venerdì 29 novembre 2013

L'Africa che fa !!!: due culture a confronto per conoscersi meglio

E' possibile leggere un saggio interessante e ascoltare una canzone? E' possibile guardare disegni colorati e informarsi? Sì, tutto questo è possibile grazie al libro di Pegas Ekamba Bessa intitolato "L'AFRICA CHE FA!!! Tradizione e cultura, sorgenti di sviluppo per l'Africa". Un viaggio affascinante nelle parole, nei simboli, nella spiritualità e la ricchezza della cultura africana messa a confronto con quella Occidentale. E poi la musica e il ritmo come sorgenti di vita e di conoscenza..
Questi argomenti (e molti altri) sono stati al centro dell'incontro della "Carovana dei diritti", l'ultimo di questa prima parte che si è tenuto, lo scorso 20 novembre, presso il Bistrò del tempo ritrovato a Milano.
Come sempre, vi proponiamo il video:  le emozioni (anche la commozione) che abbiamo provato quella sera non si possono restituire attraverso lo schermo, ma le informazioni e le riflessioni importanti, sì.
La Carovana dei Diritti "seconda parte" ripartirà all'inizio del prossimo anno e intanto ci saranno molte altre sorprese e proposte per tutti coloro che vorranno continuare il viaggio insieme a noi. Grazie ancora a Pegas, al suo amico/fratello, a tutti !





giovedì 28 novembre 2013

Un concorso letterario e una pubblicazione per le "seconde generazioni"

L'Associazione per i Diritti Umani è felicissima di collaborare ancora con La Ligera di Milano per proporre un concorso letterario che vede protagoniste le persone nate in Italia, ma di origini straniere. Spesso sono chiamate "seconde generazioni", ma si tratta delle  ragazze e dei ragazzi che sono e saranno i nuovi cittadini italiani.

Di seguito, riportiamo il bando del concorso e tutte le informazioni.

I racconti scelti verranno a comporre una pubblicazione e l'Associazione per i Diritti Umani e La Ligera si impegneranno anche ad organizzare le presentazioni del libro a Milano e non solo...!
Associazione per i Diritti Umani, inoltre, terrà a disposizione il sito per eventuali pubblicazioni di alcuni racconti.

Ringraziamo fin da adesso Ligera Edizioni per averci dato l'opportunità di condividere questo bellissimo progetto e tutti coloro che parteciperanno con i propri scritti o aiutandoci a fare "passaparola"...!!!




 SECONDO CONCORSO LETTERARIO • LIGERA EDIZIONI
Le seconde generazioni”
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Sono chiamati seconde generazioni, sono figli di immigrati, sono nati in Italia, spesso parlano solo l’italiano, ma italiani non sono. Vorremmo che fossero loro a parlare per una volta, o meglio a scrivere, di come vedono via Padova, di come vedono Milano, di come vedono l’Italia.
Le loro sono storie di contaminazione culturale, storie di speranze e di delusioni, storie di razzismo e di integrazione, di vittorie e sconfitte. I loro sono racconti della Milano che verrà, della città che si sta facendo giorno dopo giorno sempre più multietnica.

Milano è già una metropoli multietnica, ma è anche una città multiculturale?
Dopo il successo della prima antologia di racconti nata in via Padova, le edizioni Ligera lanciano un nuovo e ambizioso progetto. Fateci sentire la vostra voce e raccontateci, scrivendola, la vostra storia. I racconti dovranno avere una lunghezza massima di dieci cartelle (18.000 battute totali inclusi gli spazi bianchi) e pervenire entro il termine ultimo del 31 gennaio 2014. E’ preferibile la lingua italiana ma l’uso della stessa non costituisce elemento discriminante per la valutazione.

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Tutti i racconti saranno valutati dalla redazione e dall’Associazione per i Diritti Umani, i migliori saranno pubblicati, gratuitamente, nella prossima antologia a cura di Ligera Edizioni. Per partecipare alla selezione non è richiesta alcuna quota di iscrizione. I partecipanti devono allegare agli elaborati la dichiarazione che l’opera è frutto del proprio ingegno. E’ sufficiente scrivere in calce al foglio: “Dichiaro che l’opera presentata è opera del mio ingegno” firmando in maniera chiaramente leggibile. Gli autori, per il fatto stesso di partecipare al concorso, cedono il diritto di pubblicazione all’interno dell’antologia edita da Ligera Edizioni senza aver nulla a pretendere come diritto d’autore. I diritti rimangono comunque di proprietà dei singoli Autori. E’ necessario allegare al racconto i dati personali dell’autore e anche l’eventuale pseudonimo in caso si preferisca essere pubblicati con quello. I dati dei partecipanti non verranno in alcun modo comunicati o diffusi a terzi.

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I racconti, originali e inediti, dovranno pervenire:
online all’indirizzo email: info@ligera.it oppure a peridirittiumani@gmail.com con oggetto “Secondo concorso Letterario Ligera”
oppure in forma cartacea presso LIGERA, via Padova 133 - 20127, Milano



In collaborazione con Associazione per i Diritti Umani
www.peridirittiumani.com

mercoledì 27 novembre 2013

Documentare la realtà: con immagini e parole


Alberto Giuliani, a poco più di 30 anni , è un fotografo già affermato, con sedici anni di professione, pubblicazioni e riconoscimenti internazionali.
I suoi reportage hanno raccontato la crisi economica e la desolazione dell’Argentina; gli orrori dei conflitti in Afghanistan e nei Paesi della ex Jugoslavia; hanno denunciato le sterilizzazioni forzate in Perù e sono state utilizzate dal Tribunale Internazionale come una delle prove per accusare di violazione dei diritti umani il regime di Alberto Fujimori. E non solo: Alberto Giuliani ha raccontato le mafie, con le sue immagini (“Malacarne – Vivere con la mafia”) e con uno spettacolo teatrale, preparato e scritto insieme a Roberto Saviano.
E' uno dei soci fondatori di Luz Photo: tutto è cominciato tre anni fa, al momento della chiusura di Grazia Neri, agenzia che ha fatto la storia della fotografia italiana, per la quale il fotoreporter ha lavorato quindici anni. Ma oggi Alberto ha avuto un'altra idea interessante: usare la fotografia come narrazione di storie. E' diventato, quindi, uno “storyteller”, un cantastorie contemporaneo e ha voluto condividere le storie che scopre, che raccoglie, che ascolta con i lettori del sito
www.albertogiuliani.com, un lavoro che viene così presentato: “Ci sono fotografie che non ho mai fatto. Perchè difronte all'urgenza della vita non esiste altro che la nuda condizione umana. In quei momenti, la parola unita all' immagine, è stata la scelta più dignitosa che io abbia trovato per raccontare. Nell'umana fantasia di sopravvivere alla vita”. Un lavoro nato anche perchè, ci ha detto: “ I giornali italiani sono, ogni volta, meno attenti alle storie che trattano argomenti che hanno a che fare con il sociale. Va preso, da un lato, come un vero e proprio allarme, dall’altro come un’opportunità perché sono certo che rimangano argomenti di interesse collettivo”.

Di seguito troverete una parte dell'incontro con il fotografo, che abbiamo registrato per voi durante la manifestazione “Canon light experience”.

VI PROPONIAMO LA STORIA di Giulia Tamayo, tratta da Storyteller
Ringraziamo di cuore Alberto Giuliani per averci fatto questo regalo.

Giulia Tamayo, a life for justice

21 settembre 2013
Il telefono squillò una tarda notte di novembre. “Ce l’hai ancora le fotografie che avevi fatto in Perù? Tirale fuori, perché questa volta diciamo la verità”. Era la voce di Giulia Tamayo al telefono, piena come sempre di entusiasmo.
L’ultima volta che l’avevo incontrata, era a Madrid alcuni anni fa, quando quel foulard colorato a coprire il capo e la chemioterapia, la faceva sembrare un pirata. Anche in quei mesi cupi della sua vita, non si è mai arrestata nella guerra alle ingiustizie del mondo. Con i suoi modi diretti, la voce sempre dolce, quel fuoco interminabile di amore per gli altri, Giulia ora mi raccontava che il Governo Peruviano di Humala ha deciso di riaprire il caso delle sterilizzazioni forzate. “Ora, finalmente, possiamo dire la verità perché sia resa giustizia” mi disse.
Penso sia oltremodo presuntuoso credere che la fotografia possa cambiare il mondo. Ma almeno in questa storia ha sicuramente contributo a migliorarlo. Tra il 1995 e il 2000 in Perù, il Governo Fujimori sterilizzò con la forza, e nel silenzio, quasi un milione e mezzo di donne. Solo una voce si alzò contro questo crimine e fu quella dell’avvocato del popolo Giulia Tamayo, dal suo piccolo ufficio di Lima. Cercarono di abbatterla in tutti i modi, con qualsiasi violenza, attentato, meschinità. E forse ci sarebbero anche riusciti, se in qualche giornalista straniero non si fosse risvegliato il senso etico. Io fui il primo a chiamare Giulia, dopo aver letto un piccolo trafiletto sul quotidiano Spagnolo El Pais. “Vieni a vedere con i tuoi occhi” mi disse, e mi accolse in casa, con un sentito benvenuto, per più di un mese. La seguii in una lotta che sembrava a tutti senza speranza. Ma il profondo senso di giustizia di quella donna e le sue capacità professionali, riuscirono a inchiodare il Presidente Alberto Fujimori davanti al tribunale internazionale per i diritti umani. E sul tavolo delle Nazioni Unite, insieme alle migliaia di pagine di testimonianze raccolte negli anni da Giulia, c’erano anche le mie fotografie pubblicate sui giornali di mezza Europa. 
© Alberto Giuliani




Non aver abbassato la testa, l’abitudine alla verità e alla libertà, le costò l’esilio. Scappò dal Perù una mattina di maggio del 2000, mentre il governo di Fujimori sferrava l’ultimo feroce colpo di coda sul suo popolo. L’ambasciata spagnola chiamò Giulia offrendole asilo, e pregandola di andarsene immediatamente, senza neppure prendere niente da casa. Così ce ne andammo anche noi da Lima, un paio di anni prima, io e alcuni colleghi della televisione portoghese SIC. La casa di Giulia, nella quale ero ospite, era circondata dai servizi segreti e tutto faceva pensare che presto avrebbero sequestrato a me e alla troupe televisiva il materiale raccolto, con non si sa quali metodi. Fu Giulia, data la situazione, a consigliarci di chiamare le nostre ambasciate e di farci accompagnare subito fuori dal Paese.
Oggi Giulia ha 53 anni, vive a Madrid con i suoi figli e con il marito Chema. O come dice lei, il suo complice. Cita spesso Gandhi e sorride sempre. Sottovoce dice che il suo paese è l’umanità, ma vorrebbe poter dire un Perù libero. Esulta per il movimento degli indignados e del 15M, “perché da tutta la vita aspettavo un movimento popolare veramente democratico”. Facebook e Twitter sono diventati i suoi strumenti di indagine, alla guida straordinaria delle equipe investigative di Amnesty International.
Se la gente crede che può fare cose magiche, farà cose magiche. Abbiamo riempito librerie di testi sulla libertà e sulla giustizia, ma la fratellanza è qualcosa che si può solo provare. Il mio merito è solo quello di contagiare l’illusione che sia possibile. E investigare. Sono le uniche cose che so fare”.
Da quando ha lasciato il Perù ha vinto molte battaglie in Spagna, in Europa e nel mondo. Ha ricevuto la prima chiamata di Tony Miller che grazie a lei, dopo 20 anni, usciva vivo dal braccio della morte Texano. “Buongiorno Giulia, anche se non ti conosco volevo dirti che ringraziavo il cielo ogni volta che in questi anni ho sentito pronunciare il tuo nome”.
© Alberto Giuliani

Nonostante tutto però, Giulia non si da pace perché i colpevoli delle sterilizzazioni non sono mai stati puniti. Il precedente governo ha addirittura tentato di prescrivere il reato definendolo un “disservizio” del sistema sanitario. Quando le parole più giuste sarebbero crimine di lesa umanità, genocidio, crimini di guerra.
Giustizia e verità le deve a se stessa, a tutte le donne che con lei hanno lottato, e le deve soprattutto alla sua amica Maria Elena Moyano, che alla libertà ha dato la vita.
Nei suoi primi anni di attivismo, quando il Paese era martoriato dalla guerra terrorista di Sendero Luminoso, Giulia divenne amica e legale di Maria Elena, la principale leader popolare del Perù.

Era il febbraio del 1992, quando i Senderisti imponevano alle comunità Andine il coprifuoco. Maria Elena, quella stessa notte, uscì con altre donne per le strade deserte di Ayacucho, cantando “el miedo se acabò”; la paura è finita. La sera successiva, era il 14 febbraio, una edizione straordinaria del telegiornale annunciava l’assassinio di Maria Elena Moyano. Fatta saltare in aria con la dinamite davanti ai suoi figli.
© Alberto Giuliani

Il terrore avvolgeva ogni uomo e ogni cosa, al punto che nessuno ebbe il coraggio di rendere omaggio al corpo di quella donna straordinaria. Sola, Giulia, si aggirava nel silenzio gelido dell’obitorio firmando per il riconoscimento di ciò che restava della sua amica. In un angolo, una donna con un bambino al seno. Una compañera coraggiosa pensò Giulia. Le si avvicinò e l’abbracciò con affetto. La donna le disse: “cagna femminista, ti ammazzeremo”. Il 20 febbraio spararono a Giulia, riuscendo però, solo a gambizzarla.
Giulia non ha mai dimenticato l’amicizia e il coraggio di Maria Elena, e la porta nel cuore ancora oggi, quando col marito Chema intorno al tavolo della loro casa nella periferia di Madrid, suona la chitarra e canta che “la verità non è mai triste, è solo che non ha rimedio”, stringendo forte gli occhi per non piangere, di nostalgia e d’amore.
Giulia era diventata l’avvocato di tutte le donne del Perù, denunciando senza paura qualsiasi violenza, di mariti, padri, generali o presidenti. Quando nel 1992 l’arrivo di Alberto Fujimori, segnò la fine delle stragi Senderiste, e si contavano le 69.280 vittime civili, la sensibilità di Giulia intuì che la guerra non era affatto conclusa, ma si erano solo spostati gli equilibri. E oggi la verità le da ragione.

L’incremento demografico globale, e le possibili conseguenze Malthusiane, portarono i governi di tutto il mondo a confrontarsi su questi temi. Un’esponente dell’ONU a dichiarò che “l’utero può essere più pericoloso della bomba atomica”. Quando nel 1995 a Pechino, alla Conferenza Mondiale delle Donne organizzata dalle Nazioni Unite, Alberto Fujimori tenne il suo discorso, venne accolto trionfalmente da tutti. Solo Giulia, seduta in prima fila, rabbrividì al vederlo sul palco, con in mano un mazzo di fiori offerto simbolicamente a tutte le donne. Fujimori era l’unico capo di stato uomo a prendere la parola durante la conferenza, e con orgoglio proclamava l’impegno del Perù nella lotta alla povertà e all’uguaglianza sociale lanciando una “strategia integrale di pianificazione familiare, che per la prima volta nella storia del Perù affronterà definitivamente la carenza di informazione e servizi, perché le donne dispongano con autonomia e libertà della propria vita”.
Il risultato di quella promessa fatta al mondo, fu quel milione e mezzo di donne sterilizzate contro la loro volontà, e tra queste un numero imprecisato di vittime per le gravi carenze sanitarie e igieniche nelle quali gli interventi chirurgici venivano condotti.
Il primo allarme arrivò a Giulia nel 1996 dalle sue amate comunità andine. Fu Ilaria, giovane leader femminista di Cuzco che le disse con vergogna “vengono i medici e se le portano, ci stanno facendo danno”. Poche settimane dopo Giulia raggiunge Ilaria nella piccola cittadina di Huancabamba, e comprende tutto. Il Governo aveva organizzato dei veri e propri festival. Cosi li chiamavano, portavano giochi, cibo, la banda e il grande striscione con scritto “Festival della legatura delle tube”.
Poi un domani si possono slegare” dicevano i medici alle donne. Ma la scelta era obbligatoria per tutte. Nelle comunità più reticenti arrivava l’esercito, a bordo dei pesanti camion della fanteria. Montavano una tenda e rastrellavano le donne. Giovanissime, minorenni, madri, o appena sposate. Non faceva differenza. Non c’erano sconti per nessuno.
Grazie a un coraggioso passaparola clandestino, Giulia fu portata in ogni villaggio, città, comunità. Presto iniziarono a testimoniare anche medici e infermieri, uomini che non volevano essere complici di quel delitto. Giulia registrava, fotografava, intervistava. Piangeva, perché il 90% delle donne che incontrava aveva subito quell’atroce e disumana violenza.
Più Giulia indagava, più la morsa intorno alla sua vita si stringeva. Minacce, furti, violenze a lei e alle donne sue compagne. La casa distrutta. I telefoni sotto controllo. Mai dimenticherà il macabro sorriso dei militari, che stazionando davanti a casa sua giorno e notte, la seguivano con lo sguardo, quelle rare volte che trovava il tempo di uscire col piccolo figlio Sebastian per mano.
Grazie alla stampa internazionale, alle sue denunce alle Nazioni Unite, alla sua lucida strategia, Amnesty International lanciò un’azione internazionale urgente per proteggerla.
Fu per questa ragione che non mi fecero fuori” dice oggi Giulia con gratitudine. “Fu grazie all’attenzione che voi stranieri mi avevate dato”. L’8 marzo di quello stesso anno 2000 Amnesty International la invita a New York per ricevere il premio Ginetta Sagan, per lo straordinario lavoro compiuto nel rischio della propria vita.
Giulia approfittò di quell’occasione e portò con se anche i figli, per poi farli rifugiare in Spagna. Giulia e Chema invece, tornarono nella loro amata Lima, sconvolta da violente repressioni in quei giorni di elezioni. In quel clima insostenibile, le minacce per la loro vita gli sembrarono finali, e dovettero accettare anche loro la fuga. “Vengo da voi, ci riuniamo. E vi prometto che staremo insieme per sempre” disse Giulia ai figli, chiamandoli da una cabina telefonica dell’aeroporto.
Oggi, dodici anni dopo quel massacro, è diventata realtà ciò che Giulia aveva intuito e che allora non poteva essere detto di fronte all’urgenza di salvare vite umane. Oggi, con intere città senza bambini e senza più scuole, è chiara la volontà di voler sterminare un popolo. E se riportiamo su una mappa anche solo i 325.000 casi raccolti analiticamente nelle inchieste di Giulia, scopriamo che disegnano perfettamente le aree di forza del Senderismo, che coincidono con le aree ricche di materie prime, e con le rotte del narcotraffico. La “pianificazione familiare” del Governo Fujimori, altro non era che un piano strategico militare per favorire interessi personali, governativi e di guerra.
Ora Giulia è lontana dalla sua terra, lontana dal poter indicare la giusta via a chi sta riaprendo il caso, ma guarda a questa opportunità con la luce dei giusti nei suoi occhi. Si confronta tutti i giorni con le sue compañeras tra Lima e le Ande, gli dice che si deve e che si può, perché “quando tutta l’umanità si fa carico dell’accaduto, della dignità umana, anche la morte si arrende. O per lo meno, si emoziona.” In fondo questa è l’unica cosa che Giulia sa fare.


Aggiungiamo anche una parte dell'incontro a cui l'Associazione per i Diritti Umani ha partecipato, organizzato dalla Canon a Milano nei giorni scorsi e al quale è stato invitato il fotografo, come relatore. 











martedì 26 novembre 2013

Sistema carceri


A pochi giorni dal messaggio del capo dello Stato,Giorgio Napolitano,rivolto ai Presidenti delle Camere in cui chiedeva di risolvere l'emergenza del sovraffollamento delle carceri, un giovane di ventinove anni si è tolto la vita nell'istituto di pena di Benevento, impiccandosi ad una finestra della cella. L' associazione Stretti Orizzonti riferisce che, con questo ultimo episodio, salgono a 46 i detenuti suicidi dall'inizio dell'anno e a 141 il totale dei decessi in carcere.
Torna, quindi, al centro del dibattito, anche politico, la questione del sovraffollamento e del miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Il Guardiasigilli, Annamaria Cancellieri, durante il congresso dei Radicali Italiani a Chianciano, ha sottolineato il fatto che: “ Non è più un problema di sovraffollamento delle carceri” ma che “Il problema è più ampio, diverso e coinvolge non soltanto le condizioni dei detenuti nelle acrceri, ma anche il modo in cui si trovano a lavorare gli agenti della polizia penitenziaria e i magistrati di sorveglianza”.
Il Ministro ha anticipato anche alcuni provvedimenti proposti durante l'incintro,a Strasburgo, con il segretario generale del Consiglio d'Europa, Thorbjorn Jagland. Il cosiddetto “piano carceri” prevede: l'approvazione di un decreto legge che riduca i flussi d'ingresso in carcere e che renda più fluido l'accesso alle misure alternative: in tal senso, si propone di adottatre un provvedimento che preveda minori sanzioni per i tossicodipendenti e percosri facilitati di rimpatrio per gli stranieri, in linea con le direttive dell'Unione Europea.
Un secondo obiettivo riguarda l'ampliamento del modello di detenzione “aperta” che riguarda la permanenza fuori dalle camere di pernottamento per 8 ore al giorno e la creazione, all'interno degli istituti, di spazi per attuare attività ricreative e laboratori rivolti al reinserimento del detenuto nel mondo del lavoro e nella società.
Infine, è previsto un potenziamento delle strutture penitenziarie che porterà, entro la fine dell'anno, ad altri 2000 posti in edifici nuovi e all'aumento di 4.500 posti in quelli già esistenti.

Riproponiamo, per voi, il video di un incontro organizzato, prima dell'estate, dall'Associazione per i Diritti Umani in collaborazione con Spazio Tadini




Ma il dibattito continua. Vi segnaliamo, inoltre, un'iniziativa che verrà presentata oggi, martedì 26 novembre, 2013 presso l'Urban Center, alle ore 18.00 in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Consigli di lettura su carcere e dintorni



Quante sono le persone detenute negli istituti penitenziari di Milano? Come si fa a sopravvivere in sei persone in una cella di 3 metri per 4? Come si passa la giornata chiusi in un "locale/loculo"? Qual è la condizione di chi vive in un regime carcerario "duro"? Cosa significa per una donna e per una mamma essere detenuta? Come funziona il sistema della giustizia minorile e perché è diverso da quello degli adulti?Per rispondere a queste e a tante altre domande simili, l'Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale propone un ciclo di incontri e di presentazione di libri per conoscere e appronfondire le varie sfacettature del mondo del carcere e della penalità.
OSPITI: DAVIDE DUTTO, fotografo e GIORGIA GAY, antropologa-giornalista
Come si fa a sopravvivere per mesi o per anni in una cella di pochi metri quadri, chiusi fino a ventun'ore al giorno in compagnia di altre tre, o quattro, o cinque persone? Come si fa a far trascorrere intere giornate senza avere assolutamente mai niente da fare? Come si fa a difendere la propria identità all'interno di un sistema che tende ad annullare la personalità di chi sta chiuso al suo interno?
Davide Dutto è fotografo,coautore con Michele Marziani del libro "Il gambero nero" (Edizioni Cibele) e promotore dell'associazione "Sapori reclusi" che, partendo dal comune bisogno dell'uomo di nutrirsi, vuole riunire uomini e donne che vivono nascosti agli occhi dei più, con il resto della società.
Giorgia Gay è antropologa, giornalista ed autrice dell'e-book "... e per casa una cella - I detenuti e lo spazio: tattiche di reazione e domesticazione", una ricerca sulla percezione e l'utilizzo dello spazio in una comunità ristretta.
Al dibattito interverranno Emilio Caravatti e Lorenzo Consales, docenti a contratto del Politecnico di Milano, per raccontare un'esperienza di interazione tra studenti di architettura e persone detenute sulla riprogettazione degli spazi del carcere.
Un ricettario "galeotto" nel quale confluiscono piatti, sapori e metodi di preparazione provenienti da tutto il mondo, perché la globalizzazione è arrivata anche in carcere. Un libro fotografico (un racconto in immagini, realizzato assieme al direttore, alle educatrici, alle assistenti sociali e al comandante della polizia penitenziaria) per illustrare la vita quotidiana dei detenuti del carcere piemontese di Fossano. Un ricettario nel quale per un detenuto il cibo diventa un momento in cui affermare i propri gusti e il proprio saper fare, e un modo per ricordare gli affetti e condividere un momento di piacere.
Una cella di tre metri per due, un corridoio di circa 30 passi, un cortile (definito "passeggio"), per stare all'aria aperta; in questi spazi, circondati da muri, cancelli e porte blindate, si svolge la vita di una comunità molto numerosa ma nascosta, relegata ai margini: la comunità dei detenuti. Si tratta di migliaia di persone in tutta Italia che vivono, mangiano, respirano in un mondo quasi fuori dal tempo e dallo spazio, una sorta di non-luogo impenetrabile. E' una comunità che ha un proprio ordine, regole e dinamiche interne assolutamente originali. Ma soprattutto è una comunità "ristretta" nella libertà ma anche negli spazi, che abita un mondo che si esaurisce in pochi metri quadri.





lunedì 25 novembre 2013

Un appello per Omid Kokabee



Durante un incontro della manifestazione di Bookcity, che si è tenuta dal 21 al 24 novembre a Milano, incontro di cui vi parlaremo a breve, ci è stato consegnato il seguente appello, che abbiamo deciso di pubblicare nella sua interezza e in inglese, così come è stato scritto.


Omid Kokabee was born in 1982 and is an Iranian experimental laser physicist at the University of Texas in Austin. He was arrested in Iran after returning from the United States to visit his family in February 2011. He was charged with “communicating with a hostile government” and “illegitimate/illegal earnings”, and was sentenced to ten years in prison.

Kokabee is from Iran's Turkmen ethnic group, the majority of whom are Sunni Muslim, a religious minority in Iran. He was ranked 29th in the Iranian universities' entrance exam, which is held annualy with more than one million partecipants. He entered Sharif University of Tecnology in Teheran in 2000 and completed a double major undergraduate program in applied physics and mechanical engineering.
He later obtained his Master's degree in photonics at the Polytechnic University of Catalonia and his PhD at the Institute oh Photonic Sciences, ICFO, in Barcelona. Omid started his second PhD at the University of Texas in Austin in 2010. He has published more than twenty collaborative papers including seven journal publications.

During winter break in 2011, Kokabee traveled to Iran to visit his family. He was arrested at Imam Khomeini International Airport on his return trip to the United States in February 2011. he was subject to solitary confinement for 36 days after his arrest. In an open letter, Kokabee wrote that the authorities were trying to obtain his collaboration for the Iranian nuclear program by threatening him and his family.

After 15 months of detention without trial and postponement of two trials in July and October 2011, kokabee was put in trial in Teheran in May 2012. According to his lawyer, Saeed Khalili, Kokabee was charged with having relations with a hostile country and receiving illegitimate funds. Kokabee was tried before judge Abolghasem Salavati with a group of 10 to 15 others in the same sassion, under the collective charge of collaborating with Israeli authorities. While other prisoners confessed to their guilt in a TV broadcast, Kokabee consistently denied all charges and did not speak in court. He was sentenced to 10 years in prison. The sentence was confirmed in an appeal trial in August 2012.

Several physics associations, including the American Physical Society, the International Optics Society SPIE, the Otical Society of America, and the European Optical Society, have protested his imprisonment by writing open letters to Iran's Supreme Leader, Ayatollah Ali Khamenei. In its letter, the American Physical Society states that:

Mr. Kobabee has no training in nuclear physics, is not politically active, and is not associated with any political movement in Iran. Rather, his primary concerns were his science studies in the field of optics. This area of physics has essentially no overlap with nuclear technology”.

In a letter written in March 2013 from Section 350 of Evin Prison, Kokabee writes that he was asked to collaborate with the military before and during his detention but has always refused.

On september 23, 2013, the American Physical Society, the principal professional society of physicists in the United States, announced that Kokabee has been selected as a co-recipient of its 2014 Andrei Sakharov Prize, which recognizes outstanding leadership of scientists upholding human rights. He was cited for “his courage in refusing to use his physics knowledge to work on projects that he deemed harmful to humanity in the face of extreme physical and psychological pressure”.

Omid is not in good health. He suffers from kidney and stomach problems, which he had from childhood but have severely worsened in prison. His requests to be sent to a hospital outside of the prison have been denied.

Omid teaches English, Spanish and French to his cellmates and has translated two books from English to Persian in the prison. Recently, he submitted a paper on laser to Iran's annual physics conference and, after acceptance, he was invited for an oral presentation, but the prison authorities did not allow him to attend the conference.

Please help bring Omid home by writing a letter to Iran's Justice Minister, Mostafa Pour-Mohammadi, at this address:

Mostafa Pour-Mohammadi
Minister of Justice
Valie asr Avenue, north of Pastor Intersection
Bonbaste Azizi 4
Theran, Iran

Ginocidio. La violenza contro le donne nell'era globale



In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, pubblichiamo un'importante intervista che abbiamo fatto per voi alla Prof.ssa Daniela Danna sul suo ultimo saggio, ringraziandola molto per averci concesso un po' del suo tempo.



Daniela Danna, docente di sociologia presso l'Università degli Studi di Milano, in Ginocidio. La violenza contro le donne nell'era globale affronta un tema, purtroppo, di grande attualità, in Italia e non solo: l''autrice lo chiama "ginocidio" perchè questa violenza è generata dal giudizio maschile sull'inferiorità sociale femminile e dal desiderio di controllo del corpo delle donne da parte degli uomini.
Il testo, diviso in due parti, è basato su un doppio approccio alla violenza contro le donne. La prima parte è tematica: descrive e analizza stupri, maltrattamenti in famiglia, omicidi, violenza culturale, istituzionale ed economica, fenomeni correlati alla disuguaglianza tra i generi e più in generale al grado di disuguaglianza presente in una data società. La seconda parte presenta, invece, un approccio geografico, mettendo a confronto scenari diversi come quelli di Italia, Paesi scandinavi, Americhe, Europa dell'Est e Paesi musulmani.



Perchè ha sentito l'urgenza di scrivere questo saggio e di approfondire un tema di grande attualità?

Ho cercato di capire la situazione dai teorici della globalizzazione - che ci dicono che sta andando tutto per il meglio e che anche per le donne le cose stanno migliorando - e da altri autori che, invece, ci dicono che la globalizzazone sta peggiorando la situazione delle donne perchè, aumentando le disuguaglianze, le donne si trovano nella parte perdente sia all'interno dei Paesi che anche tra Paesi diversi.
Quello che ho cercato di fare, da sociologa, è capire se questa idea della violenza sulle donne sia qualcosa di riscontrabile con i dati, a partire dalle ricerche che sono state fatte sui reati: non soltanto attraverso le statistiche giudiziarie, perchè ci dicono quanti reati sono stati denunciati, ma anche attraverso le indagini di vittimizzazione che, al contrario, si rivolgono direttamente a un campione di persone e chiedono loro quali reati hanno subìto. Ad esempio, in Italia, secondo l'Istat solamente una piccola percentuale (al di sotto del 10%) dei reati che vengono commessi ai danni delle donne da parte degli uomini sono effettivamente denunciati. E questo comporta un problema metodologico: questa affermazione, così diffusa anche politicamente, è sì un campanello d'allarme, ma non è possibile verificarla attraverso le indagini che sono state fatte perchè non vanno molto idietro nel tempo e perchè l'esito è quello di un enorme sommerso.

Che ruolo hanno le religioni – in particolare quelle monoteiste – nel confermare il ruolo di inferiorità della donna?

La stessa idea del monoteismo è quella di unificare ciò che, invece, nelle religioni più antiche, era una pluralità: gli dei e le dee, ciascuna con una propria funzione. Al posto di questo pantheon troviamo un Dio onnipotente che - come vediamo da millenni - sotto il patriarcato è inevitabilmente maschio.
Rispetto all'attualità, nonostante le aperture e le trasformazioni della Chiesa anche nel suo ruolo economico (come sta facendo Papa Francesco e, prima di lui, Papa Luciani), viene ribadito il veto al sacerdozio femminile e questo è un messaggio di disuguaglianza di enormi proporzioni perchè lo stato laicale è considerato più basso rispetto a quello sacerdotale e le donne non possono accedere a quello sacerdotale. E non si sa bene perchè.

Può anticiparci un'analisi della condizione femminile nel mondo scandinavo?

Il mondo scandinavo è quello a cui guardiamo con grande interesse perchè gli indicatori di uguaglianza tra i sessi sono molto elevati e questo riflette una tradizione di lunga data.
I Paesi scandinavi sono collocati in aree climaticamente svantaggiate in cui è forte la necessità del lavoro umano e, quindi, anche di quello della donna perchè c'è bisogno della forza di tutte e di tutti.
Se torniamo indietro nel tempo, le popolazioni vichinghe avevano delle tradizioni di uguaglianza tra i sessi: ad esempio, non c'era una condizione d'onore femminile che si rifletteva sugli uomini. E oggi, come esito di questa lunga tradizione culturale, abbiamo una minore presenza di violenza contro le donne e una migliore condizione femminile.
In Norvegia, tra l'altro, si parla anche di un possibile trattamento dei maltrattanti, cioè si parla di percorsi psicoterapeutici e di recupero. Certo, la Norvegia è un Paese in cui gli uomini sono molto più autocritici rispetto agli ideali virili e al loro ruolo sociale rispetto all'Italia.

Perchè il termine “ginocidio”?

Ginocidio è un termine analogo a femminicidio. Per me il significato è: “ attacco a tutto ciò che è femminile”, considerando la radice greca “gunos” e latina “femina” del termine. Si tratta dell'inferiorizzazione delle caratteristiche omosessuali proprie anche degli stessi uomini. Non a caso, le caratteristiche omosessuali non sono ancora accettate in una società maschilista in cui il ruolo maschile e quello femminile sono nettamente separati.

Quali sono le conseguenze non visibili della violenza nei confronti delle donne?

Dalla violenza fisica si può guarire. La violenza psicologica, invece, lascia marchi molto più profondi: un conto è essere picchiate e un conto è l'umiliazione, anche se la violenza psicologica è difficile da dimostrare, da denunciare. E' molto complicato convincere un giudice che, se non c'è stata violenza fisica, quella psicologica ha danneggiato la persona.
Una violenza psicologica si verifica quando ci sono insulti, rimproveri, scarsa considerazione da parte del compagno. Nella nostra società c'è stato un tentativo di confinamento della violenza fisica, ma adesso ci dobbiamo occupare anche di quella psicologica perchè, come abbiamo detto, dal punto di vista giuridico, è ancora difficile tradurla in termini penali.


domenica 24 novembre 2013

La vie d'Adèle vince a Cannes: un'intensa storia d'amore al femminile

E' ancora nelle sale italiane il film vincitore dell'ultima edizione del Festival di Cannes. Ripubblichiamo per voi la nostra recensione

 


Ringrazio la bella gioventù di Francia che ho incontrato durante la lavorazione e che mi ha fatto sentire lo spirito di libertà e la gioia di vivere e ringrazio la gioventù tunisina che ha fatto la sua rivoluzione con la giusta aspirazione di vivere liberamente, pensare liberamente e amare liberamente”: con queste parole il regista Abdellatif Kechiche ha ritirato la Palma D'Oro all'ultima edizione del Festival di Cannes, premio ottenuto per il suo film intitolato La vie d'Adèle.
Kechiche, nato a Tunisi, ma cittadino francese, porta sempre sul grande schermo storie intense e complicate sullo sfondo di una società altrettanto complessa e stratificata: ricordiamo, infatti, Tutta colpa di Voltaire, La schivata, Cous Cous e Venere Nera in cui parla di immigrazione, dell'inclusione, di multiculralismo, andando ad analizzare le radici, le conseguenze e le sfaccettature degli argomenti trattati.
Con il suo ultimo lavoro prende in considerazione, ancora una volta, un tema molto attuale: l'amore omosessuale, declinato al femminile. Con grande sensibilità, ma anche realismo visivo, racconta la storia di Adèle, nell'arco di circa otto anni. Adèle è una quindicenne, liceale, di famiglia operaia; studia, ama leggere e da grande vorrebbe diventare una maestra. Vive la sua prima esperienza sessuale con un coetaneo, Thomas, ma poco dopo prova a dare un bacio ad un'amica che la respinge. Un giorno, la strada di Adèle incrocia quella di Emma, una ragazza più grande, dai capelli blu e che studia all'Accademia di Belle Arti e, da quel momento, Adèle scopre la passione vera, la travolgente bellezza dell'intimità e la pienezza dell'essere se stessi.
Anche ne La vie d'Adèle scorgiamo i tratti tipici dello stile narrativo di Kechiche: usa il teleobiettivo per girare le scene di sesso da lontano e rendere maggiormente la verosomiglianza degli amplessi, espliciti, insistiti, coinvolgenti. Non fa sconti all'immaginazione: riporta i corpi nudi, i movimenti, gli spasimi e i respiri. Perchè il sesso può e deve essere vitale e libero. Come in tutte le storie d'amore forti e profonde ci sono i momenti di rottura, per un tradimento, per qualche incomprensione: e questo accade anche a Emma e ad Adèle che si incontreranno di nuovo, ma ormai non sarà più come prima.
Il presidente, Steven Spielberg, e la giuria della 66ma edizione del Festival hanno sorpreso pubblico e giornalisti conferendo il premio principale non solo al film, ma anche alle due attrici protagoniste, Adele Exarchopoulos e Lea Seydoux, e hanno affermato: “...Come giurati siamo rimasti stregati da queste attrici formidabili, e il fatto che negli Stati Uniti il film potrebbe essere censurato non poteva né doveva diventare un criterio del nostro giudizio”.
Il film è stato premiato in un momento molto particolare: lo stesso giorno in cui, a Parigi, sfilava la manifestazione contro la legge che ha legalizzato i matrimoni di coppie omosessuali, decisione che ha portato al suicidio dello scrittore e attivista di estrema destra, Antoine Lerougetel.
Abdellatif Kechiche ha dichiarato di aver realizzato un film “non militante”, ma l'opera - di coproduzione francese, spagnola e tedesca - è già al centro di un dibattito, almeno culturale.


sabato 23 novembre 2013

L'attenzione su Bahar Kimyongur


Una notizia passata in secondo piano, forse solo per gli “addetti ai lavori”; un nome poco conosciuto. Ma bisogna, invece, parlarne: parlare del caso di Bahar Kimyongur, un attivista turco-belga, vittima della prima applicazione, su suolo europeo, del regime di paura affermatosi dopo la tragedia delle Torri Gemelle, a New York, nel 2001. L'accusa era quella di far parte di un gruppo comunista turco legato ad organizzazioni terroristiche.
Arrestato e rilasciato più volte, Kimyongur denuncia a viso aperto la politica repressiva del Presidente turco Erdogan e l'ingerenza della NATO in Siria.
Pochi giorni fa, l'attivista è arrivato in Italia per partecipare a due incontri pubblici, a Monza e a Padova, proprio per parlare dell'ingerenza della Turchia nella complessa situazione siriana, ma – atterrato all'aereoporto di Bergamo – è stato prelevato dalla Digos e portato in carcere. Non sono ancora chiari i motivi.
Kimyongur rischia l'estradizione in Turchia: per evitare questo, il Collettivo Tazebao, che aveva organizzato gli incontri, ha scritto un comunicato e molti si stanno attivando per cercare notizie e organizzare iniziative di solidarietà.

Riportiamo, di seguito, un articolo di Bahar Kimyongur (pubblicato anche su ap0ti@blogspot.it)

Bahar Kimyongür: a Lille, Martine Aubry censura un dibattito sulla Siria‏
 
Le shabbiha (*) di Fabius e Hollande hanno colpito ancora: nuovo attentato alla libertà d'espressione di cui la “patria dei diritti umani” è ormai la campionessa.
Sabato scorso, 6 aprile, la sala comunale Philippe Noiret nel quartiere Wazemmes di Lille, avrebbe dovuto ospitare una conferenza sulla Siria, organizzata dalla Coordinazione Comunista e il Fronte di Sinistra, con lo scienziato franco-siriano Ayssar Midani – e il sottoscritto – come ospiti.
Qualche giorno prima, un oscuro gruppo che si proclamava “antifascisti senza patria o frontiera” ha lanciato un appello al sabotaggio della conferenza.
Nel loro lobbying a favore della censura, i sedicenti “antifa” ci accusano di scendere a patti con il diavolo, ovvero i regimi di Damasco e Tehran: in altre parole, i nemici principali d'Israele.
Visto il numero di dittature detestabili che sterminano popolazioni intere per consolidare il loro dominio – a cominciare dai “nostri” capi di stato – noi riteniamo che la scelta di prendersela esclusivamente con la Siria e con l'Iran non sia frutto del caso.
Per confondere la pista, gli pseudo-antifasciti non esitano a tuffarsi nella demagogia, accusando i partecipanti alla nostra conferenza di essere “dei PR a servizio delle dittature”, dei “rosso-bruni”e dei “nazbol”, contrazione di nazisti e bolscevichi. I martiri di Stalingrado e i più di venti milioni dei loro compatrioti apprezzeranno di essere amalgamati con i loro invasori e boia.
Alla fine, la campagna diffamatoria lanciata da questi provocatori senza né patria, né frontiera, né volto, né coraggio, né cervello ha conseguito il suo traguardo.
La signora Aubry, sindaco di Lille, ha in effetti probito la conferenza “per ragioni di sicurezza”.
Volendo assicurarsi che nessuna voce dissidente sulla Siria si esprimesse nelle sue sale, la “maccarthyana” Aubry ha persino fatto cambiare le serrature delle porte nella sala Philippe Noiret, sapendo che gli organizzatori dell'evento avevano precedentemente ricevuto un'autorizzazione e disponevano quindi delle chiavi.
Ma grazie al senso pratico di alcuni militanti, e alla generosità di un negoziante curdo, la nostra conferenza si è potuta finalmente tenere, in un ristorante di kebab alla periferia di Lille.
Malgrado le eccezionali condizioni d'organizzazione, circa 80 persone hanno potuto comunque riunirsi, informarsi e intervenire sulle alternative riguardo alla risoluzione del conflitto siriano.
Non era la prima volta che un dibattito aperto, critico e contraddittorio sulla Siria veniva censurato in questo modo dall'Inquisizione di matrice sionista.
Venerdì primo marzo 2013, gli amici svizzeri dei nostri indomiti “antifa”avevano manifestato contro la nostra conferezna sulla Siria a Ginevra sulla base di una grottesca diceria di collusione con l'estrema destra (vedere: http://www.silviacattori.net/article4287.html).
Non molto tempo fa eravamo accusati di essere talibani per aver denunciato la guerra in Afghanistan, agenti di Saddam per aver parlato contro la guerra in Iraq e “gheddafisti” per aver militato contro l'invasione della Libia.
Anche la minima simpatia che manifestiamo nei confronti della resistenza palestinese o libanese è tacciata di antisemitismo.
Al debutto di ogni campagna guerrafondaia, siamo sempre accusati di collusione con il nemico da gruppuscoli clandestini che se la giocano da ribelli libertari, ma i cui atti e parole servono indefinitiva solo a rafforzare la legge del piùforte.
Teniamo ancora una volta ad avvertire i nostri detrattori che le minacce non ci impediranno nédi denunciare le guerre che gli altri padroni impongono alla Siria, nédi militare per una risoluzione pacifica e politica del conflitto nel paese.
 

(*) Il termine shabbiha designa gli ausiliari dell'esercito siriano che combattono l'insurrezione anti-baathista. Il termine però sembra convenire sempre più agli ausiliari degli eserciti NATO che combattono contro i militanti anti-imperialisti.

Articolo originale: Lille : Martine Aubry censure un débat sur la Syrie
Bahar Kimyongür

venerdì 22 novembre 2013

Apparteniamo tutti allo stesso genere



Lo scorso marzo Adan è stata uccisa in Honduras, a luglio Natalia è stata uccisa in Brasile; Islan a New York in agosto e Dwayne non c'è più a causa di un colpo di pistola, Questi solo alcuni nomi delle mille e cento persone vittime della transfobia, un termine coniato da poco tempo e che indica non solo la “paura” generata (chissà perchè) da chi cambia sesso, ma una vero e proprio odio nei confronti dei transgender, un odio che nasce da stereotipi negativi - transessualità = prostituzione, ad esempio - e che produce pregiudizi che sfociano troppo spesso nella violenza.
Ogni anno, il 20 di novembre, si celebra nel mondo il Tdor, Transgender day of remembrance: un'occasione per ricordare tutti coloro che hanno salutato la propria identità di nascita per acquisirne un'altra, quella che sentivano come più appropriata e vera; un'identità fisica più vicina al loro sentire psichico. E, per questa scelta, hanno pagato il prezzo più alto, per l'incapacità di molti ad accettare il cambiamento e la diversità e per la rigidità dei ruoli sociali.
Domenica scorsa, 17 novembre 2013, a Roma si è tenuto un sit-in a Piazza del Popolo, dinanzi ad una chiesa: alla Chiesa degli artisti. Probabilmente un luogo simbolico perchè le istituzioni statali, ma anche la Chiesa cattolica, così presente sul territorio italiano, devono prendersi cura e tutelare i diritti e la vita di tutti. Il sit-in è stato organizzato dall'associazione Libellula e, tra le varie inizitive, è stato approfondito il tema delle relazioni affettive e familiari delle persone trans. Che siano “trans” non è importante, tutti apparteniamo al genere umano.

Dalla transfobia all'omofobia. In un periodo in cui, purtroppo accadono molti episodi di cronaca legati anche alla paura e all'odio nei confronti delle persone omosessuali, arriva un piccolo segnale positivo, che va in una direzione di rispetto e di obiettività: nei giorni scorsi, il Tribunale per i minorenni dell'Emilia-Romagna ha affidato una bambina ad una coppia di uomini. Di mezza età, i due signori convivono stabilmente da sei anni e hanno compiuto tutti i test e i percorsi valutativi previsti dalla normativa.


Nella legislazione nazionale (che risale al 1983) viene sottolineato che “ l'affido temporaneo non è preordinato all'adozione, ma al benessere del minore” e viene, inoltre, indicata come famiglia affidataria, o nucleo affidatario, un nucleo in cui sono presenti madre e padre o persone singole, senza una precisazione in merito all'orientamento sessuale degli affidatari. E' importante, invece, che vengano effettuate tutte le valutazioni delle motivazioni, delle competenze e delle loro capacità genitoriali. Sempre nella normativa, non vi è nemmeno un richiamo al vincolo del matrimonio come requisito necessario, a differenza di quello che viene sancito dall'articolo 29 della Costituzione.
La decisione del Tribunale di Bologna dell'affidamento temporaneo della bambina di tre anni alla coppia di omosessuali - che conoscono la bimba da tempo e che hanno sempre avuto con lei un rapporto di affetto - si fonda su una precedente pronuncia della Corte di Cassazione del gennaio 2013, nella quale la Corte ha stabilito che la credenza diffusa “che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale” rappresenti un pregiudizio . Il giudice, infatti, nella sentenza, ha scritto: “ ...Si rivela la sussitenza di una situazione di fatto paragonabile al contesto familiare sotto il profilo accuditivo e di tutela del minore...Il fatto che i componenti del nucleo abbiano il medesimo sesso non può considerarsi ostativo all'affidamento di un minore. Ciò anche tenuto conto che in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza costituisce mero pregiudizio la convinzione che sia dannoso per lo sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”.

giovedì 21 novembre 2013

3 in 1: in Palestina i sogni sono sempre più piccoli, di Monica Macchi

Con grande piacere publichiamo quest' articolo di Monica Macchi, ringraziandola per questo suo interessante contributo

Con la convinzione che il teatro rifletta la realtà e sia uno strumento per il cambiamento, 3 attori Mohammed Titi, Raed Shiyoukhi e Ihab Zahdeh hanno fondato nel 2007 a Hebron lo “Yes theatre” lavorando soprattutto nell’ambito dei progetti con e per i ragazzi per “arricchire la loro vita, e renderli consapevoli del patrimonio culturale palestinese creando una nazione di cittadini fiduciosi e responsabili
Tra i moltissimi spettacoli hanno scritto, diretto e interpretato anche “3 in 1”, presentato in lingua originale in anteprima europea quest’estate a Bologna all’interno della rassegna “Cuore di Palestina” e premiato allo spazio Nohma di Milano come vincitore del premio “Il Teatro Nudo di Teresa Pomodoro”, premio dedicato “a quel teatro che non si piega ai codici di una comunità, ma che ‘nudo’, si cala nei significati, nell’esplorazione dell’uomo e della società con uno sguardo curioso e disincantato”.
Attraverso l’uso del corpo e della voce e delle luci sul palco presentano una serie di quadri sulla loro vita quotidiana in Palestina sottoposti non solo all’occupazione israeliana (dal controllo ai check point ai continui interrogatori con le stesse domande che si ripetono sempre uguali e che sono stati resi con una musica elettronica martellante che robotizzava sia chi incalzava che chi rispondeva) ma anche ad una cultura machista che guarda con sospetto all’arte considerata un vizio, da cui bisogna guarire perché getta disprezzo sull’intera famiglia (“sei forse un bambino per vestirti da donna?!?”) e per di più inutile (Pensi di liberare la Palestina così?O di fare qualcosa per Gaza? O per Hebron? Hai fatto riaprire Shohada street così?)
Artisticamente eccezionale ma desolante e desolato il finale: Ihab dopo un lungo monologo in cui denuncia di aver passato 36 anni senza evoluzioni e che ora persino il suo pensiero è paralizzato si presenta in scena con un palloncino rosso e il pensiero corre subito a “Intervento Divino” di Elia Suleiman, film del 2002 che ha vinto il Festival di Cannes. Qui una delle scene più famose è proprio un palloncino rosso con il volto di Arafat che viene fatto volare sul checkpoint di Ramallah e che riesce a volare imprendibile e inarrestabile fino alla spianata delle Moschee, luogo sacro per l’Islam dove sorge la Moschea di Al-Aqsa ma politicamente rivendicato dagli israeliani come luogo del Tempio di Salomone e su cui Sharon ha fatto la provocatoria passeggiata scintilla dell’Intifada. Ebbene Ihab dopo aver detto “solo una cosa non ho ancora fatto, solo una cosa mi resta da fare” si impicca al palloncino spiegando con questo solo gesto tutto quello che è cambiato in Palestina in questi 10 anni: i sogni sono diventati più piccoli.


mercoledì 20 novembre 2013

Geronimo Stilton e i diritti per l'infanzia e l'adolescenza

  




Dal 30 novembre 2011, giorno del suo insediamento, l'Autorità Garante monitora il rispetto dei diritti dei bambini e degli adolescenti. Vincenzo Spadafora gira l'Italia e sollecita il governo, indicando e proponendo interventi migliorativi per la tutela dei diritti dei minori e, per questo, ha avuto l'idea di spiegare, ai cittadini di domani, quali siano i loro diritti attraverso un libro che illustri le attività dell'Autority.
Ma non si tratta di un libro qualunque: chi spiega,ai ragazzi, in maniera semplice e chiara, la Convenzione sui Diritti dell'infanzia e dell'Adolescenza? Un loro beniamino: Geronimo Stilton, il famoso amico roditore.
Il libro si intitola “ Che avventura stratopica, Stilton! Alla scoperta dei diritti dei ragazzi” ed è pubblicato da Piemme: un progetto di grande valenza etica ed educativa: “Sentivo l'esigenza di rendere più accessibile una materia per tanti versi ingarbugliata, fredda, mentre i diritti dei bambini e degli adolescenti sono materia calda, perchè ogni giorno ci si misura con il disinteresse se non la violazione. Il libro verrà dato ai più giovani, li aiuterà a credere in certi valori a cominciare dalla dignità individuale e dal rispetto dovuto agli altri e richiesto per se stessi” ha, infatti, dichiarato il Garante e il “topo” ha aggiunto: “ Quando il Garante italiano mi ha chiesto il suo aiuto mi frullavano i baffi dall'emozione! Così sono volato a Roma, per seguirlo nel suo importantissimo lavoro. Alla fine abbiamo scritto insieme questo libro, per spiegare quello che è stato fatto e quello che c'è ancora da fare per permettere ai ragazzi di vivere e crescere in modo sano e consapevole. Perchè un mondo migliore, dove i diritti sono garantiti, è possibile solo se facciamo squadra e ci impegnamo tutti insieme!”.

Chi fosse interessato a ricevere una copia gratuitamente del libro, può rivolgersi all'Autorità Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza, Via di Villa Ruffo, 6 – 00196 Roma, scrivere all'indirizzo segreteria@garanteinfanzia.org, oppure contattare il Garante sul suo profilo Facebook www.facebook.com/spadafora.vincenzo.


Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rigths of the Child), approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989.

Costruita armonizzando differenti esperienze culturali e giuridiche, la Convenzione enuncia per la prima volta, in forma coerente, i diritti fondamentali che devono essere riconosciuti e garantiti a tutti i bambini e a tutte le bambine del mondo.


Essa prevede anche un meccanismo di controllo sull’operato degli Stati, che devono presentare a un Comitato indipendente un rapporto periodico sull’attuazione dei diritti dei bambini sul proprio territorio.

La Convenzione è rapidamente divenuta il trattato in materia di diritti umani con il maggior numero di ratifiche da parte degli Stati. Ad oggi sono ben 193 gli Stati parti della Convenzione.

La Convenzione è composta da 54 articoli e da due Protocolli opzionali sui bambini in guerra e sullo sfruttamento sessuale).


Sono quattro i suoi principi fondamentali:
 
 
a) Non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tutti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino/adolescente o dei genitori.


b) Superiore interesse (art. 3): in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l'interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità.

c) Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino (art. 6): gli Stati decono impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei bambini, anche tramite la cooperazione tra Stati.

d) Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.

L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991 e ha fino ad oggi presentato al Comitato sui Diritti dell'Infanzia quattro Rapporti.

Costruita armonizzando differenti esperienze culturali e giuridiche, la Convenzione enuncia per la prima volta, in forma coerente, i diritti fondamentali che devono essere riconosciuti e garantiti a tutti i bambini e a tutte le bambine del mondo.

Essa prevede anche un meccanismo di controllo sull’operato degli Stati, che devono presentare a un Comitato indipendente un rapporto periodico sull’attuazione dei diritti dei bambini sul proprio territorio.

La Convenzione è rapidamente divenuta il trattato in materia di diritti umani con il maggior numero di ratifiche da parte degli Stati. Ad oggi sono ben 193 gli Stati parti della Convenzione.

La Convenzione è composta da 54 articoli e da due Protocolli opzionali sui bambini in guerra e sullo sfruttamento sessuale).


Sono quattro i suoi principi fondamentali:
a) Non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tutti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino/adolescente o dei genitori.
b) Superiore interesse (art. 3): in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l'interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità.

c) Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino (art. 6): gli Stati decono impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei bambini, anche tramite la cooperazione tra Stati.

d) Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.

L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991 e ha fino ad oggi presentato al Comitato sui Diritti dell'Infanzia quattro Rapporti.