lunedì 31 agosto 2015

La Carta delle donne: letteratura, cibo e donne




"Alla fine aprii il cancello e lentamente, con la cartella in mano, varcai il portone e, mentre salivo verso il primo piano, mi arrivò un leggero odore che stava attraversando varie porte di legno e qualche tramezzo e che si trascinava lungo le scale. (...) Qualunque cosa fosse successa, non era così brutta da impedire che mia madre facesse la tortilla di patate del venerdì". I ricordi della romanziera spagnola Clara Sánchez, ne L'odore dei venerdì, una delle novelle dell'antologia culinario-sentimentale che prende spunto dalla "ricetta del cuore" che fa parte di "WE - Women for Expo", un progetto realizzato dal ministero degli Esteri e la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, con guide d'eccezione: Federica Mogherini, presidente; Emma Bonino, presidente onorario; Marta Dassù, presidente esecutivo.

Lo scorso 6 giungo è stata presentata a Expo il documento-manifesto "Women for Expo Alliance", una "Carta di Milano" al femminile contro lo spreco alimentare, per il rafforzamento del loro ruolo nell'agricoltura mondiale; un documento che suggella l'alleanza tra le donne di tutti i paesi partecipanti all'Esposizione nella lotta alla fame. Il docuemnto è stato introdotto alla presenza di Michelle Bachelet, primo presidente donna cileno, e,
dopo la conferma ufficiale da parte della Casa Bianca, Michelle Obama.



La premessa della 'carta delle donne' è che loro siano maggiormente consapevoli, più degli uomini, di quanto l'alimentazione sia un diritto universale e siano più brave dei maschi a preparare, conservare e riciclare le risorse naturali. "Le donne costituiscono ancora la maggioranza di coloro che lavorano la terra nei paesi emergenti, ma sono invisibili. Non hanno accesso al credito né, a volte, al diritto di proprietà", dicono le organizzatrici. Secondo i dati della FAO - l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura - il 43% della forza lavoro globale agricola è costituita da donne, raggiungendo la fascia del 50%-70% nell'Africa subsahariana (Mozambico), le stesse zone, con l'Asia occidentale, dove si concentra anche la fame. "Ogni donna è depositaria di pratiche, conoscenze e tradizioni legate al cibo, alla capacità di nutrire e nutrirsi, di prendersi cura. Non solo di se stesse, ma anche degli altri".

Scaricabile gratuitamente dal sito, arriva l'ebook
Novel of the World, opera corale dedicata al nutrimento del corpo e della mente, scaricabile gratuitamente dal sito. 424 pagine, che vede la partecipazione di 104 scrittrici, provenienti da 100 Paesi, che hanno raccontato in 28 lingue la loro "ricetta del cuore". Dal farsi all'italiano, dall'armeno al bosniaco, dal lettone al mongolo. E poi, le lingue europee e anglosassoni, il cinese, il russo. Il mondo diventa un romanzo e alle autrici, che hanno partecipato senza scopo di lucro, regalando il loro racconto, mettendoci, nella maggior parte dei casi, qualcosa di personale: un ricordo, una confessione, una storia di famiglia.
Tra le autrici ricordiamo: Sánchez , Amélie Nothomb e Banana Yoshimoto. La Sánchez racconta , nella già citata ricetta, la tortilla di patate, specialità di sua madre, che aveva una capacità rara di saltarla in padella. La tortilla era preparata il venerdì, mentre l'autrice tornava da scuola, e la consumavano tutti insieme di sera, in terrazza, tranne un giorno: suo padre aveva avuto un infarto e la mangiarono attorno al suo letto. Basta una frittatina per raccontare il terrore che si prova da bambini davanti alla malattia di un familiare. La Nothomb parla di sé nel racconto
La fame è un'Arte sulle parole che salvano la vita e sulla necessità che l'artista sia sempre affamato di successo e ispirazione. Con un retroscena autobiografico: l'autrice accenna al periodo in cui soffriva di anoressia, quando provava piacere a uccidere se stessa, superato grazie alla scrittura. La Yoshimoto con Quello che nutre l'anima, rievoca, al pari della Sánchez, la malattia del padre: il ristorante vicino l'ospedale è quello in cui andavano tutti e quattro, comprese la madre e sua sorella, a mangiare gli spaghetti di soia.




http://www.we.expo2015.org/sites/default/files/attaches/project/novel_of_the_world_-_we_women_for_expo.pdf


domenica 30 agosto 2015

Nidaa Badwan e l’arte a Gaza




di Monica Macchi






L’isolamento è l’unico modo che ho trovato per sfuggire al giogo della società.

E’ l’unica cosa che mi permette di avere uno spazio di espressione e libertà”





Di fronte allo stillicidio di una guerra quotidiana, alle macerie e all’oppressione religiosa, l’artista Nidaa Badwan ha scelto di vivere reclusa nella sua stanza a Dayr al-Balah, nel sud di Gaza, dal dicembre 2013. Laureata alla Facoltà di Belle Arti dell’Università Al-Aqsa ha fatto dell’isolamento un progetto fotografico dal titolo “Cento giorni di solitudine”, (esplicito omaggio a Gabriel García Márquez), in mostra in questi giorni al Centro Culturale di Ramallah. Sono quattordici autoritratti costruiti come nature morte dai colori forti che ricordano la pittura fiamminga, una risposta alla mostra “Also this is Gaza” (Anche questo è Gaza), in cui aveva presentato una testa di donna chiusa in un sacchetto di plastica, metafora del soffocamento che già avvertiva. La foto ha attirato l’attenzione di Anthony Bruno, direttore dell'Istituto Francese di Gaza, che le ha organizzato una mostra presso la Galleria di al-Hoash a Gerusalemme Est. Ma le autorità israeliane non le concedono il visto come del resto non gliel’hanno concesso neppure per la mostra a Ramallah: le sue opere possono uscire da Gaza, lei no.


sabato 29 agosto 2015

Storia di una cooperativa sociale minacciata dalla mafia






27 agosto 2015: l'ennesima intimidazione. questa volta una minaccia di morte rivolta al direttore generare della Cooperativa Giovani in Vita, Domenico Luppino. 


 
 




La Cooperativa Sociale Giovani in Vita conta oggi 26 soci ed è nata nel nell'ambito del PON Sicurezza e Sviluppo nel Mezzogiorno d'Italia 2002-2006 come risultato di un progetto del Consorzio di nove comuni della Piana di Gioia Tauro denominato "Impegno Giovani" di cui faceva parte il comune di Sinopoli, allora amministrato da Domenico Luppino (oggi Direttore Generale della Cooperativa) e da questi fortemente voluta anche per dare una risposta concreta alle diverse intimidazioni subite da parte della criminalità organizzata.



La Cooperativa aveva ed ha come principale finalità il recupero di soggetti svantaggiati attraverso l'offerta di un'opportunità di lavoro sia nel settore agricolo, con la coltivazione e produzione sui terreni confiscati alla 'ndrangheta, sia nel campo dei servizi offerti anche e soprattutto ad altri imprenditori agricoli vittime della mafia che hanno difficoltà a reperire le maestranze disposte a lavorare sui loro terreni.   





La cooperativa opera su un totale di circa 700 ettari di terreni coltivati a uliveto, agrumeto e seminativo divisi tra confiscati, sequestrati o di proprietà di altre aziende agricole private. Risale al 2008 l’assegnazione dei primi terreni (circa trenta ettari) confiscati ad alcune famiglie malavitose dei comuni di Oppido Mamertina e Varapodio, entrambi in prov. di Reggio Calabria, e Limbadi (provincia di Vibo Valentia) e di Sinopoli stesso. La nostra scelta di offrire un'opportunità LEGALE di lavoro a uomini e donne del posto, ha da sempre riscontrato l'opposizione da parte di molte persone e talvolta anche da parte di taluni che, in maniera nemmeno tanto velata e seppur lontani dalla 'ndrangheta, ci hanno "suggerito" di "lasciar perdere" perché "contro certe realtà è una battaglia persa" (cit. testuale). Per non parlare poi dei vari attentati, furti, incendi e quant'altro, che la Cooperativa, e ancor più il direttore Luppino, hanno subito sistematicamente in oltre dieci anni di attività. 



L'idea che ci spinge, però, ad andare avanti sulla nostra strada, e anzi a cercare sempre nuove opportunità di crescita e miglioramento per il nostro territorio, è la convinzione che solo attraverso la creazione di occasioni di lavoro, alternative al profitto "facile" proposto dalle organizzazioni criminali, riusciremo ad essere uomini e donne veramente liberi, anzi, come ci piace dire...



uomini e donne ‘NDRANGHETA FREE



Ecco perché da alcuni anni, ormai, abbiamo intrapreso un nuovo impegno confezionando la marmellata prodotta con le arance, i limoni, le clementine e gli altri frutti dei terreni confiscati e l'imbottigliamento dell'olio, fino a poco tempo fa venduto sfuso all'ingrosso, realizzato con le olive raccolte nei terreni di Sinopoli, Oppido Mamertina e Limbadi.



Nonostante gli svariati tentativi di impedirci o quantomeno ostacolarci nel nostro lavoro, stiamo proseguendo con fermezza sulla nostra strada e stiamo portando avanti il nostro progetto. Anzi, il nostro impegno nella ricerca di nuove opportunità di lavoro per la crescita della Cooperativa stessa e quindi degli uomini e delle donne che la compongono, è sempre maggiore. Ecco perché da meno di un anno abbiamo aperto un nostro punto vendita a Firenze ed un altro è in fase di apertura a Messina; abbiamo anche avviato un laboratorio di pasticceria e prodotti da forno sempre a Firenze e stiamo collaborando con Associazioni, Cooperative e altre realtà pubbliche e private di rilevanza anche nazionale e internazionale.



Giovani in Vita, solo per parlare degli ultimi anni, si è resa promotrice di alcune importanti iniziative sociali quali la costituzione di una Rete di Imprese denominata Calabria Solidale (un progetto di Chico Mendes Coop. Scarl di Milano) – rete di produttori calabresi che promuovono i principi di legalità, trasparenza, solidarietà, rispetto del lavoro, tutela dell’ambiente e del territorio e che mette in relazione piccoli agricoltori di una delle regioni italiane con maggiori difficoltà di sviluppo con i consumatori solidali – e di una Cooperativa di Comunità (TENORCA Terre Normanne di Calabria) finalizzata al recupero dal rischio di estinzione di un intero Comune, quello di Arena in provincia di VV, e al recupero di una specie di legume, il fagiolo Zicca Janca, coltura che sta scomparendo; la sottoscrizione di un Patto di Collaborazione con la "Misericordia di Firenze" per la fornitura a titolo gratuito delle eccedenze alimentari e dei prodotti in scadenza per la redistribuzione alle persone in difficoltà; un accordo di collaborazione con Emergency, finalizzata alla fornitura di prodotti alimentari e al riconoscimento di una parte del ricavato delle vendite alla stessa Associazione; una collaborazione con l’Associazione "SOS Rosarno" finalizzata all'impiego di migranti africani ospiti della tendopoli di San Ferdinando.


La Cooperativa ha anche avviato rilevanti rapporti commerciali con realtà quali SIAF, importante azienda pubblico-privata specializzata nelle forniture per le mense scolastiche e ospedaliere, e CTM Altromercato, la principale organizzazione di fair trade presente in Italia (con circa 300 Botteghe del Mondo) e tra le principali a livello internazionale.




https://www.facebook.com/pages/Cooperativa-Giovani-In-Vita-RC/344764342204778?ref=aymt_homepage_panel

giovedì 27 agosto 2015

Il Papa fermi le stragi in mare e apra dei canali umanitari



Lettera al Papa


 

Di fronte all’immobilismo dei governi dell’Unione Europea, il Pontefice potrebbe sostenere un’alternativa umana alla mafia dei trafficanti ponendosi al centro dell’azione diplomatica.

Le nunziature apostoliche, cioè le missioni diplomatiche che rappresentano la Santa Sede nel mondo, potrebbero fare ciò che le Ambasciate degli Stati europei negano: rilasciare visti di ingresso perché le famiglie, i bambini, le donne, gli uomini che fuggono da guerre e persecuzioni possano raggiungere Paesi Sicuri su mezzi di trasporto legali, invece di essere costretti a pagare gli scafisti e morire a migliaia sui barconi.

Un corridoio umanitario garantito dai governi permetterebbe a quanti vogliono fare richiesta di asilo di presentarsi direttamente nelle ambasciate dei Paesi europei (nello stesso Stato dal quale intendono fuggire o nei Paesi confinanti con quello da cui fuggono), senza dover intraprendere un viaggio terribile e spesso mortale.

Tutto ciò potrebbe essere possibile semplicemente applicando le norme vigenti.

Le nunziature apostoliche svolgono infatti anche la funzione di rappresentanza diplomatica e dunque chi scappa da persecuzioni e guerre potrebbe chiedere un visto di ingresso ai Nunzi Apostolici. Gli accordi già in vigore con i Paesi Ue permetterebbero ai profughi di raggiungere la Santa Sede via nave, via terra o attraverso l’aeroporto di Fiumicino o Ciampino, viaggio per canali legali che non potrebbero intraprendere in assenza di visto di ingresso.

Chiediamo a Papa Francesco di:

1) permettere alle persone in fuga da guerre e persecuzioni di chiedere asilo alla Santa Sede (che ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951) rivolgendosi direttamente ai nunzi apostolici presenti presso i Paesi di fuga o di transito e dimostrare così all’Europa che si può e si deve realizzare un corridoio umanitario per impedire che le persone soffrano e muoiano per affermare il loro diritto all’asilo e alla sopravvivenza.

2) permettere a queste persone, una volta arrivate fisicamente in Vaticano, con un visto temporaneo, di presentare richiesta d’asilo in altri Paesi, rivolgendosi ad una delle 178 ambasciate che hanno sede in Vaticano. In tal modo si neutralizzerebbe anche la Convenzione di Dublino che limita la libertà delle persone di scegliere in quale paese rifugiarsi e vivere.

Alessandra Ballerini; Leonardo Cavaliere; Carmelo Gatani; Paola La Rosa







Per firmare la petizione su Change.org:

https://www.change.org/p/il-papa-fermi-le-stragi-in-mare-e-apra-dei-canali-umanitari?recruiter=59920555&utm_source=share_petition&utm_medium=facebook&utm_campaign=fb_
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mercoledì 26 agosto 2015

Turchia / Kurdistan: aiutare i Kurdi contro lo "Stato Islamico"




Ankara deve interrompere immediatamente il bombardamento della popolazione civile kurda!




(da Associazione per i popoli minacciati)





Sabato 8 agosto 2015 alle ore 16 in piazza del Grano a Bolzano, la comunità kurda di Bolzano e provincia protesterà contro i bombardamenti dell'aviazione turca contro i villaggi kurdi. L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) appoggia questa ennesima protesta pacifica: da tempo ormai la popolazione kurda sta pagando il prezzo della politica di Ankara, che mostra più interesse ad un appoggio allo Stato Islamico piuttosto che a una soluzione pacifica e concordata della questione kurda.

Con il pretesto della lotta al terrorismo, Ankara, più che impegnarsi nella lotta all'IS, bombarda le postazioni del PKK e di fatto tenta di soffocare le ambizioni di autonomia della popolazione kurda. Come riportano anche molti media, i bombardamenti indiscriminati dell'aviazione turca sui villaggi sono costati la vita a 260 persone, per lo più civili, in soli 7 giorni.

Mentre lo scorso 24 luglio 75 jet dell'aviazione turca bombardavano postazioni del PKK in Iraq solo 3 aerei turchi bombardavano le postazioni dello Stato Islamico (IS) in Siria. Secondo testimonianze dirette ricevute dall'APM di Göttingen, nelle prime ore del mattino del 25 luglio, l'artiglieria turca ha attaccato anche le postazioni delle unità di autodifesa popolari kurdo-siriane opposte alle milizie dell'IS del villaggio di Zornmaghr, situato a ovest di Kobane. Sempre secondo le testimonianze, il 31 luglio l'aviazione turca avrebbe attaccato il villaggio siriano di Hillel, solo poco dopo che le milizie kurde l'avevano liberato dalle milizie dello Stato Islamico. Bombardando coloro che finora sono gli unici ad essere riusciti a limitare e respingere le milizie dell'IS, il governo turco di fatto sostiene proprio l'IS.

L'esercito turco ha attaccato anche molteplici villaggi nell'Iraq del Nord, da Zakho a ovest fino alle montagne di Qandil a est. I villaggi e le località bombardate sono state Mergasor, Khakurk, Piran, Keshan, Mizdor, Kato, Swel, Kesta, Balok e Sidekan. I bombardamenti del villaggio kurdo-irakeno di Zarggele hanno causato dieci vittime civili e undici feriti.

Gli attacchi dell'esercito turco sono stati accompagnati in Turchia da un'ondata senza precedenti di arresti di presunti simpatizzanti del PKK. In seguito agli attacchi turchi il PKK ha dichiarato conclusa la tregua firmata con il governo turco nel 2013 e ha quindi sferrato diversi attacchi a postazioni militari turche causando a sua volta vittime e feriti.

Selahattin Demirtas, leader del Partito Democratico del Popolo (HDP), formazione pro-kurda che alle ultime elezioni in Turchia ha ottenuto uno storico 13%, ha lanciato un appello al governo di Ankara e ai membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) chiedendo loro di cessare immediatamente le ostilità e invitando entrambe le parti al dialogo. L'APM non può che associarsi a questa richiesta.

La comunità kurda di Bolzano e provincia invita tutti a partecipare alla manifestazione contro i bombardamenti turchi al PKK sabato 8 agosto, a partire dalle ore 16 in piazza del Grano a Bolzano.

Vedi anche in
gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150730it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150727it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150624it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150611it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150609it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150522it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150320it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150128it.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/indexkur.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/kurtur-it.html
in www:
http://it.wikipedia.org/wiki/Yazidi | http://it.wikipedia.org/wiki/Kurdistan

martedì 25 agosto 2015

Sos al Papa per la chiesa del carcere a Porto Azzurro



Il direttore del penitenziario, D’Anselmo: "Le rivolgo una richiesta di aiuto a nome dei 500 reclusi"



(da La Nazione)



Porto Azzurro (Isola d'Elba, Livorno) 18 agosto 2015 - "Le rivolgo, Santo Padre, una richiesta di aiuto a nome di circa 500 persone recluse nel carcere di Porto Azzurro, che da ormai quasi 10 anni non possono più partecipare alla santa messa nella chiesa di san Giacomo Maggiore, situata all’interno del secentesco forte spagnolo che ospita la casa di reclusione".

Inizia cosi la lettera che il nuovo direttore del penitenziario elbano, Francesco D’Anselmo, ha scritto a papa Francesco per informarlo della situazione e chiedere un suo autorevole intervento per far sì che la chiesa in questione, costruita nel ‘600, venga restaurata e torni ad essere un punto di riferimento non solo per la popolazione carceraria, ma anche per il paese di Porto Azzurro.

"Dal 2004 – aggiunge il direttore - la chiesa è stata dichiarata non agibile e perciò chiusa al culto. In realtà varie perizie avevano allora evidenziato che non si trattava di una situazione di particolare gravità, ma di infiltrazioni della copertura e di deterioramento delle gronde. Così fin dal 2005 dal Vescovo diocesano e dalla direzione del carcere era stato individuato un progetto per il restauro dell’ edificio, che prevedeva costi piuttosto contenuti. I detenuti, i volontari, gli operatori penitenziari a più riprese si rivolsero ai ministri della Giustizia e dei Beni ambientali. Ne seguirono dichiarazioni di disponibilità e di attenzione al problema. Ma gli anni sono passati e la chiesa è sempre chiusa, le sue condizioni sono deteriorate ed il degrado è sempre più evidente". Il direttore evidenzia l’importanza della Chiesa riveste per i reclusi.

"Per i detenuti che vivono in ambienti angusti – scrive ancora il dottor D’Anselmo - l’unico luogo armonioso che può trasmettere loro serenità e bellezza è questa chiesa. In un carcere, inoltre, dove pochi sono i motivi di conforto, la chiesa è un centro di diffusione di luce ed è bello stare uniti a pregare in un luogo dove molti hanno pregato e dove anche alcuni cittadini della comunità esterna possono, previa autorizzazione, partecipare alla messa, realizzando con i detenuti la comunione cristiana più autentica".

Nel carcere di Porto Azzurro da dieci anni la messa viene celebrata in un piccolo ambiente del tutto inadeguato, che non può accogliere più di 60-70 persone. "E’ un locale adibito a teatrino – spiega il direttore - con alle pareti pitture raffiguranti non certo immagini sacre. Certo, so che l’importanza dell’Eucarestia non dipende da pareti affrescate, statue all’altare ed altro, ma dalla disposizione dell’anima e dalla Grazia. Però l’essere umano ha bisogno di bellezza, musica, arte, che esprimono fede e gratitudine. Tanto più in un luogo di sofferenza e di tristezza come un carcere. Riaprire al culto la chiesa di San Giacomo sarebbe perciò importante, una vera Grazia".

lunedì 24 agosto 2015

Ecco perché una semplice zanzariera può salvare molte vite






Fratelli Dimenticati insegna ai bambini come utilizzare le zanzariere per la prevenzione della malaria in India.



Cosa succede se ti punge una zanzara? Per noi, in Italia, è solo un gran fastidio! Ma in alcuni paesi, tra cui l'India, può essere un grave problema. È con questo concetto che Fratelli Dimenticati ha scelto di far riflettere su un tema che ci tocca, soprattutto durante il periodo estivo.


I rimedi contro le punture degli insetti in Italia sono davvero molti: dagli spray anti-zanzare alle pomate, le soluzioni per evitare le punture sono pressoché infinite. Ma in India? Secondo i dati forniti da
Fratelli Dimenticati, l’India è uno dei 106 paesi al mondo in cui la malaria rappresenta un grave problema, si stima che circa il 70% della popolazione sia a rischio di contrarre la malattia. La principale causa di diffusione è la puntura della zanzara anofele, le altre sono legate alla sua riproduzione: le piogge copiose creano delle pozze d'acqua che diventa stagnante, l’igiene è scarsa, in molti luoghi non esistono i bagni e tantomeno un adeguato sistema fognario. Per fare un paragone, si pensi che in Italia, le punture di zanzara non sono più pericolose dagli anni '70, mentre in India, ancora oggi, basta una puntura per mettere in serio pericolo la vita di una persona e in taluni casi a portarla alla morte.


La zanzara anofele morde principalmente nel cuore della notte e all'alba, momento in cui si è già in un sonno profondo e non ci si può difendere. Ammalarsi di malaria in India significa avere delle conseguenze fisiche e psicologiche, spesso i bambini devono stare a casa da scuola per 2 settimane e prima di poter affrontare l'apprendimento scolastico con mente lucida hanno bisogno di circa un mese. Ma il problema si fa ancora più grave se la malaria colpisce un adulto, o peggio il capofamiglia, in questo caso può accadere di restare senza salario, c'è il pericolo di contrarre debiti, sia per le medicine che semplicemente per comprare del cibo. Inoltre le persone che si ammalano spesso non hanno la possibilità di curarsi, non solo per la mancanza di ospedali o ricoveri nelle vicinanze, ma anche perché non esistono mezzi adeguati per spostarsi su lunghe distanze e non ci sono strade di comunicazione adeguate per il soccorso.                  



La soluzione proposta da Fratelli Dimenticati è la zanzariera: un semplice oggetto, per noi molto conosciuto, ma poco utilizzato in India per questioni economiche o di ignoranza. La fondazione ha scelto di parlare ai bambini, trasmettendo loro un forte segnale che potesse contribuire a salvare le loro vite e quelle delle loro famiglie. Ha distribuito quante più zanzariere da letto possibile ai bambini nelle scuole, anche nelle zone rurali e più povere, insegnando loro come utilizzarle affinché al loro ritorno a casa potessero illustrarne l'utilità anche in famiglia. I bambini sono stati invitati a riflettere sulle conseguenze che la malattia potrebbe avere e si sono mostrati entusiasti di portare il nuovo messaggio alle loro famiglie. Sono così divenuti veicolo di informazioni essenziali al fine della prevenzione della malaria.


Fratelli Dimenticati si batte da diversi anni per l'aiuto alle popolazioni povere e dal 2012, con il progetto
“Malaria, No Grazie!”, è riuscita consegnare 5585 zanzariere da letto ad altrettanti bambini e alle loro famiglie, in 58 missioni negli Stati del Jharkhand, Chattisgarh, Punjab, Assam e Meghalaya. Le zanzariere sono state acquistate da produttori locali, in questo modo si è contribuito allo sviluppo economico dell'area.






Per informazioni:

Marta Perin


cell. 348.240.66.56



Elisa Sisto

elisa.sisto@mocainteractive.com

tel. 0422.174.35.74

domenica 23 agosto 2015

Yemen: Onu lancia l’allarme sulla crisi umanitaria in corso nel Paese



Il Sottosegretario generale delle Nazioni Unite e coordinatore per gli aiuti umanitari, Stephen O’Brien, ha lanciato l’allarme sulla situazione umanitaria in Yemen e Gibuti. Il responsabile Onu si è recato questa settimana in Yemen per una missione della durata di cinque giorni, nel corso della quale ha visitato le città di Sana’a, Amran e Aden. “Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie hanno fornito assistenza a circa sette milioni di persone dall’inizio della crisi in Yemen”, ha detto O’Brien, il quale ha lanciato l’allarme sulla carenza di fondi da destinare agli aiuti. In Yemen 21 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Tuttavia, solo il 18 per cento del Piano umanitario è stato finanziato.

In oltre quattro mesi di conflitto, la situazione in Yemen è degenerata rapidamente in emergenza umanitaria. Sotto i colpi di un raid aereo ogni dieci minuti, il 60 per cento della popolazione (16 milioni di persone) necessita di assistenza internazionale, 330 mila sono gli sfollati interni, 12 milioni gli individui a rischio insicurezza alimentare. La Cooperazione italiana si è attivata con un contributo volontario di 500 mila euro al Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr) per il sostegno alle attività di protezione e prima assistenza. L’organizzazione è una delle poche che continuano a operare nel Paese, con un totale di circa 230 operatori negli uffici di Sana’a, Taiz, Sa’ada e Aden (dove è stato aperto di recente un ospedale attrezzato per operazioni di chirurgia). A questi si aggiunte il sostegno logistico dalla delegazione di Gibuti, mentre è imminente l'apertura di un analogo centro in Oman.

Il contributo italiano risponde al piano annuale del Cicr per lo Yemen per attività di protezione ed assistenza alle persone colpite dal conflitto, in stretto contatto con la Mezzaluna rossa yemenita. In ambito sanitario, viene fornito sostegno per le cure mediche d'urgenza attraverso l'invio di team chirurgici e la fornitura di medicine ed equipaggiamenti ai centri ospedalieri. A causa dei danni alle infrastrutture provocati dai raid aerei, le attività del Cicr si concentrano anche sul ripristino delle condutture idriche danneggiate. Continua, infine, la distribuzioni di beni essenziali e cibo.

sabato 22 agosto 2015

La ricostruzione dei mausolei in Mali




di Veronica Tedeschi




Il 19 luglio è stata completata la ricostruzione di otto mausolei di Timbuctù (in Mali) andati distrutti nel 2012. Il progetto di restauro è stato coordinato dall’Unesco (l’Agenzia Onu per l’educazione, la scienza e la cultura) e nella sua totalità costerà 11 milioni di dollari, donati in parte dall’Unione Europea e in parte dalla Svizzera; seguirà a questi primi otto, la ristrutturazione di altri 6 mausolei che sarà completata entro fine anno.   
 
 

Soprannominata «La città dei 33 santi», Timbuctu fiorì tra il XV e il XVI secolo come centro carovaniero e di propagazione dell’Islam in Africa. Tipici sono i suoi monumenti come le tre moschee storiche Djingareiber, Sidi Yahiya e Sankoré, gli antichi portali, le case dei primi esploratori, il pozzo costruito nel punto in cui, mille anni fa, una donna tuareg – narra la leggenda – trovò l’acqua che ha dato ricchezza e potenza alla città del deserto. Ma è anche l’atmosfera che si respira. «Sembra deserta – osserva una guida turistica in un’intervista all’agenzia Ansa -, poi ogni tanto qualcuno fa “capolino” e, piano piano, cominci ad avvertire uno sguardo da dietro le tipiche finestrelle antiche a grata che impediscono di vedere l’interno, ma dalle quali si può osservare perfettamente l’esterno.” Durante il periodo di occupazione della città i combattenti jihadisti hanno vandalizzato e distrutto moschee e mausolei considerati non rispondenti all’ortodossia islamica e hanno bruciato alcuni manoscritti.

Grazie all’ intervento francese che ha respinto a Nord gli Jihadisti, oggi in città si respira un’aria diversa e, molto lentamente, anche il turismo sta riprendendo. La ricostruzione dei mausolei rappresenta chiaramente la volontà della popolazione di non voler perdere la propria cultura e di non arrendersi alla volontà dell’Islam estremista.

Il vostro lavoro è una lezione di tolleranza, dialogo e pace. Si tratta di una risposta agli estremisti e la sua eco può essere udita ben oltre i confini del Mali”, ha affermato Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, annunciando che l’Unesco ha fatto ricorso alla Corte Penale Internazionale contro i distruttori dei mausolei.
 
 
 


venerdì 21 agosto 2015

Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile





"Metà di quello che ho scritto è uscito in una notte. Il resto sul tram, mentre andavo al lavoro" racconta Massimiliano Verga, padre di Jacopo, Cosimo e Moreno, un bellissimo bambino di otto anni, nato sano e diventato gravemente disabile nel giro di pochi giorni. "Così ho raccolto gli odori, i sapori e le immagini della vita con mio figlio Moreno. Odori per lo più sgradevoli, sapori che mi hanno fatto vomitare, immagini che i miei occhi non avrebbero voluto vedere. Ho perfino pensato che fosse lui ad avere il pallino della fortuna in mano, perché lui non può vedere e ha il cervello grande come una Zigulì. Ma anche ai sapori ci si abitua. E agli odori si impara a non farci più caso. Non posso dire che Moreno sia il mio piatto preferito o che il suo profumo sia il migliore di tutti. Perché, come dico sempre, da zero a dieci, continuo a essere incazzato undici. Però mi piacerebbe riuscire a scattare quella fotografia che non mi abbandona mai, quella che ci ritrae quando ci rotoliamo su un prato, mentre ce ne fottiamo del mondo che se ne fotte di noi." Dalla quarta di copertina del libro Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, di Massimiliano Verga (Mondadori).




L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi l'autore e lo ringrazia moltissimo per il suo racconto e la sua testimonianza.



Quando siete venuti a conoscenza della disabilità di vostro figlio, come avete iniziato a “prepararvi” alla situazione?


Preparati mai. Moreno ha quasi 12 anni e c'è stato un percorso di conoscenza e, rispetto all'inizio, è tutta un'altra cosa, anche per merito suo.

Di fronte a una disabilità o fragilità, nessuno può avere l'arroganza o la presunzione di sentirsi preparato.

Moreno è nato sano, poi si è ammalato di un “qualcosa” che non so, a un mese di vita: è stato ricoverato in patologia neonatale ed è tornato a casa con gli esiti che ho raccontato nel libro. Non abbiamo una diagnosi e il fatto che Moreno non sarebbe più stato il bambino che ho cominciato a conoscere quando è nato, l'abbiamo saputo il giorno della dimissione e dopo alcuni mesi abbiamo scoperto che Moreno era anche non vedente.


Voi familiari avete fatto un percorso psicologico oppure avete affrontato tutto da soli?


Non abbiamo fatto nulla: io no, ma credo nemmeno la mamma (io e la mamma non viviamo più insieme). Anche i fratelli di Moreno non sono seguiti perchè è una situazione che hanno imparato a gestire con loro stessi in modo relativamente sereno.

Sono contrario ad un percorso che possa etichettarli e farli sentire i “fratelli di” quando, invece, stanno cercando di uscirne per conto loro.


Quali sono i sentimenti che ha provato da quando è nato Moreno e quali quelli che prevalgono?


Sono molto banale in questo, ma uno su tutti è l'amore. Poi, certo, c'è un contorno di rabbia e di frustrazione legato a quell'impreparazione di cui parlavamo prima.



Siete aiutati da servizio sanitario e dalle istituzioni?

Sono abbastanza fortunato rispetto alle altre realtà che conosco di situazioni di abbandono. E' noto che le istituzioni siano molto deficitarie, ma ho avuto fortuna nel senso che, fin dall'inizio, abbiamo trovato una brava fisioterapista che da subito ha seguito Moreno e anche il servizio scolastico è stato buono perchè alla materna ho trovato delle maestre molto attente. Adesso Moreno frequenta una scuola speciale in cui i bambini hanno una disabilità grave e mi trovo benissimo; avrà capito che sono favorevole alle scuole speciali perchè ci sono dei bambini che possono essere accolti solo in luoghi costruiti e pensati per loro.


Stanno aiutando Moreno a diventare più autonomo?


La parola “autonomo” per Moreno è una parola grossa perchè non lo sarà mai: ha bisogno che ci sia sempre una persona a mezzo metro da lui, ma il fatto che abbia imparato a riconoscere un water, che salga sul camper da solo, che si muova nello spazio in modo più sicuro lo devo alla testa dura mia e di sua madre, alla scuola, alla terapista e a tutti coloro che lo seguono.


Gli altri due fratelli come si rapportano a Moreno?


Chiaro che per loro è molto difficile. Moreno è un “alieno”: non parla, urla, sbatte. E' molto difficile avvicinarsi e interagire con lui.

I fratelli hanno delle modalità differenti legate non tanto all'età (il grande ha 13 anni e il più piccolo ne ha 8), ma perchè il grande ha visto nascere Moreno e ha vissuto insieme a noi e insieme a lui gli anni più duri e, quindi, prova sentimenti diversi rispetto al fratello piccolo che si è trovato un fratello “alieno” senza provare lo shock della scoperta della sua disabilità.



Perchè ha deciso di raccontare la vostra storia pubblicamente?


Zigulì era il mio diario nel quale mi sono sfogato, nel giro di una notte, come è scritto in quarta di copertina. Quando l'ho ripreso in mano ho pensato, forse con un po' di presunzione, che potesse essere utile per qualcun altro.

L'idea che quei sentimenti e quei frammenti potessero essere condivisi da altri genitori mi ha portato a pubblicarlo. Il riscontro è enorme e non me lo aspettavo: ricevo tantissime mail, ho fatto un centinaio di incontri pubblici, mi invitano. Mi sembra di aver raccontato qualcosa che appartiene a tante persone ma io, forse, ho avuto un pizzico di coraggio in più nel raccontare la realtà per quella che è.


Parliamo, infine, del tema dell'accettazione...


L'accettazione non riguarda il bambino, riguarda i genitori: tu devi imparare ad accettare te stesso come genitore di quel bambino.

Il bambino, ovviamente, è accettato, è tuo figlio, ma il genitore deve fare i conti con se stesso e questo è l'aspetto che a volte, purtroppo, crea atteggiamenti di chiusura. Peggio ancora nei casi in cui i genitori sono lasciati da soli per cui per loro è ancora più difficile: su questo dovremmo lavorare come comunità.





giovedì 20 agosto 2015

Dalla “mala” milanese alle frontiere dell'anima


 


Gli appassionati di Massimo Carlotto conosceranno sicuramente Beniamino Rossini, uno dei suoi personaggi più amati. In La terra della mia anima (sempre edito da E/O) lo stesso compagno di avventure dell'Alligatore decide di raccontare la propria esistenza, una vita che attraversa l'immediato dopoguerra - quando inizia a fare lo “spallone” trafficando in sigarette - per arrivare alla guerra civile, passando per la Resistenza.

Beniamino ha un animo nomade, batte le terre d'Italia e d'Europa e si spinge fino al Libano; ma la sua anima viene ancorata nel mare, in quella distesa aperta e infinita che promette libertà eterna. E di libertà ne ha vissuta, il Rossini, una libertà sfrenata fatta di soldi e di femmine. Una libertà spezzata, a periodi, da anni di galera che non hanno fiaccato lo spirito indomito. Una vita appassionata, vissuta ai margini di frontiere fisiche e interiori, ma con princìpi saldi, un'etica criminale che oggi non esiste più e poi un amore, quello per un uomo diventato donna.

Il romanzo, uno dei più intensi di Carlotto, attraversa il Novecento, i momenti più bui del nostro Paese, con riflessioni di stretta attualità, come quella che riguarda le carceri: “Ora le rivolte non esistono più, le nuove carceri e le ristrutturazioni di quelle già esistenti sono state concepite per impedire ogni forma di protesta organizzata. In passato però furono un fenomeno molto diffuso, provocato dalle condizioni di vita inaccettabili nelle prigioni della Repubblica. Se oggi i detenuti hanno a disposizione un water e un lavandino, un fornello da campeggio, una caffettiera e un pentolino, lo si deve solo al sacrificio di quelli che si ribellarono e vennero picchiati, trasferiti e condannati. Sbaglia chi pensa che quel minimo di decenza venne portato nelle carceri da politici o intellettuali illuminati che sono arrivati sempre dopo e con un ritardo imbarazzante” e questo è solo un esempio. Così come può esserlo, oggi, la passione politica di Beniamino che, parlando di un suo mèntore, Enrico il Barbùn, dice: “Era comunista, in Svizzera aveva avuto problemi con la polizia, ma era un nemino dichiarato del partito. Aveva sempre considerato Stalin un dittatore sanguinario e all'inizio fu difficile discutere di politica. Quando parlava male dell'Unione sovietica mi veniva voglia di saltargli addosso”.

Ma il libro commuove per la capacità di scandagliare l'animo umano. Una frase su tutte, da sottolineare e ricordare: “ Voglio tentare di andarmene pervaso da un senso di appartenenza. Forse è una furbizia per sentirmi meno solo, ma il desiderio è sincero e preferisco il cuore in tumulto e la testa piena di sogni alla rassegnazione e all'urgenza del pentimento”.




mercoledì 19 agosto 2015

La comunità sikh nell'agropontino e il lavoro di braccianti



L'associazione Inmigrazione ha denunciato, recentemente, in un dossier le allucinanti condizioni di lavoro dei sikh che vivono nell'agropontino. L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi Marco Omizzolo che ringrazia tantissimo per la disponibilità. 

 
Da quanto tempo gli indiani sikh vivono nell'agro pontino e com'è il loro processo di inserimento nella società italiana?   

 

La comunità punjabi si è costituita a partire dalla metà circa degli anni Ottanta. Prima poche decine persone, tutti giovani uomini impegnati nelle campagne pontine in attività di puro bracciantato agricolo e in parte nella zootecnia e nel florovivaismo, oggi è arrivata a contare circa 30mila persone. Una comunità organizzata, etnicamente connotata, prevalentemente ancora impegnata nel bracciantato agricolo e con forti legami con le altre comunità punjabi in Italia e nel resto del mondo. Purtroppo l'assenza di una adeguata comprensione delle dinamiche relazioni, del network transnazionale della comunità punjabi pontina, del sistema occupazionale pontino e gli scarsi servizi sociali dedicati a questo tema impediscono una relazione costruttiva tra la comunità punjabi e quella di accoglienza. La segregazione sociale, l'assenza di processi di crescita sociale ed emancipazione sono la conseguenza diretta dei processi di tratta internazionale, sfruttamento occupazionale, caporalato e violazione dei diritti umani che caratterizzano le attività lavorative dei punjabi pontini.


Molti lavorano nel settore agricolo come braccianti, ma le condizioni negano alcuni diritti di base...


Con la coop. In Migrazione (www.inmigrazione.it) abbiamo denunciato con alcuni dossier assai documentati i sistemi di reclutamento e impiego dei braccianti indiani. Caporalato, clientelismo, rincorsa all'assunzione dei lavoratori più socialmente fragile perché più esposti al ricatto occupazionale determinano, come anche Medu (Medici per i Diritti Umani) e Amnesty International hanno messo in luce e denunciato, la violazione sistematica dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori. La violenza che spesso queste persone subiscono, e con loro le loro famiglie, è tale da costringerli alla resa, ad accondiscendere il ricatto e la prepotenza. Abbiamo registrato numerosi casi di lavoratori punjabi che non hanno percepito lo stipendio per vari mesi nonostante abbiano lavorato tutti i giorni, anche per 14 ore al giorno, sabato e domenica compresi, come anche violenze fisiche, aggressioni e rapine nei loro confronti e minacce. Alcuni lavoratori vengono pagati 3-4 euro l'ora per 12-14 ore di lavoro quotidiano. Il contratto provinciale prevede circa 9 euro lorde l'ora ma è un miraggio se non per pochi fortunati. Per non parlare degli infortuni sul lavoro, degli incidenti stradali che li vedono vittime certe, delle malattie derivanti dalla loro attività bracciantile e dai relativi ritmi e condizioni di lavoro. Siamo dinnanzi alla violazione sistematica, organizzata e rodata dei loro diritti umani a scopo di sfruttamento lavorativo. Un business redditizio che piega la schiena ai braccianti indiani e contribuisce a generare milioni di euro di cui si appropriano sfruttatori e mafiosi.                                     


 

Ci può confermare che alcuni ricorrono all'oppio (o altre droghe) per sostenere i ritmi di lavoro nei campi?


Con il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” è stato denunciato esattamente questo problema. L'assunzione, variamente tollerata e indotta da alcuni datori di lavoro (che per inciso spesso pretendono di farsi chiamare padrone dal lavoratore), di sostanze dopanti come oppio, metanfetamine e antispastici per reggere le fatiche fisiche e psicologiche derivanti dal sistema di sfruttamento pontino. Ciò vale in particolare per i lavoratori più anziani (per evidenti limiti fisici) e per coloro che hanno un'anzianità migratoria e lavorativa nel bracciantato piuttosto breve. Purtroppo il fenomeno rischia però di allargarsi anche ad altre ambiti e di diventare la scala sociale attraverso la quale generare business economici illegali ma anche importanti per uscire dal bracciantato e dallo sfruttamento. Per questo, insieme alla repressione del fenomeno, è importante prevedere servizi sociali e formativi adeguati, insieme alla ferma condanna e conseguente superamento dello sfruttamento lavorativo, sempre più organico al modello d'impresa agricola nazionale e non solo, e delle varie forme e sistemi di reclutamento internazionali. Abbiamo per esempio proposto, dopo essere stati auditi dalla Commissione parlamentare antimafia, di adeguare la legge italiana contro il caporalato, di escludere le imprese agricole condannate per reati gravi come la riduzione in schiavitù, dal sistema dei finanziamenti pubblici, soprattutto europei, e di introdurre infine ancora il reato di caporalato nel 416bis, ossia nel reato di associazione mafiosa. Il caso pontino e con esso i casi più noti di Rosarno, Castel Volturno, Ragusa, Asti consentono di ritenere questa una proposta sensata, fondata e urgente.


Nel dossier, denunciate che il traffico – di droga e di persone – è in mano a italiani...


Si tratta di una sorta di associazione a delinquere composta sia da italiani che da indiani, ognuno con un proprio ruolo e una sua informale ma chiara gerarchia. La criminalità è fondata ancora sull'appartenenza etnica o clanica ma è altresì capace di includere soggetti diversi, compresi gli stranieri, con lo scopo di rendere possibile il business, che in questo caso riguarda la tratta internazionale di esseri umani, che abbiamo definito grigio-nera, lo sfruttamento lavorativo e un corollario di altre speculazioni non meno importanti (il business dei permessi di soggiorno, dei rinnovi dei documenti, delle eredità transnazionali e non solo). Si tratta di un'alleanza da studiare con molta attenzione e monitorare con altrettanta preparazione metodologica. In questo senso la rinnovata sensibilità e impegno della Questura di Latina su questo tema può aiutare nella direzione del contrasto al fenomeno. Senza però la riformulazione del sistema formale-informale del mercato del lavoro rischiamo di fallire drammaticamente.

 
Qual è il vostro operato come associazione?

Operiamo in varie direzioni. In primis studiando il fenomeno in modo estremamente professionale, tanto da essere andati più volte in Punjab per approfondire gli studi, indagare il contesto di origine, discuterne con i soggetti responsabili a partire dalle istituzioni locali e docenti universitari. Poi organizzando iniziative territoriali a partire dal progetto Bella Farnia, organizzato insieme alla Regione Lazio e conclusosi purtroppo nel mese di luglio 2015, avente lo scopo di organizzare lezioni di italiano e consulenza legale gratuita ai punjabi interessati. Infine ci siamo costituti parte civile nel processo in corso a Latina, insieme alla Flai-CGIL, contro un imprenditore agricolo del sud pontino accusato di falsità documentali. Quest'ultimo, infatti, riceveva da ogni suo lavoratore punjabi circa 1000 euro in cambio di documenti falsi necessari per il rinnovo del permesso di soggiorno. Una pratica diffusa che rientra nel complesso di speculazioni organizzate sulle spalle dei braccianti indiani pontini.


martedì 18 agosto 2015

Kos, l’ultima frontiera del grande esodo


di R. Demopoulos   (da Il manifesto.it)



Estin­tori «spa­rati» sui migranti, per lo più siriani e afgani. Man­ga­nelli sguai­nati senza tanti com­pli­menti. Scene di puro panico intorno allo sta­dio, tra­sfor­mato in cen­tro d’identificazione.

A Kos (isola di 30 mila abi­tanti con­cen­trati nella capi­tale) ieri è esplosa la vio­lenza covata da set­ti­mane. La mic­cia era stata inne­scata da un epi­so­dio acca­duto il giorno prima davanti al com­mis­sa­riato di poli­zia: un paki­stano minac­ciato e schiaf­feg­giato da un agente, subito sospeso. Ma la pres­sione ora è tale da far dire al sin­daco di Coo, Gior­gos Kyri­tsis, che «se non ver­ranno presi subito rimedi effi­caci, la situa­zione sfug­girà di mano e scor­rerà il san­gue». A mag­gior ragione, sull’onda delle cari­che allo sta­dio si è mate­ria­liz­zato il «rischio di una strage» (sem­pre parole del sin­daco) nel porto dove ormai sono ammas­sate non meno di 7 mila fra donne, uomini e bam­bini sbar­cati nell’isola. Inu­tili gli appelli lan­ciati verso Atene, per altro senza risorse, che ha invo­cato l’intervento dell’Ue.
Sta di fatto che l’Unhcr, agen­zia delle Nazioni Unite, defi­ni­sce dram­ma­tica la situa­zione: scorte di acqua e medi­ci­nali insuf­fi­cienti; acco­glienza ormai ai minimi ter­mini; richie­denti asilo bal­zati al più 750% rispetto ad un anno fa. Con­ferma To Vima online: con un ritmo di 6– 800 arrivi al giorno, le auto­rità locali non sono più in grado di reg­gere l’emergenza. Di qui la richie­sta di schie­rare le forze spe­ciali, prov­ve­dendo anche al tra­sfe­ri­mento della mag­gio­ranza dei migranti pre­senti. Ma ci sono due pro­blemi ora insor­mon­ta­bili: da una parte l’identificazione, visto ciò che è acca­duto ieri intorno allo sta­dio e dall’altra il pat­tu­glia­mento delle coste, a 23 chi­lo­me­tri dalla Tur­chia, dove i migranti arri­vano a bordo di pic­coli gommoni.

E la ten­sione cre­sce di giorno in giorno, al punto che si ripe­tono anche le risse fra gli stessi migranti. Soprav­vi­vono in tenda nei giar­dini pub­blici, nelle piaz­zette e ovun­que tro­vino riparo alter­na­tivo alla spiag­gia dove met­tono piede. Ieri era stato pre­di­spo­sto il tra­sfe­ri­mento allo sta­dio per pro­ce­dere con l’identificazione, ma circa 1.500 migranti accal­cati sono diven­tati inge­sti­bili. Di qui gli scon­tri, le man­ga­nel­late e gli estin­tori usati come «armi» nei con­fronti della folla. Insomma, Kos è dav­vero una bomba ad oro­lo­ge­ria già pronta a defla­gare con effetti impre­ve­di­bili. Il Dode­can­neso, del resto, si è rapi­da­mente tra­sfor­mato nella rotta d’accesso all’Europa. Da sabato scorso, il flusso dei migranti ha assunto dimen­sioni più che straor­di­na­rie: la guar­dia costiera greca ha dovuto inter­ve­nire a soc­cor­rere quasi 1.500 pro­fu­ghi a largo delle isole di Aga­tho­nisi, Lesbos, Samos, Chios e Kos. E da lunedì quella che già era un’emergenza si è tra­sfor­mata in una cata­strofe uma­ni­ta­ria, che potrebbe dila­gare in un’ecatombe in assenza dell’indispensabile «governo» del fenomeno.

Kos, dun­que, com’è stata Lam­pe­dusa in Ita­lia e com’è diven­tata Calais con l’Eurotunnel tappa dell’esodo verso la Gran Bre­ta­gna. E di nuovo si ascol­tano rac­conti iden­tici: migranti che pagano il «biglietto» della mafia turca che orga­nizza l’attraversamento del brac­cio di mare fino al Dode­can­neso. Gente che scappa dalla guerra civile che dila­nia la Siria e altri che si sono «incam­mi­nati» dall’Afghanistan, sce­gliendo l’itinerario via mare alter­na­tivo ai Bal­cani.
Nelle gior­nate dram­ma­ti­che, si segnala anche la vacanza in barca di una fami­glia ita­liana che di notte inter­viene per soc­cor­rere i migranti. Car­lotta Dazzi, marito e due figli si pro­di­gano senza sosta. Lei è abi­tuata, da volon­ta­ria, ai migranti che affol­lano il mez­za­nino della sta­zione di Milano Centrale.

Nell’ultimo week end, invece, con il resto della fami­glia ha garan­tito l’approdo ad una cin­quan­tina di pro­fu­ghi. Erano sugli sco­gli, senza distin­guere la spiag­gia dal mare. Sono state le urla ter­ro­riz­zate dei bam­bini a sve­gliare Car­lotta e la fami­glia che dor­mi­vano nella baia di Ormos Vathi. Gra­zie al loro aiuto, i migranti hanno potuto rag­giun­gere Pse­ri­mos e rifo­cil­larsi prima di capire dov’erano sbar­cati, rispetto a Kos che era la loro mèta.

«Sem­pre sabato, oltre ai siriani che abbiamo soc­corso, abbiamo visto una tren­tina di altri pro­fu­ghi che imma­gino fos­sero a bordo di altri gom­moni» rac­conta Car­lotta, «C’era chi aveva per­corso a piedi sen­tieri nell’isola per mezza gior­nata, prima di riu­scire ad orien­tarsi. Le loro testi­mo­nianze par­lano di un “viag­gio” comin­ciato a Bodrum, in Tur­chia. E rac­con­tano di aver dovuto pagare alla mafia turca 1.300 dol­lari a per­sona. È la cifra che si spende per un’intera vacanza in Grecia…».

lunedì 17 agosto 2015

Uomini e donne: una relazione costruttiva è possibile




Eccovi l'interessantissimo incontro con la giornalista e scrittrice Monica Lanfranco organizzato dall'Associazione per i Diritti Umani per la nostra manifestazione "D(i)RITTI al CENTRO!".
Si parla di violenza contro le donne, relazioni di genere, sesso e virilità e di molto altro, partendo dal saggio "Uomini che (odiano) amano le donne" per MAREA edizioni.



domenica 16 agosto 2015

La legge di ferro in Tunisia contro il terrorismo




Introduzione della pena di morte per i reati contro come “l'omicidio dei cittadini stranieri”: questo è uno dei provvedimenti inseriti da pochi giorni del sistema legislativo tunisino a seguito dell'attentato a Sousse e del massacro dei turisti, soprattutto occidentali.

La norma è stata approvata quasi all'unanimità: sia da Nidaa Tounes, il partito che guida il governo, sia da Ennahda (che fa parte dell'esecutivo ed è di impronta islamista), solo 10 astensioni.

La pena di morte è già prevista nel codice per i reati di omicidio e altri venti delitti, ma bisogna riscontrare che l'ultima esecuzione risale al 1991 e che non sia stata mai presa in considerazione nemmeno sotto il regime di Ben Ali, quindi la nuova legge risulta eccezionale. A quanto pare la Tunisia si sente fortemente indebolita di fronte agli attacchi degli jihadisti e il Parlamento ha deciso di prendere questa misura per contrastare il terrorismo.

A questo bisogna aggiungere anche un altro fatto: subito dopo l'attentato nella località di mare e di villeggiatura, il Premier, Habib Essid, ha sostituito il capo della commissione che dirige e monitora i luoghi di culto con Othman Battik, già gran Muftì al servizio di Ben Ali: con questa sostituzione sono state chiuse 83 moschee arbitrariamente, senza un collegamento accertato tra le persone che le frequentavano e i terroristi.

E' vero che in Tunisia siano molto carenti i servizi di sicurezza quali polizia o intelligence, ma questa è davvero una legge emergenziale che rischia di minare i diritti fondamentali come quello di poter professare la religione.

sabato 15 agosto 2015

Sul piede di guerra



di Alex Zanotelli (da Comune.info)
 
 





La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo. Così le forze di reazione rapida passano da tredici a quarantamila uomini. Si prepara l'”inevitabile” intervento in Libia e s’intensifica l’utilizzo dei droni con la scusa di combattere i trafficanti di esseri umani. A fine settembre, poi, comincia la più grande esercitazione militare dal tempo della caduta del muro di Berlino. Coinvolgerà 35 mila soldati Nato, 200 aerei e 50 navi da guerra. Sarà pilotata dalla nuova base di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco. Come credente nel Dio della vita, scrive Alex Zanotelli, non posso accettare un sistema di morte pagato da miliardi di persone impoverite. Come seguace di Gesù di Nazareth non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato. A settembre, durante l’esercitazione, dobbiamo farci sentire.

Siamo di nuovo sul piede di guerra anche in Europa, sia sul fronte Ucraina come nel Mediterraneo. E questo grazie alla Nato. È stata la Nato a far precipitare lo scontro con la Russia perché vuole che l’Ucraina entri nell’Alleanza al fine di poter sparare i suoi missili direttamente su Mosca. La Russia ha reagito ed ecco la drammatica guerra civile di quel paese che rischia di diventare guerra atomica. “Ho le armi nucleari,” ha detto Putin. E infatti ha piazzato 50 missili con testate nucleari sui confini baltici della Ue, puntandoli verso la Svezia per dissuaderla a entrare nella Nato.



Vista la grave crisi, è stato convocato a Bruxelles il vertice NATO con la presenza del nuovo segretario Usa alla difesa, Ashton Carter. All’ordine del giorno: potenziare la forza di reazione rapida della Nato portandola da tredicimila soldati a quarantamila uomini (il triplo!), piazzare 5 mila soldati (a rotazione) nei Paesi Baltici e in Polonia ed infine spingere tutti i paesi NATO a spendere il 2 per cento del Pil nella Difesa.

Ma ora si apre anche il Fronte Sud: il Mediterraneo. Il 22 giugno la UE ha dato il via libera (senza il benestare dell’Onu!) alla prima fase della missione navale EuNavForMed con cinque navi militari, due sottomarini, due droni e tre elicotteri e un “migliaio” di soldati per tentare di bloccare la partenza dei migranti dalla Libia. L’uso dei droni militari (a Sigonella operano da anni i droni Global Hawk) si intensificherà con questa missione UE “contro i trafficanti di esseri umani”, grimaldello di un’operazione sotto regia Nato per un intervento militare in Libia. Sia il governo di Tobruk come quello di Tripoli hanno risposto che reagiranno contro questo attacco.



È in questo pesante scenario di guerra che si terrà in Europa, dal 28 settembre al 6 novembre, la più grande esercitazione militare dalla caduta del muro di Berlino che coinvolgerà 35.000 soldati NATO, 200 aerei,50 navi da guerra .Questa gigantesca esercitazione “Trident Juncture 2015”, sarà pilotata dalla nuova base NATO di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco.




Una domanda sorge spontanea: ma cosa ci stiamo a fare ancora nella Nato? Ma a che serve, se non a portarci in sempre nuove guerre? La Nato è sorta come alleanza difensiva degli Usa e dei paesi europei contro l’Urss e i paesi comunisti del Patto di Varsavia.  Il Patto di Varsavia e i paesi comunisti non ci sono più, ma la Nato continua ad esserci.

La Nato infatti avrebbe dovuto cessare con la caduta del muro di Berlino (1989). Non solo c’è, ma da alleanza militare difensiva è diventata offensiva per difendere gli interessi economici dei paesi membri ovunque essi siano minacciati. Questo è avvenuto nel vertice di Washington (1999). Mentre nel vertice di Praga (2009) la Nato ha fatto un altro salto: ha sposato la strategia della ‘guerra preventiva’. La Nato è una potenza militare che nessun avversario può eguagliare, basata anche sulle armi nucleari, che la “Nato deve mantenere finchè vi saranno nel mondo tali armi”, ha detto l’ex-segretario generale Nato Anders Rasmussen. E per evitare attacchi terroristici e missilistici, è stato annunziato al Vertice di Lisbona (2009) il progetto di uno Scudo antimissile. “La sola esistenza della Nato come alleanza cui aderiscono i paesi europei – ci rammenta giustamente il fisico Angelo Baracca – implica un’ipoteca pesantissima che vanificherebbe la migliore costituzione europea che si potesse concepire sia per gli aspetti della difesa, ma anche della democrazia effettiva e della libertà”.




Infatti sulla spinta della Nato, l’Italia in questi due decenni, ha partecipato alle guerre del Golfo (1991), Somalia (1994-’95), Bosnia-Herzegovina (1996-99), Congo (1996-99), Jugoslavia (1999), Afghanistan (2001), Iraq(2003), Libia(2011). Milioni di morti!  Solo nella guerra in Congo, quattro milioni di morti. E miliardi di dollari per fare queste guerre. Solo la guerra in Iraq (un milione di morti!) ci è costata almeno tremila miliardi di dollari, secondo le stime di J. Stiglitz (premio Nobel per l’Economia), fornite nel suo volume The Trillion Dollars War .

Guerre di tutti i tipi, da quella ‘umanitaria’ a quella contro il ‘terrorismo’, ma il cui unico scopo è il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, per permettere al 20 per cento del mondo di continuare a vivere da nababbi, consumando il 90 per cento delle risorse del pianeta. “Lo stile di vita del popolo americano –  aveva detto Bush senior nel 1991 – non è negoziabile.” E se non è negoziabile, allora non rimane altro che armarsi fino ai denti. Soprattutto con la Bomba Atomica, la Regina che domina questo immenso arsenale di morte che serve a proteggere i privilegi e lo stile di vita di pochi a dispetto dei troppo impoveriti.



Gli Usa/Nato hanno l’arsenale più potente e affidabile al mondo con ottomila testate nucleari, di cui circa duecento dislocate in Europa. Settanta bombe atomiche sono in Italia: una cinquantina a Ghedi (Brescia) e una trentina ad Aviano (Pordenone). E questo in un Paese che ha detto, con un Referendum, no al nucleare civile! La Nato, sempre sotto comando Usa, resterà “un’alleanza nucleare – ha ribadito Obama al vertice di Lisbona – e gli Usa manterranno un efficiente arsenale nucleare per assicurare la difesa dei loro alleati”.

E tutto questo ci costa caro. “Il bilancio civile della Nato per il mantenimento del quartiere generale di Bruxelles – scrive M. Dinucci – ammonta a circa mezzo miliardo di dollari all’anno, di cui l’80 per cento viene pagato dagli alleati. Il bilancio militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a circa un miliardo di dollari l’anno, di cui circa l’80 per cento è pagato dagli alleati. Il budget militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a quasi due miliardi di dollari l’anno, pagati per il 75 per cento dagli europei.”

Secondo i dati aggiornati al 2011, le spese per la difesa dei 28 stati membri della Nato ammontano a 1.038 miliardi di dollari l’anno, una cifra equivalente a circa il 60 per cento della spesa mondiale per le armi.

E l’Italia gioca un ruolo cruciale per la Nato: siamo un paese chiave nello scacchiere militare dell’Alleanza Atlantica. A Napoli è stato da poco inaugurata una sede NATO a Lago Patria con 1.500 militari. A Sigonella (Catania) entrerà in funzione il sistema Ags definito da Manlio Dinucci “il più sofisticato sistema di spionaggio elettronico, non in difesa del territorio dell’Alleanza, ma per il potenziamento della sua capacità offensiva fuori area, soprattutto in quella medio-orientale.” Per di più, nel 2016, Sigonella diventerà la capitale mondiale dei droni. E per pilotare i droni, entrerà in funzione nella vicina Niscemi, il sistema MUOS di telecomunicazioni satellitari di nuova generazione. Niscemi diventerà così la quarta capitale mondiale delle comunicazioni militari.

Non possiamo accettare una tale militarizzazione del nostro territorio, né tantomeno possiamo tollerare, a livello morale, la guerra con i droni. “Questa guerra con i droni porta gli Usa in una pericolosa china morale”- scrive Jim Rice, direttore della rivista ecumenica Usa Sojourners. C’è solo un nome per tali uccisioni con i droni, sono veri e propri omicidi, non giustificati né moralmente né legalmente.



E sempre in questo contesto, il governo italiano ha “accettato” sul nostro territorio anche Africom, il supremo comando americano per l’Africa con due basi: una a Vicenza per le forze aeree e l’altra a Napoli per le forze navali. Non possiamo accettare che il nostro paese ospiti qello che nessun paese africano ha accettato di ospitare. Non è questa la politica estera che l’Italia deve intrattenere con un continente crocifisso come l’Africa.
Da credente e da seguace di Gesù di Nazareth, non posso accettare un mondo così assurdo: un sistema economico-finanziario che permette a pochi di vivere da nababbi a spese di molti morti di fame e questo grazie a una NATO che spende oltre mille miliardi di dollari l’anno in armi e soprattutto con arsenali ripieni di spaventose armi atomiche. “La pace e la giustizia procedono insieme – diceva, negli anni della Guerra Fredda, l’arcivescovo di Seattle, R. Hunthausen. – Sulla strada che perseguiamo attualmente la nostra politica economica verso gli altri Paesi, ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe di più di abbandonare i nostri strumenti di terrore globale. Significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo.”


Come credente nel Dio della vita, non posso accettare un Sistema di morte come il nostro pagato da miliardi di impoveriti, milioni di morti di fame oltre che da milioni e milioni di morti per le guerre che facciamo. E come seguace di Gesù di Nazareth, che ci ha insegnato la via della nonviolenza attiva, non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato, una realtà che doveva già essere scomparsa con la caduta del Muro di Berlino e che invece continua a forzarci ad armarci per sempre nuove guerre ‘ovunque i nostri interessi vitali siano minacciati.
Lo aveva già capito
Giuseppe Dossetti quando, nel 1948, votò in Parlamento contro l’adesione alla NATO, mentre tutta la DC era schierata per il Sì. Lo fece in ossequio alla sua coscienza e al Vangelo. E’ quanto tocca a noi fare oggi, se vogliamo salvarci da questa follia collettiva. “La guerra è una follia – ha gridato papa Francesco al Sacrario militare di Redipuglia – Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta a’pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni…..”

E allora mobilitiamoci tutti, credenti e non, uniamoci al di là di ideologie o credi, contro questa gigantesca esercitazione militare NatoTrident Juncture 2015 che si terrà in autunno.
Lo chiedo da Napoli, il centro comando di questa operazione, insieme al comitato napoletano “Pace e Disarmo”.

Perché non pensare a una manifestazione nazionale a Napoli o altrove, promossa da tutte le realtà del movimento per la pace, dalla Rete della pace come dal Tavolo della Pace, dai No Muos come dai No Nato? Tutti insieme perché vinca la vita!