testa e al collo riducendola in fin di vita. Il fatto è accaduto nella valle di Swat, l'area tribale in cui Malala è nata. Perchè questa violenza? Perchè la ragazza promuoveva il diritto all'istruzione per le bambine. Alla fine del 2008 Malala viene incaricata di scrivere un blog per la BBC Urdu per raccontare l'impatto della dominazione talebana sulla vita quotidiana dei giovani del suo villaggio. Sotto lo pseudonimo di Gul Makai, la ragazzina scrive per dieci settimane e, tra le tante sue considerazioni, si può leggere: “Guardo la mia uniforme scolastica, lo zaino per i libri, l'astuccio e mi rattristo. Solo i maschi tornano a scuola domani”; “Mio fratello non ha fatto i compiti e teme di venire punito se va a scuola. La mamma dice che domani ci sarà il coprifuoco e lui si mette a ballare per la gioia”; “Mio padre ci ha detto che il governo proteggerà le scuole, ma la polizia non si vede da nessuna parte. Ogni giorno sentiamo notizie di soldati uccisi e tanti altri rapiti”. Malala è stata curata prima in Pakistan e poi in Gran Bretagna,a Birmingham dove è tuttora convalescente.
Durante la scorsa edizione del Film Festival Umanitario Internazionale, che si è tenuta a gennaio presso la Casa del cinema di Roma, a Malala Yousufzai è stata consegnata una borsa di studio che le permetterà di completare la sua formazione, oltre al conferimento della cittadinanza onoraria della città.
Il programma della manifestazione ha visto la realizzazione dell'evento speciale intitolato “Tutte a scuola”, un evento sostenuto dalla Commissione delle elette del Comune di Roma e organizzato da SENZA FRONTIERE/withoutborders: un momento di riflessione sul ruolo dell'educazione scolastica obbligatoria e della cultura all'interno di una nazione. Per l'occasione è stato proiettato il film Buddha collapsed out of Shame di Hana Makhmalbaf, vincitore dell'Orso d'Argento al Festival di Berlino 2007: si narra la storia di Bakthay, un'altra bambina che vive in una località montuosa ad est di Kabul. Vuole andare a scuola, ma le è difficile acquistare quaderni e matite e, soprattutto, sfidare il mondo degli adulti e dei suoi coetanei che giocano alla guerra e alla lapidazione. Cerca di perseguire il suo intento con determinazione e non ci sta ad essere apostrofata “piccolo insetto”, ma nel finale dice: “Bisogna morire per essere liberi”, lasciandosi cadere su un letto di fieno sotto i colpi di mitra-giocattolo imbracciati da altri bambini come lei. Il film ha stimolato un dibattito durante il quale la giornalista del Tg3 Lucia Goracci ha sostenuto che: “La battaglia per l'istruzione è quella che influenzerà anche l'esito delle Primavere arabe”. Comunque, in Iran - come in Pakistan e in Afghanistan - le fasce della popolazione più ignoranti ed affamate sono maggiormente preda dei Mullah; a questo si aggiungono lo sbarramento in accesso nelle università per le ragazze, il peso del cambio tra la moneta locale e il dollaro (a seguito, ad esempio, alle sanzioni comminate all'Iran) e, infine, l'impossibilità, per il ceto medio, di andare a studiare all'estero a causa del costo troppo elevato del viaggio.
Ma chiudiamo ancora con le parole di Malala, postate su Facebook poco prima di essere aggredita: “Anche se verranno a uccidermi dirò loro che sbagliano. L'istruzione è un nostro diritto fondamentale”.

lunedì 25 marzo 2013

Il caro prezzo pagato dai bambini siriani



Come sempre, purtroppo, accade durante i conflitti sono i bambini a pagarne il prezzo più alto. A due anni dall'inizio della guerra civile in Siria, sono circa due milioni i minori che ne subiscono le conseguenze peggiori. Le due parti in guerra li usano come scudi umani; malnutrizione e violenze di ogni tipo sono all'ordine del giorno.
Tutto questo è stato rilevato in un rapporto stilato dalla Ong Save the children nel quale, i bambini intervistati, hanno raccontato di essere stati separati dai loro genitori e di aver sperimentato la morte di un parente o di un amico. Ma c'è di peggio.
Justin Forsytth, responsabile di Save the Children in Libano, riporta la testimonianza di un minore, tenuto in una cella con altre 150 persone, portato all'aperto e attaccato ad una ruota per subire la bruciatura di sigarette sul corpo.
In Libano sono oltre 340 mila i rifugiati siriani e, anche qui, mancano i campi di accoglienza: si accontentano, quindi, di alloggi di fortuna (anche se alcune famiglie libanesi li accolgono nelle loro case) e chiedono l'elemosina per le strade del Paese.
Sul sito di Euronews si può leggere la vicenda di Ahmed, padre di cinque figli, che ha trovato rifugio in una stalla in disuso; oppure quella di Nadia che, con quattro bambini e un altro in arrivo, si è sistemata in un palazzo fatiscente; e ancora, la storia di Ines, otto anni, che, insieme ai suoi fratellini, si è accampata in una tenda a pochi chilometri fuori dal territorio siriano, ma non ha modo di proteggersi dalla bassa temperatura o di cibarsi.
L'agenzia ONU per i rifugiati stima che ci sarebbe bisogno di almeno 150 milioni di euro solamente per passare l'inverno. Ma, ad oggi, non solo mancano i fondi, ma sono insufficienti gli aiuti umanitari, l'assistenza sanitaria e anche psicologica.
Le prime vittime di una guerra, come detto, sono le donne e i bambini: vittime di stupri (lo stupro è usato sistematicamente per punire gli oppositori del governo), di pugni e di calci; vittime della brutalità, della fame e della paura. E questi sono traumi che difficilmente si potranno curare.
Per tenerci aggiornati sulla situazione, vi segnaliamo l'incontro, organizzato dal Naga, che si terrà a Milano, in Via Zamenhof 7/a, il 26 marzo, alle ore 20.30. L'incontro si intitola “Cosa succede in Siria? Situazione e scenari di un Paese abbandonato alla sua guerra”: Elena Parasiliti - direttore Terre di mezzo - Street magazine - intervista Gabriele Del Grande, giornalista di ritorno dalla Siria. Ingresso libero

domenica 24 marzo 2013

Il genocidio ignorato degli hazara in Pakistan


Dopo più di un secolo di crimini sistematici come il genocidio, la schiavitù, gli abusi e le violenze sessuali, i crimini di guerra e le discriminazioni, essere Hazara appare ancora oggi un crimine in Paesi come l’Afghanistan e il Pakistan. Solo Sabato 16 Febbraio 2013, infatti, più di trecento uomini, donne e bambini sono stati uccisi o feriti in un attacco terroristico nella città di Quetta. Questo attacco segue un altro attentato avvenuto il 10 Gennaio nella stessa città, attacco che ha provocato la morte di più di cento persone. In questi ultimi anni, più di mille persone appartenenti all’etnia Hazara sono state uccise in simili attacchi organizzati in questo Paese. Oggi, nella loro stessa terra, in Afghanistan, le persone appartenenti a quest’etnia non sono al sicuro.
Attraverso la conferenza che si è tenuta a Bologna il 17 marzo scorso, organizzata dalla Rete Internazionale del Popolo Hazara, si è cercato di capire cosa sta accadendo in quell'area del mondo.
Innanzitutto bisogna partire - come ha sottolineato la giornalista Laura Silvia Battaglia nel suo intervento - da un'informazione corretta. I giornalisti devono documentarsi meglio, studiare e, possibilmente, conoscere le persone e le situazioni di cui scrivono o parlano perchè solo la conoscenza può aiutare a capire le cose.
In particolare, questo discorso vale per la stampa italiana che non si occupa mai abbastanza di politica internazionale e, per quanto riguarda, ad esempio, la politica interna riguardo al tema dell'immigrazione, ne parla sempre in termini di “sicurezza”. Per questi motivi, in Italia, non si hanno molte notizie certe sulla situazione in Afghanistan o in Pakistan e, in rete, si trovano spesso soltanto informazioni scritte in inglese.
Chi riporta le informazioni da quei paesi si dimentica che, al loro interno, ci sono realtà etniche diversissime e che questa diversità non poggia soltanto su motivazioni religiose, ma anche su vicende storiche e disuguaglianze culturali; dimenticando questo, le varie etnie spariscono dalle cartine geografiche, dai discorsi geopolitici e dal mondo dell'informazione. La giornata organizzata dalla Rete Internazionale del Popolo Hazara aggiunge alcuni tasselli di conoscenza e di approfondimento per colmare questi vuoti, queste lacune.
Adelaide Zambusi, coordinatore regionale presso UNHCR Italia, ha ricordato che:
Costituiscono genocidio, secondo la definizione adottata dall'ONU, "Gli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso". Anche la sottomissione intenzionale di un gruppo a condizioni di esistenza che ne comportino la scomparsa sia fisica sia culturale, totale o parziale, è di solito inclusa nella definizione di genocidio.
Il termine, derivante dalla greco γένος (ghénos razza, stirpe) e dal latino caedo (uccidere), è entrato nell'uso comune ed ha iniziato ad essere considerato come un crimine specifico, recepito nel diritto internazionale e nel diritto interno di molti Paesi.
L' 11 dicembre 1946, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite riconobbe il crimine di genocidio con la risoluzione 96 come "Una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte". Il riferimento a "gruppi politici", un'aggiunta rispetto alla proposta di Lemkin, non era gradito all'Unione Sovietica, che fece pressioni per una formulazione di compromesso. Nel dicembre del 1948 fu adottata, con la risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che, all'articolo II, definisce il genocidio come:
Uno dei seguenti atti effettuato con l'intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale:

  • Uccidere membri del gruppo;
  • Causare seri danni fisici o mentali a membri del gruppo;
  • Influenzare deliberatamente le condizioni di vita del gruppo con lo scopo di portare alla sua distruzione fisica totale o parziale;
  • Imporre misure tese a prevenire le nascite all'interno del gruppo;
  • Trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo.

Basir Ahang, giornalista e attivista dei Diritti Umani, ha, invece, sottolineato che questo incontro è stato organizzato anche: “... per il diciottesimo anniversario dell'assassinio di Baba Mazari, l'uomo che perse la sua vita perché credeva nell'uguaglianza e nella giustizia per tutti i cittadini dell'Afghanistan, l'uomo che desiderava che l'essere Hazara non rappresentasse più un crimine. Per due secoli gli Hazara hanno vissuto diversi tipi di crimine come il genocidio, la pulizia etnica, la schiavitù e l'emigrazione forzata. Io non capisco come mai il genocidio degli Hazara venga ignorato dai principali mezzi di comunicazione. I giornali non se ne occupano quasi mai e quando lo fanno parlano di uccisione di sciiti e non di uccisione di Hazara. Ancora non so se questa politica dell'informazione sia da attribuire a un qualche tipo di falsificazione o semplicemente all'ignoranza. Forse non sanno che il motivo per il quale gli Hazara vengono uccisi dai terroristi sia in Pakistan che in Afghanistan è proprio il fatto che loro sono Hazara, facilmente distinguibili dagli altri per via dei loro tratti asiatici. Gli Hazara non vogliono ricorrere alle armi, alla violenza e alla guerra perché credono ancora che il miglior modo di trovare la pace sia la tolleranza e perché pensano che il miglior modo per convivere con gli altri sia accettarsi e rispettarsi reciprocamente. Oggi siamo qui per parlare di tutto questo, siamo qui per dire che anche gli Hazara fanno parte della società umana ed hanno il diritto di vivere in pace. Siamo qui anche per chiedere ai nostri amici italiani di esserci a fianco proprio come oggi, in questa ricerca della pace”.
Terminiamo con la lettera aperta che i poeti di tutto il mondo hanno scritto al Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, al Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso e al Presidente degli Stati Uniti Barack Obama:
Egregi Signori,
Dopo più di un secolo di crimini sistematici come il genocidio, la schiavitù, gli abusi e le violenze sessuali, i crimini di guerra e le discriminazioni, essere Hazara appare ancora oggi un crimine in paesi come l’Afghanistan e il Pakistan. Solo Giovedì 10 Gennaio 2013, infatti, più di cento Hazara sono stati uccisi in un attacco terroristico nella città di Quetta, in Pakistan. In questi ultimi anni, più di mille persone appartenenti all’etnia Hazara sono state uccise in simili attacchi organizzati nello stesso paese.
Oggi, nella loro stessa terra, in Afghanistan, le persone appartenenti a quest’etnia non sono al sicuro. Ogni anno sono esposte agli attacchi dei Kuchi afghani che godono del supporto dei Talebani e del governo afghano. Le loro strade vengono bloccate da Talebani armati, le loro auto vengono fermate e i passeggeri uccisi. Nel centro dell’Afghanistan, dove una gran parte della popolazione Hazara è marginalizzata, non hanno nemmeno accesso a diritti basilari. Ancora oggi essi sono esposti agli attacchi dei Talebani. Il risultato è che circa un milione di Hazara sono fuggiti in numerosi paesi come rifugiati o richiedenti asilo, il più delle volte vivendo in terribili condizioni umane e psicologiche.
La popolazione indigena Hazara rappresentava circa il 67% della popolazione dell’Afghanistan prima del XIX Secolo. Nel corso di questo secolo hanno sofferto il genocidio e la schiavitù e sono stati obbligati con la violenza ad abbandonare le loro terre, situate nel sud del moderno Afghanistan. Più del 60% di questa popolazione venne uccisa e migliaia di loro furono venduti come schiavi.
L’intera storia del XX secolo in Afghanistan è stata contrassegnata dalle uccisioni e dalle discriminazioni nei confronti di questo popolo. Il 10 e 11 Febbraio 1993 in un’area di Kabul chiamata Afshar, il governo dei Mujaheddin e i suoi alleati massacrarono migliaia di donne, uomini e bambini di etnia Hazara. Nell’Agosto del 2008, inoltre, i Talebani uccisero più di 10 000 Hazara nella città di Mazar-i-Sharif. Simili massacri si diffusero velocemente anche in altre parti del paese. La distruzione di simboli e patrimoni artistici e culturali Hazara, nonché la creazione e diffusione di un falso percorso storico attribuito loro, sono state altre strategie adottate, oltre ai già sopracitati crimini, al fine di eliminare l’esistenza di quest’etnia.
Per esempio nel Marzo del 2001, come è noto, i Talebani distrussero le antiche statue di Buddha a Bamiyan, simboli della storia e della cultura Hazara, nonché uno dei capolavori più importanti del patrimonio dell’umanità. Tale è la storia di questi ultimi due secoli di crimini contro il popolo Hazara.
Per queste ragioni, noi poeti di tutto il mondo dichiariamo la nostra solidarietà al popolo Hazara e chiediamo ai leader di tutto il mondo di tenere in considerazione i seguenti punti al fine di assicurare la sicurezza e la salvaguardia del popolo e della cultura Hazara:

1. Dichiarare uno stato di emergenza riguardante la situazione degli Hazara autorizzato dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
2. Esercitare pressione sul governo dell’Afghanistan e sul governo del Pakistan, richiedendo la cessazione immediata degli atti di discriminazione contro gli Hazara, nonché la cessazione del loro supporto a gruppi terroristici.
3. Richiedere agli Stati parte della Convenzione sui rifugiati la protezione dei richiedenti asilo Hazara e la concessione del diritto d’asilo.
4. Istituire una Commissione internazionale di verità che indaghi sui crimini contro il popolo Hazara.
5. Aprire un’indagine presso le Corti e i Tribunali Internazionali come ad esempio la Corte Penale Internazionale.
6. Richiedere alle truppe internazionali presenti in Afghanistan di assicurare la sicurezza delle persone di etnia Hazara.
7. Richiedere ai media internazionali di riferire ed indagare sui crimini e le violenze contro il popolo Hazara in Pakistan e in Afghanistan.








sabato 23 marzo 2013

Antonio Manganelli: una vita per la legalità


Antonio Manganelli - avellinese, classe 1950 - è deceduto all'ospedale San Giovanni di Roma e con un lui si perde un altro servitore dello Stato. Un altro, insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i magistrati con cui svolse la lotta a Cosa Nostra. E la morte di Manganelli avviene quasi in concomitanza con la Giornata dedicata alla memoria delle vittime delle mafie.
Molti ricorderanno la scena in cui il pentito Tommaso Buscetta, con lo sguardo nascosto dagli occhiali scuri, entrò nell'aula bunker del Tribunale di Palermo, in occasione del maxiprocesso: era accompagnato da un funzionario di Polizia, Antonio Manganelli. Era il 1986 e la Criminalpol di Roma dava sostegno alle indagini di Falcone. Insieme a Gianni De Gennaro, Alessandro Pansa, Francesco Gratteri e Ninni Cassarà, Manganelli era impegnato a cercare riscontri alle rivelazioni del pentito. E oggi De Gennaro piange “il suo fratello minore”.
Non solo Buscetta: Manganelli si occupò anche di Calderone, Marino Mannoia e Totuccio Contorno; prese parte alle operazioni Pizza Connection e Iron Tower.
Nel settembre scorso si recò nel capoluogo siciliano per la commemorazione dell' omicidio del Generale Dalla Chiesa e - quattro mesi prima, già malato - aveva scoperto la lapide in ricordo delle trecento vittime delle cosche al Giardino della Memoria di Ciaculli.
Antonello Montante - delegato Confindustria per la legalità - ricorda il progetto, realizzato insieme alla Polizia, per sconfiggere le infiltrazioni malavitose anche nelle imprese, una rivoluzione al grido “Fuori gli iscritti che pagano il pizzo”.
Antonio Manganelli era il “capo” che parlava, discuteva e si confrontava con tutti, soprattutto con i suoi agenti; ed era il “poliziotto” che chiese scusa per i tragici fatti del G8.
Tutto questo è stato Antonio Manganelli. Oggi si svolgono a Roma i funerali di Stato presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli. E noi vorremmo mandare un abbraccio alla moglie, la Signora Adriana Piancastelli, che con lui ha condiviso tutte le battaglie per difendere la legalità.

Mujeres argentinas (si) raccontano


Una mostra che documenta e racconta il percorso esistenziale e artistico di sette donne argentine, emigrate in Italia. A Roma, presso il Museo “Luigi Pigorini”, dal 9 al 23 marzo.


Molti i cognomi italiani in Argentina, come abbiamo già ricordato nell'articolo intitolato “Italiani d'altrove: parole di poeti che scrivono in altre lingue, ma continuano a sentire in italiano”: Piazzolla, De Caro, Pugliese. Molti gli italiani emigrati in Argentina, in passato, che - a Buenos Aires, Cordoba, Mendoza - hanno costruito associazioni, e industrie e hanno prodotto arte. Ma si parla per lo più di uomini.
Tantissime, invece, anche le donne che, dal Bel Paese, sono andate a vivere in Argentina oppure che dal Paese sudamericano hanno deciso di venire in Italia. Il problema, però, è che molti argentini hanno la doppia cittadinanza, arrivano qui con il passaporto italiano senza avere contatti con il Consolato di appartenenza per cui il Consolato stesso ha solo una stima del 50% delle persone che arrivano in Italia.
L'esposizione romana si concentra sulla vitale presenza delle donne argentine: si tratta della vita e dell'operato di ballerine, scrittrici, musiciste, attrici e di una videomaker che portano nelle vie e nelle piazze italiane, ad esempio, il murga - una forma di teatro di strada che unisce danza, canto e musica - e, con esso, la propria cultura. Anche il linguaggio delle immagini e delle poesia cattura istanti di bellezza e veicola la riflessione sul mondo, sulla realtà: una realtà in continua trasformazione.
Anche l'allestimento del percorso espositivo è interessante: le tre curatrici (Inés Grion, giornalista; Marina Rivera, designer; Leticia Marrone, sociologa, tutte e tre italo-argentine) hanno creato - attraverso la tecnica del reportage - una mostra multimediale. La scenografia è costituita dal soggiorno di un'abitazione, uno spazio intimo che permette di raccontare e di raccontarsi, prendendo in considerazione i temi della Memoria, dell'immaginazione, della quotidianità e delle aspettative per il Futuro. E Le donne argentine, che visitano la mostra, possono inserire le loro fotografie all'interno delle cornici - rimaste ancora vuote - nel salotto “artistico”: in questo modo non saranno solamente spettatrici, ma diventeranno, simbolicamente, anche loro protagoniste di un lavoro che parla di immigrazione e creatività, declinate al femminile.          




                      

venerdì 22 marzo 2013

Obama e Miss Israele: non è un gossip (e la recensione del film: Il figlio dell'altra)


Mercoledì scorso il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si è recato in Israele per un vertice diplomatico con i capi di Stato di quell'area del mondo - il premier israeliano Netanyahu e il Presidente Peres, il Presidente palestinese Abbas, il premier Fayyad e il re di Giordania - e si è rivolto, in particolare, agli studenti delle università perchè il suo messaggio anche per i giovani. E una ragazza di 21 anni è stata ospite proprio alla cena di gala organizzata da Shimon Peres per l'occasione. Chi è questa ragazza?
Si chiama Yityish Aynaw: Yityish ha lasciato l'Etiopia e, con il fratello, ha raggiunto la nonna in Israele, sulla costa nord di Tel Aviv. Orfana di padre e di madre - il primo è deceduto quando lei aveva due anni, la seconda quando ne aveva dieci - cita come suoi punti di riferimento Martin Luther King e Golda Meier, dicendo di quest'ultima: “La ammiro perchè è stata capace di ammettere gli errori commessi durante la guerra del 1973 e di dimettersi. Da allora le israeliane hanno conquistato sempre di più la parità”.
La Aynaw ha prestato servizio militare come sergente dell'esercito e ora è diventata Miss Israele, al concorso di bellezza nato due anni dopo lo Stato ebraico.
...Spero che le storie come la mia aiutino ad integrarci senza dimenticare chi siamo e da dove veniamo”: anche per queste sue parole proprio Barack Obama l'ha voluta come ospite alla cena ufficiale. Parole che parlano di radici e di identità: oltretutto, in aramaico, il nome Yitysh vuol dire “guardare al futuro”.


Joseph Silberg è un ragazzo israeliano, figlio di un ufficiale e di una dottoressa che gli garantiscono amore e sicurezze; Yacine Al Bezaaz è un palestinese dei territori occupati della Cisgiordania, costretto a diventare uomo troppo in fretta. Il primo è un musicista che vorrebbe entrare nell'esercito e l'altro è uno studente che vive a Parigi e vorrebbe aprire un ospedale.
Nel 1991 - anno della loro nascita, durante la Guerra del Golfo - l'ospedale di Haifa viene evacuato per motivi di sicurezza e, in quell'occasione, i neonati vengono scambiati. La verità sull'errore dell'infermiera emerge durante la visita medica di Joseph per il servizio di leva nell' Areonautica Militare israeliana: risulterà essere figlio biologico di Orith e Alon, i coniugi benestanti che vivono a Tel Aviv; mentre Yacine è figlio dei più poveri Said e Leila Al Bezaaz. La rivelazione crea panico e scompiglio; le due famiglie tentano di accorciare le distanze culturali, politiche e psicologiche. Ma, mentre i padri si rovesciano reciprocamente addosso la rabbia e il dolore dei loro popoli, i due ragazzi si interrogano sulla propria identità e fanno tesoro di questo “scherzo del destino”.
Decidono, infatti, di continuare a frequentarsi, fino a quando non decideranno addirittura di entrare uno nel nucleo familiare dell'altro: nella vita, nelle abitudini, nella mentalità per poi fare ritorno in quella vita che, per caso, è stata assegnata loro.
La regista francese di origini ebraiche, Lorain Lévi con Il figlio dell'altra parte da una situazione privata e dalla quotidianità per affrontare il tema dell'eterno conflitto che affligge l'area mediorientale: se i due popoli - quello israeliano e quello palestinese - nella realtà sono separati da un muro, nella finzione cinematografica possono varcare quell'odiosa linea di confine per mettersi nei panni del “diverso”, per superare pregiudizi e contraddizioni. I due protagonisti, infatti, trovano il coraggio di aprirsi all'Altro da sé, staccandosi dalla propria cultura di appartenenza, per poi ritornarvi con maggiore consapevolezza e onestà intellettuale.
I padri rappresentano un Passato di guerra e di rancore; le madri, invece, l'amore per la vita e per l'umanità tutta,senza distinzioni; i figli sono quelle nuove generazioni che nutrono la speranza del cambiamento. Il finale del film è volutamente aperto perchè il percorso per un futuro di condivisione è ancora in atto.




 

giovedì 21 marzo 2013

Giornata contro il razzismo e le discriminazioni: una poesia di Viorel Boldis


 
 
A MEZZ'ARIA TRA DUE PATRIE


Non abbiamo più neanche il coraggio di sognare,
neanche il coraggio di volare,
perché qualcuno ci ha preso tutto, il corpo e l’anima,
le braccia e la mente e pure le impronte.

Ma quale vita, quali sacrifici meritano di essere vissuti
sempre sui bordi di uno scoglio,
sempre a mezz’aria tra i nostri sogni e questa realtà?

Guardate, guardate le nostre scarpe
come sono sporche della polvere di tanti paesi.
Guardate, guardate le nostre facce
come sono diverse e colorate!

Non abbiamo più neanche il coraggio
di ridere o piangere insieme.
Tristi e smarriti su strade che non sono le nostre,
dentro i destini che non vogliamo, ma subiamo.

Io essere bravo signore
...io avere documenti in regola signore
...io non rubare signore
...io lavorare e basta signore
...sì signore ...sì signore ...”
...oh Signore!

Ma quale io, non c’è più, non esiste più il nostro io,
è rimasto inchiodato nel passato, nei ricordi
che piano piano svaniscono
inghiottiti da tutta questa nebbia.

Guardate, guardate come sono sottili le nostre vite,
quasi ve le potete infilare nelle tasche
e tirarle fuori soltanto nel momento del bisogno,
per pulirvi le mani o soffiarvi il naso,
o chissà, se per caso vi manca la carta igienica...

Che noia il ticchettare monotono del tempo
quando sconfitti dalla vita e con la testa china
girovaghiamo sulle vostre strade, nelle vostre città,
e vi vogliamo bene, magari non per amore
ma per non odiarvi.

Che noia questo ticchettare monotono del tempo,
e peggio ancora quando non si ha un senso di marcia,
quando non si conosce il punto d’arrivo,
ma soltanto la strada, tortuosa e sempre, sempre in salita.

Guardate, guardate signori, nei nostri occhi
luccicano le vostre lacrime...
 
 
di Viorel Boldis, poeta e scrittore