domenica 31 agosto 2014

Anche Desmond Tutu lancia un appello per la Palestina






L'Arcivescovo Emerito Desmond Tutu, in un articolo in esclusiva per Haaretz, ha lanciato un appello, chiedendo con urgenza a israeliani e palestinesi di essere migliori dei loro leader, nel cercare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa. Riproponiamo il pezzo per chi lo avesse perso.


Di Desmond Tutu

Originale pubblicato su
http://www.haaretz.com/opinion/1.610687 - Traduzione realizzata dalla Comunità di Avaaz.
Le scorse settimane hanno visto una mobilitazione senza precedenti della società civile di tutto il mondo contro l'ingiustizia e la brutalità della sproporzionata risposta israeliana al lancio di razzi dalla Palestina.
Se si contano tutte le persone che si sono radunate lo scorso fine settimana a Città del Capo, a Washington DC, a New York, a Nuova Delhi, a Londra, a Dublino, a Sidney ed in tutte le altre città del mondo per chiedere giustizia in Israele e Palestina, ci si rende subito conto che si tratta senza dubbio della più grande ondata di protesta di sempre dell'opinione pubblica riguardo ad una singola causa.
Circa venticinque anni fa, ho partecipato a diverse grandi manifestazioni contro l'apartheid. Non avrei mai immaginato che avremmo rivisto manifestazioni tanto numerose, ma sabato scorso a Città del Capo l'affluenza è stata uguale se non addirittura maggiore. C'erano giovani e anziani, musulmani, cristiani, ebrei, indù, buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi... come ci si aspetterebbe da una nazione viva, tollerante e multiculturale.
Ho chiesto alla gente in piazza di unirsi al mio coro: "Noi ci opponiamo all'ingiustizia dell'occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all'indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei."
Pochi giorni fa, ho chiesto all'Unione Internazionale degli Architetti, che teneva il proprio convegno in Sud Africa, di sospendere Israele dalla qualità di Paese membro.
Ho pregato le sorelle e i fratelli Israeliani presenti alla conferenza di prendere le distanze, sia personalmente che nel loro lavoro, da progetti e infrastrutture usati per perpetuare un'ingiustizia. Infrastrutture come il muro, i terminal di sicurezza, i posti di blocco e gli insediamenti costruiti sui territori Palestinesi occupati.
Ho detto loro: "Quando tornate a casa portate questo messaggio: invertite la marea di violenza e di odio unendovi al movimento nonviolento, per portare giustizia a tutti gli abitanti della regione".
In poche settimane, più di 1 milione e 600mila persone in tutto il mondo hanno aderito alla campagna lanciata da Avaaz chiedendo alle multinazionali che traggono i propri profitti dall'occupazione della Palestina da parte di Israele e/o che sono coinvolte nell'azione di violenza e repressione dei Palestinesi, di ritirarsi da questa attività. La campagna è rivolta nello specifico a ABP (fondi pensionistici olandesi); a Barclays Bank; alla fornitura di sistemi di sicurezza (G4S), alla francese Veolia (trasporti); alla Hewlwtt-Packard (computer) e alla Caterpillar (fornitrice di Bulldozer).
Il mese scorso 17 governi della UE hanno raccomandato ai loro cittadini di astenersi dal fare affari o investimenti negli insediamenti illegali israeliani.
Abbiamo recentemente assistito al ritiro da banche israeliane di decine di milioni di euro da parte del fondo pensione olandese PGGM e al ritiro da G4S della Fondazione Bill e Melinda Gates; e la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti ha ritirato una cifra stimata in 21 milioni dollari da HP, Motorola Solutions e Caterpillar.
Questo movimento sta prendendo piede.
La violenza genera solo violenza ed odio, che generano ancora più violenza e più odio.
Noi sudafricani conosciamo la violenza e l'odio. Conosciamo la pena che comporta l'essere considerati la puzzola del mondo, quando sembra che nessuno ti comprenda o sia minimamente interessato ad ascoltare il tuo punto di vista. È da qui che veniamo.
Ma conosciamo anche bene i benefici che sono derivati dal dialogo tra i nostri leader, quando organizzazioni etichettate come "terroriste" furono reintegrate ed i loro capi, tra cui Nelson Mandela, liberati dalla prigione, dal bando e dall'esilio.
Sappiamo che, quando i nostri leader cominciarono a parlarsi, la logica della violenza che aveva distrutto la nostra società si è dissipata ed è scomparsa. Gli atti di terrorismo iniziati con i negoziati, quali attachi ad una chiesa o ad un pub, furono quasi universalmente condannati ed i partiti responsabili furono snobbati alle elezioni.
L'euforia che seguì il nostro votare assieme per la prima volta non fu solo dei sudafricani neri. Il vero trionfo della riappacificazione fu che tutti si sentirono inclusi. E dopo, quando approvammo una costituzione così tollerante, compassionevole e inclusiva che avrebbe reso orgoglioso anche Dio, tutti ci siamo sentiti librerati.
Certo, avere un gruppo di leader straordinari ha aiutato.
Ma ciò che alla fine costrinse questi leader a sedersi attorno al tavolo delle trattative fu l'insieme di strumenti persuasivi e non violenti messi in pratica per isolare il Sudafrica economicamente, accademicamente, culturalmente e psicologicamente.
A un certo punto - il punto di svolta - il governo di allora si rese conto che preservare l'apartheid aveva un costo superiore ai suoi benefici.
L'interruzione, negli anni '80, degli scambi commerciali con il Sud Africa da parte di aziende multinazionali dotate di coscienza, è stata alla fine una delle azioni chiave che ha messo in ginocchio l'apartheid, senza spargimenti di sangue. Quelle multinazionali avevano compreso che, sostenendo l'economia del Sud Africa, stavano contribuendo al mantenimento di uno status quo ingiusto.
Quelli che continuano a fare affari con Israele, che contribuiscono a sostenere un certo senso di "normalità" nella società Israeliana, stanno arrecando un danno sia agli israeliani che ai palestinesi. Stanno contribuendo a uno stato delle cose profondamente ingiusto.
Quanti contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele, dichiarano così che Israeliani e Palestinesi in eguale misura hanno diritto a dignità e pace.
In sostanza, gli eventi accaduti a Gaza nell'ultimo mese circa stanno mettendo alla prova chi crede nel valore degli esseri umani.
È sempre più evidente il fallimento dei politici e dei diplomatici nel fornire risposte e che la responsabilità di negoziare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa ricade sulla società civile e sugli stessi abitanti di Israele e Palestina.
Oltre che per le recenti devastazioni a Gaza, tante bellissime persone in tutto il pianeta - compresi molti Israeliani - sono profondamente disturbate dalle quotidiane violazioni della dignità umana e della libertà di movimento cui i Palestinesi sono soggetti a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Inoltre, la politica Israeliana di occupazione illegale e di costruzione di insediamenti cuscinetto in una terra occupata aggrava la difficoltà di raggiungere in futuro un accordo che sia accettabile per tutti.
Lo stato di Israele si sta comportando come se non ci fosse un domani. Il suo popolo non potrà avere la vita tranquilla e sicura che vuole - e a cui ha diritto - finché i suoi leader continueranno a mantenere le condizioni che provocano il conflitto.
Io ho condannato quanti in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi contro Israele. Soffiano sulle fiamme dell'odio. Io sono contrario ad ogni manifestazione di violenza.
Ma dobbiamo essere chiari che il popolo palestinese ha ogni diritto di lottare per la sua dignità e libertà. È una lotta che ha il sostegno di molte persone in tutto il mondo.
Nessuno dei problemi creato dagli esseri umani è irrisolvibile, quando gli esseri umani stessi si impegnano a risolverlo con il desiderio sincero di volerlo superare. Nessuna pace è impossibile quando la gente è determinata a raggiungerla.
La Pace richiede che israeliani e palestinesi riconoscano l'essere umano in loro stessi e nell'altro, che riconoscano la reciproca interdipendenza.
Missili, bombe e insulti non sono parte della soluzione. Non esiste una soluzione militare.
È più probabile che la soluzione arrivi dallo strumento nonviolento che abbiamo sviluppato in Sud Africa negli anni '80, per persuadere il governo della necessità di modificare la propria linea politica.
Il motivo per cui questi strumenti - boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti - si rivelarono efficaci, sta nel fatto che avevano una massa critica a loro sostegno, sia dentro che fuori dal Paese. Lo stesso tipo di sostegno di cui siamo stati testimoni, nelle utlime settimane, a favore della Palestina.
Il mio appello al popolo di Israele è di guardare oltre il momento, di guardare oltre la rabbia nel sentirsi perennemente sotto assedio, nel vedere un mondo nel quale Israele e Palestina possano coesistere - un mondo nel quale regnino dignità e rispetto reciproci.
Ciò richiede un cambio di prospettiva. Un cambio di mentalità che riconosca come tentare di perpetuare l'attuale status quo equivalga a condannare le generazioni future alla violenza e all'insicurezza. Un cambio di mentalità che ponga fine al considerare ogni legittima critica alle politiche dello Stato come un attacco al Giudaismo. Un cambio di mentalità che cominci in casa e trabocchi fuori di essa, nelle comunità, nelle nazioni e nelle regioni che la Diaspora ha toccato in tutto il mondo. L'unico mondo che abbiamo e condividiamo.
Le persone unite nel perseguimento di una causa giusta sono inarrestabili. Dio non interferisce nelle faccende della gente, ha fiducia nel fatto che noi cresceremo ed impareremo risolvendo le nostre difficoltà e superando le nostre divergenze da soli. Ma Dio non dorme. Le Scritture Ebraiche ci dicono che Dio è schierato dalla parte del debole, dalla parte di chi è senza casa, della vedova, dell'orfano, dalla parte dello straniero che libera gli schiavi nell'esodo verso la Terra Promessa. Fu il profeta Amos che disse che dobbiamo lasciar scorrere la giustizia come un fiume.
La giustizia prevarrà alla fine. L'obiettivo della libertà del popolo palestinese dall'umiliazione e dalle politiche di Israele è una causa giusta. È una causa che lo stesso popolo di Israele dovrebbe sostenere.
Nelson Mandela disse che i Sudafricani non si sarebbero potuti sentire liberi finché anche i Palestinesi non lo fossero stati.
Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina libererà anche Israele.


sabato 30 agosto 2014

Per i bambini e i ragazzi armeni

Un viaggio in Armenia è un viaggio spirituale e culturale: geopolitica, archeologia, Storia, Natura e Fede si intrecciano, ci avvolgono, arricchiscono.
Le persone, poi, sono gentili e ospitali, magari non immediatamente, ma se si ha la capacità di farsi conoscere e la volontà di capire, aprono i loro cuori e i sorrisi.
Grazie ad un nostro caro amico, Elias, siamo stati invitati presso il centro estivo Our Lady of Armenia, un centro per bambini e ragazzi orfani o che vivono in povertà, che si trova a Tsaghkadzor. Qui i giovani sono seguiti da molti operatori volontari in attività ludiche, ricreative e sportive. Il centro è un'occasione, per questi ragazzi, di studio, di socializzazione, di crescita. Inutile dirvi che sono ben accette donazioni. Se credete di sostenere questo luogo così importante, potete scrivere alle mail: diramer@armeniansisters.org, diramer@ozone.am oppure visitate il sito www.armeniansisters.org

E adesso un po' di foto per voi!













 

Il bacio di Lampedusa



Un'altra indicazione letteraria per voi, cari lettori: vi proponiamo il romanzo intitolato Il bacio di Lampedusa, di Mounir Charfi, editore Castelvecchi. 


Il testo si apre con l'inizio di un'avventura: la ricerca di un libro antico, che tratta di alchimia. Il libro era appartenuto al padre del protagonista e ora questi, per ritrovarlo, deve viaggiare tra il sud della Tunisia e le coste francesi. Ma l'avventura e la fantasia affondano le proprie radici nella stretta attualità: Chafir, infatti, è un medico di professione - qui alla sua opera prima di narrativa - e con questo romanzo poetico, onirico, metaforico vuole raccontare l'odissea dei tanti migranti che sono costretti a lasciare i Paesi d'origine per cercare rifugio in Europa.

Scritto poco prima dello scoppiare delle rivoluzioni arabe, il testo ne anticipa le motivazioni e le speranze (a volte disilluse): parla di uomini, donne e bambini che lottano, scappano e chiedono giustizia e diritti tutelati. Come afferma lo stesso autore, il romanzo è un “libro kamikaze” nel senso che intende far saltare ogni barriera tra culture, religioni e politiche. La fantasia, infatti, è messa al servizio della realtà; l'atto creativo può essere un atto di ribellione, un gesto autentico di liberazione. Ecco, allora, che l'alchimia consiste nell'abbattere le frontiere - come Frontex, come Shenghen - ma anche quelle barriere che stanno dentro i cuori e che impediscono veri e concreti processi si accoglienza e di inclusione.

La finzione letteraria parla di un bacio, un bacio immaginario tra due continenti, tra la sponda Nord e quella Sud dello stesso mare; un bacio tra due città, Marsiglia e Algeri, che si fondono per diventare “Malgeri” e si fanno simbolo della volontà di capirsi e di accettarsi. Perchè il mondo torni ad essere uno spazio aperto, libero e pacifico. Per tutti.

venerdì 29 agosto 2014

Risarcimento ai detenuti reclusi in condizioni inumane







È stato approvato, nei giorni scorsi, in prima lettura alla Camera il disegno di legge che prevede il risarcimento in favore dei detenuti reclusi in “condizioni inumane” e ulteriori interventi in materia penitenziaria tesi a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario.

Il decreto risponde a un obbligo assunto dall’Italia al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 5 giugno 2014 e scaturito dalla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nel quale è stabilito che «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti» (va ricordato che la violazione dell’articolo 3 è alla base di numerose decisioni di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo relative alle condizioni di detenzione).

Con la sentenza-pilota «Torreggiani contro Italia» dell’8 gennaio 2013 la Corte europea ha certificato il malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano accertando, nei casi esaminati, la violazione dell’articolo 3 della Convenzione a causa della situazione di sovraffollamento carcerario in cui i ricorrenti si sono trovati. La Corte ha ordinato alle autorità nazionali di approntare, nel termine di un anno dalla data in cui la sentenza in questione sarebbe divenuta definitiva, le misure necessarie che avessero effetti preventivi e compensativi e che garantissero una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario in Italia.

Come abbiamo già evidenziato in altri nostri post, Il problema dell’eccessivo numero di detenuti rispetto alla dimensione delle carceri nazionali si trascina nel nostro Paese ormai da molti anni e questa emergenza torna ciclicamente a impegnare l’attività parlamentare.
Soltanto negli ultimi anni, mentre la capienza degli istituti è sostanzialmente migliorata (49.461 posti al 30 giugno 2014) a seguito, soprattutto, di interventi di ristrutturazione di padiglioni esistenti, si registra – anche grazie a numerosi interventi legislativi – una netta tendenza alla diminuzione delle presenze, fino ad arrivare ai 58.092 detenuti di oggi. Ci sono però ancora 8.631 detenuti in eccedenza rispetto ai posti previsti (sovraffollamento del 17%).


Il decreto votato dalla Camera interviene su diversi aspetti della questione carcere. Ad esempio, il decreto inserisce nell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) il nuovo art. 35-ter, con il quale si introducono rimedi risarcitori per i detenuti reclusi in “condizioni inumane”. In particolare:

1) Sconti di pena: è previsto un abbuono di 1 giorno ogni 10 passati in celle sovraffollate, se la pena è ancora da espiare.

2) Rimborso in denaro: spetta un rimborso di 8 euro per ogni giornata in cui si è subito il pregiudizio per i casi in cui:

la pena sia stata già scontata (la richiesta, in questo caso, va fatta entro 6 mesi dalla fine della detenzione);

il residuo di pena da espiare non permette l’attuazione integrale della citata detrazione percentuale (perché, ad esempio, sono più numerosi i giorni da “abbuonare” a titolo di risarcimento che quelli effettivi residui da scontare);

il periodo detentivo trascorso in violazione dell’art. 3 CEDU sia stato inferiore a 15 giorni;

il pregiudizio di cui all’art. 3 CEDU sia stato subito in custodia cautelare non computabile nella determinazione della pena.

La competenza per l’adozione di tali provvedimenti è in capo al magistrato di sorveglianza, che procede su istanza del detenuto (o del difensore munito di procura speciale). Da qui al 2016 per i risarcimenti saranno disponibili 20,3 milioni di euro.

Inoltre, viene modificato l’articolo 275 del codice di procedura penale, sui criteri di scelta delle misure cautelari, in modo da limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere. In presenza di una prospettata sospensione condizionale della pena, il nuovo testo del comma 2-bis conferma la norma, ma specifica che a non poter essere applicata è la misura della custodia cautelare “in carcere o quella degli arresti domiciliari”, volendo con tale specificazione far sì che risultino escluse dall’ambito applicativo della nuova disposizione la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri e la custodia cautelare in luogo di cura.

Viene poi stabilito il divieto di custodia cautelare in carcere in caso di pena non superiore ai 3 anni. In altri termini, se il giudice ritiene che all`esito del giudizio la pena irrogata non sarà superiore ai 3 anni, per esigenze cautelari potrà applicare solo gli arresti domiciliari. La norma non vale però per i delitti ad elevata pericolosità sociale (tra cui associazione mafiosa e terrorismo, omicidio, incendio doloso boschivo, rapina ed estorsione, furto in abitazione, stalking e maltrattamenti in famiglia) e in mancanza di un luogo idoneo per i domiciliari (un’abitazione o altro luogo di privata dimora ovvero un luogo pubblico di cura e assistenza o una casa famiglia protetta).

Vengono introdotte norme di favore per i minori estese anche agli under 25 (art. 5): le norme di favore previste dal diritto minorile sui provvedimenti restrittivi si estendono a chi non ha ancora 25 anni (anziché 21 come oggi). In sostanza, se un ragazzo deve espiare la pena dopo aver compiuto i 18 anni ma per un reato commesso da minorenne, l’esecuzione di pene detentive e alternative o misure cautelari sarà disciplinata dal procedimento minorile e affidata al personale dei servizi minorili fino ai 25 anni. Sempre che il giudice, pur tenendo conto delle finalità rieducative, non lo ritenga socialmente pericoloso.

Più magistrati di sorveglianza, maggiore efficienza del personale dell'amministrazione penitenziaria e controlli sull'edilizia penitenziaria: questi sono altri articoli previsti nel nuovo testo. Tutto ciò, in ragione delle particolari esigenze che caratterizzano l’attuale situazione carceraria.




giovedì 28 agosto 2014

L'appello per Gaza di MEDU, Medici per i Diritti Umani





Pubblichiamo anche noi l'appello ufficiale di Medici per i Diritti Umani con preghiera di divulgazione. Grazie. 

Alla luce dei gravi danni subiti da ospedali, cliniche e dal personale medico nella Striscia di Gaza, Medici per i Diritti Umani-Israele invia una comunicazione urgente al Procuratore Generale e al Ministro della Difesa:

Devono essere adottate tutte le misure di sicurezza per evitare di colpire il personale medico e di mettere in pericolo le strutture sanitarie mentre continuano i combattimenti nella Striscia di Gaza.
Roma, Tel Aviv, 24 luglio 2014 – Medici per i Diritti Umani Israele (Physicians for Human Rights Israele – PHR Israele) ha inviato il 22 luglio una lettera al Procuratore generale e al Ministro della Difesa di Israele, denunciando i danni subiti da numerose strutture sanitarie e dal personale medico e le difficoltà di evacuare i feriti nel corso degli attacchi militari a Gaza. La lettera, firmata da Ran Cohen, direttore esecutivo di PHR-Israele e dagli avvocati Tamir Blank e Adi Lustigmanù, afferma “ci rivolgiamo a voi alla luce dei tanti, dei troppi danni subiti sia al corpo che allo spirito dal personale medico nonché alle strutture nella Striscia di Gaza”. La lettera si aggiunge ad altri comunicati che PHR-Israele e altre organizzazioni hanno diffuso per contestare la politica di attacco a Gaza, i danni all’ospedale al-Wafa, e sottolineare l’urgente bisogno di mettere in atto un meccanismo che regoli l’evacuazione dei feriti.
A causa degli intensi combattimenti nella zona della Striscia di Gaza è difficile raccogliere informazioni sul terreno, ma secondo i dati che PHR-Israele ha ottenuto da varie fonti, tra cui la sezione di emergenza del Ministero della Sanità Palestinese a Ramallah, che opera in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, al 21 luglio 2014 sono stati danneggiati, direttamente o indirettamente, cinque ospedali, sei cliniche e i centri di primo soccorso nella Striscia di Gaza, 23 membri del personale medico sono stati feriti e tre sono stati uccisi (l’elenco completo è compreso nella lettera). Il danno più recente è stato registrato ieri presso l’ospedale della Mezzaluna Rossa Shuhadat di Al-Aqsa a Deir Al-Balah, apparentemente a causa di un colpo diretto sull’ospedale. Questo attacco ha causato la morte di cinque persone (tra cui dei medici), ha ferito circa 70 persone, e ha causato importanti danni strutturali all’edificio e due ambulanze sono state colpite mentre evacuavano dei feriti.
PHR-Israele sottolinea che le Convenzioni di Ginevra garantiscono protezione alle strutture e al personale medico mentre svolgono il loro ruolo. L’Alta Corte di Giustizia israeliana ha detto, in merito a queste misure di protezione, che, anche nel caso in cui vi sia una preoccupazione ben fondata che la struttura medica venga utilizzata impropriamente, questa non consente una violazione radicale dei principi umanitari. “Va ricordato che per alcuni pazienti non ci sono le condizioni pratiche per spostarli in un’altra struttura, a ciò si aggiungono le difficoltà dei civili nella Striscia di Gaza per i quali talvolta non è possibile l’evacuazione a causa di Hamas o delle circostanze oggettive provocate dal conflitto. Infine deve essere sempre accertato che una determinata struttura sanitaria abbia effettivamente fatto parte delle attività militari e che vi sia una necessità militare immediata di colpirla”.
I numerosi casi di danneggiamenti riportati in questo comunicato sollevano gravi preoccupazioni sul fatto che l’esercito non stia operando secondo le norme del diritto internazionale, o intenzionalmente e per “ordini superiori” o per il fatto che le direttive riguardanti le strutture mediche non sono state inserite nelle linee guida o restano inapplicate sul terreno.
Alla luce di questo, e al fine di evitare ulteriori danni alle strutture mediche e ai membri del personale sanitario, PHR-Israele chiede che l’esercito cessi di impegnarsi in operazioni che mettono illegittimamente in pericolo il personale medico, e chiede che nelle linee guida vengano inseriti i divieti e le limitazioni che si applicano alle strutture mediche e al personale. Inoltre, PHR-Israele esige che avvenga un ripensamento immediato, e che l’esercito programmi le proprie azioni in modo da ridurre al minimo la possibilità di altri danni di questo tipo in futuro, e che venga fatta una revisione retroattiva e che si tenga conto dei danni già inflitti.


Per ulteriori informazioni: Lital Grossman, Spokeswoman, Physicians for Human Rights – Israel 052-3112136 media@phr.org.il
Ufficio stampa MEDU – 3343929765 / 0697844892


mercoledì 27 agosto 2014

Una radio all'interno di un carcere minorile




Non ci sto dentro” è una frase che i nostri ragazzi ripetono spesso, per esprimere l loro disagio, la la noia, la pigrizia: ma adesso è anche il titolo del documentario di Antonio Bocola (già pluripremiato per il lungoemtraggio Fame chimica) con cui ritorna a parlare di giovani, di adolescenti. O meglio, fanno sentire la loro voce grazie al mezzo cinematografico e alla radio.

Il film, infatti, racconta dell'idea di far nascere proprio una radio all'interno del “Beccaria”, l'istituto di pena minorile di Milano, attraverso la quale ragazzi e adulti si mettono in gioco. E così nel film: i detenuti parlano della loro quotidianità, ma anche dei loro sogni; gli adulti - gli operatori all'interno della struttura - raccontano il rapporto reciproco, le difficoltà, le conquiste.

Intelligente la scelta di regia di non riprendere mai i ragazzi in primo piano, ma di fare riprese di spalle, oppure a parti del corpo, in penombra per tutelare la privacy e garantire l'anonimato di chi ha sbagliato e sta affrontando un percorso di recupero. Attraverso la cinepresa, lo spettatore può entrare nel carcere, negli spazi esterni (come nelle comunità Kayros, Comunità Nuova, Arimo) e capire quali siano le opportunità proposte dal sistema di Giustizia minorile italiano.

Devo pagare per quello che ho fatto”, dice un ragazzo. E un altro: “ Adesso che ci sono tutti questi operatori intorno a me, bisogna sfruttarli”. Le ragazze sono più sfrontate dei maschi. Hanno tutti, italiani e stranieri, la possibilità di cambiare strada, di riscattarsi e il tempo è dalla loro parte.

Vogliamo riportare le parole di un operatore intervistato, il magistrato Fabio Tucci, già giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale dei Minori di Milano: “ Quando il minore compie un gesto antisociale ha superato un muro altissimo, quindi è in una situazione di disagio profondo al punto che il minore trova conveniente compiere un gesto antisociale che lo pone fuori da una situazione di consenso, ma è così spinto dalla paura dell'altro che deve necessariamente agire in modo antisociale. Quindi compiere un delitto viene vissuto dagli addetti ai lavori come un grido di aiuto del minore...Tendenzialmente il minore che realizza un comportamento antisociale è un minore tendenzialmente confuso, è un minore che ha avuto una suggestione da parte dell'ambiente, da parte della famiglia a comportarsi in un certo modo, a rubare qualcosa, e per la prima volta rischia di pagare le conseguenze per un gesto magari fatto altre volte ma non scoperto, per il quale non ha pagato nulla. Quindi è un minore che sta assaporando per la prima volta che i suoi punti di riferimento sono messi in crisi perchè c'è un altro punto di riferimento, quello del Tribunale per i minorenni, che sta provando a sostituirsi ad esso. Se il minore è confuso ha bisogno di chiarezza, allora vuo, dire che l'équipe educativa deve essere chiara e monolitica ai suoi occhi.

Quindi il vertice di questa struttura non può essere che il giudice perchè il minore ha chiaro che è il giudice che eventualmente può irrogare la sanzione penale, la privazione della libertà. Quindi è chiaro che lui deve trasferire il messaggio educativo in alternativa a quello detentivo.”

Ma ancora più incisive, e meno tecniche, sono le parole di Don Gino Rigoldi: “ Uno dei comportamenti meno insegnati oggi è la fiducia, la relazione, i legami, gli amori”: e questo si commenta da sé.


Il film è stato riconosciuto di interesse educativo dal Ministero della Giustizia – Dipartimento di Giustizia Minorile





Abbiamo intervistato per voi Antonio Bocola che ringraziamo molto

Quando nasce l'idea di una radio all'interno di un istituto minorile e cosa rappresenta (Se ci puoi dire dove possiamo ascoltarla) ?

Alcuni anni prima della realizzazione del film, con l’ Avv. Giuseppe Vaciago e alla Onlus Suonisonori, un’agenzia esterna che opera all’interno di tutte le carceri del milanese con progetti relativi alla musica, ho ideato e coordinato la nascita di un Laboratorio Cine TV.
In quel laboratorio ha preso corpo l’idea di realizzare un film al “Becca”.
La realizzazione del film è stata costellata di mille problematiche da risolvere, considerati i molti limiti del caso. Uno dei problemi da risolvere era quello di avere, con una certa regolarità, la possibilità di intervistare i ragazzi detenuti. L’idea che ho messo in campo è stata quella di realizzare con l’aiuto, ancora una volta, di Suonisonori, un laboratorio Radio dove i ragazzi tra un pezzo e una dedica, moderati da una coppia di giovani conduttori radio, avevano modo di parlare in libertà.
Ovviamente lo studio Radio era un set del mio film e tutto avveniva sotto l’occhio di un paio di telecamere.
L’ esperienza del laboratorio radio quindi, è l’idea portante della messa in scena del film.
Il prodotto degli incontri erano dei file audio in “podcast” che venivano caricati su dei lettori mp3 personali che sono stati distribuiti a tutti detenuti.
Le vigenti leggi impediscono qualsiasi trasmissione in diretta dal carcere.

Come avete raccontato il progetto ai ragazzi e come hanno reagito alla proposta?


In carcere, i ragazzi per la maggior parte reagiscono positivamente o addirittura entusiasticamente a molti degli stimoli esterni qualificati e riconoscibili, che hanno a che fare con l’immaginario collettivo mainstream. La figura del DJ è senz’altro uno di quei casi. Tanto più sapendo che c’era un film di mezzo e che loro avrebbero potuto dire qualsiasi cosa protetti dall’anonimato.
Quindi in un “casting” di di ragazzi e ragazze tra gli aderenti, insieme agli operatori del carcere, abbiamo scelto un gruppo di ragazzi e un gruppo di ragazze. Sebbene pochi erano quelli coinvolti direttamente nel laboratorio radio, nel racconto del Beccaria, anche tutti gli altri ragazzi e operatori sono stati in qualche modo coinvolti, con una buona risposta generale.

Com'è la quotidianità che emerge dai racconti dei giovani reclusi? E gli adulti come si relazionano con loro?
La vita in carcere, a partire dall’assenza della libertà è certamente una grossa novità nella vita del ragazzo. Regole, ritmi scanditi, le attività educative, la scuola (molti ragazzi, soprattutto stranieri non ci sono mai andati prima), entrano nella loro vita. Ma la cosa principale che accade è l’incontro, forse per la prima volta, con un mondo adulto molto distante da quello che hanno conosciuto fino a quel momento. Un mondo adulto variegato, che esprime la sua “paternità” nel giudice, cioè colui che commina non una pena, ma un tempo necessario al recupero del ragazzo. Migliore sarà la risposta del ragazzo, più breve sarà quel tempo necessario. La scuola e le attività educative esprimono l’aspetto “materno” di questa inedita occasione di confronto, messa in discussione del ragazzo e della sua crescita.
Per alcuni dei ragazzi ci sono delle alternative al carcere? Possono, ad esempio, entrare in comunità? E ci puoi raccontare qualche esperienza?

L’ingresso in carcere, per esempio, per un minorenne italiano, con l’esclusione dei delitti più gravi, non è scontato.
Dopo l’arresto il minore viene condotto al CPA Centro di Prima Accoglienza, che è una struttura para-carceraria, dove il minore viene custodito per un tempo minimo, fino all’istituzione del processo. Il giudice, per un primo reato, se è presente un nucleo familiare, per la maggior parte dei casi commina delle prescrizioni o delle limitazioni parziali della libertà. Nei casi più gravi oppure nel caso dei minori stranieri senza la tutela dei genitori, i ragazzi vengono accompagnati a passare del tempo deciso dal giudice, presso le comunità.
Solo nel caso il percorso presso la comunità fallisca o per la recidiva o l’aggravamento su reati specifici come l’evasione, apre le porte del carcere. In buona sostanza gli italiani reclusi, per la maggior parte provengono da un contesto familare problematico e con una lunga carriera “criminale” mentre gli stranieri, spesso vengono privati della libertà al primo reato.


Le persone che hai incontrato che cosa si aspettano dal futuro?
Senza pretesa di scientificità e spero con una forchetta meno pessimista di quella che vedo, molti ragazzi italiani difficilmente riusciranno a dare una traiettoria differente al loro tracciato di vita. In molti casi saranno ospiti del carcere per gli adulti, a cui aspirano come segno di “evoluzione” nella gerarchia di riferimento. In altri casi per fortuna sempre di più, si hanno dei pieni recuperi e delle nuove prospettive di vita. Forse questi sarebbero sempre di più, se ci fosse un apertura delle occasioni di formazione e lavoro dei ragazzi e un accompagnamento all’autonomia, in un percorso post carcerario. Molti casi sono commoventi ed eclatanti, come il ragazzo che è diventato un fotografo di successo u un’altro che ora fa il poliziotto privato. Ricordiamo che il processo penale minoraile, se di successo, prevede l’annullamento del reato.

martedì 26 agosto 2014

Terra di transito: l'odissea dei profughi dalla realtà allo schermo




Molti sanno - ma tanti no - che il Regolamento di Dublino obbliga i richiedenti asilo a restare nel primo Paese in cui arrivano dopo essere scappati dal proprio. Nel documentario Terra di transito - del regista Paolo Martino, presentato con grande successo al Bif&st, il Festival internazionale del Film di Bari - si racconta, in particolare, il viaggio di Rahell, fuggito dalla Siria, ma non solo: si parla anche di accoglienza, di legislatura, di speranze e disillusioni.


Abbiamo intervistato per voi Paolo Martino che ringraziamo molto per la sua disponibilità.




Quali sono le direttive del Regolamento di Dublino?



Nella sua struttura diabolica, in realtà, la Convenzione di Dublino è molto semplice perchè di fatto impone ai rifugiati (migranti forzati, persone che fuggono da guerre o persecuzioni) di fermarsi nel primo Paese d'ingresso all'interno dei confini dell' UE. Questo perchè il regolamento stabilisce che il Paese competente per valutare la domanda d'asilo è il primo Paese in cui il rifugiato mette piede e ciò comporta che Paesi come l'Italia, la Grecia o la Spagna, soggetti ai flussi migratori più di altri, siano quelli in cui vengono fatte più richieste d'asilo.


Quali sono le aspettative dei profughi e dei rifugiati in Italia? E con quali difficoltà si scontrano?


I rifugiati - anche provenienti da Paesi diversi – hanno una maggiore consapevolezza, ormai è abbastanza noto che in l'Italia non è un Paese in cui è facile costruirsi un futuro, mettere radici, cercare soluzioni ai problemi da cui si fugge. I rifugiati, spesso, arrivano già con l'idea di andare via dal nostro Paese. L' Italia ha problemi strutturali, dal punto di vista economico e sociale, che vanno peggiorando, quindi questo scoraggia i rifugiati a cercare qui una soluzione ai loro. Tuttavia, per il regolamento di Dublino, sono obbligati a restare da noi, almeno finchè non ottengono l'asilo e la possibilità di spostarsi, ma soltanto per periodo molto brevi.

Quando si ottiene l'asilo, non si ha automaticamente un riconoscimento pari a quello della cittadinanza (anche se formalmente dovrebbe essere così); in realtà, attraverso un documento che si chiama “titolo di viaggio”, loro non possono cercare lavoro, avere assistenza sanitaria, etc. e quindi possono viaggiare, ma per brevi periodi, altrimenti dovrebbero restare a carico di qualcun altro.


Ci può raccontare una storia emblematica?


Nel film partiamo da un discorso corale e poi scremiamo fino ad arrivare a Rahell. La sua storia spicca, ma è una storia molto comune.

La sua famiglia fugge dall'Iraq negli anni '90 e si radica bene in Svezia, nel lavoro e nella società. Più tardi anche lui scappa prima dall'Iraq per ragioni politiche e poi anche dalla Siria (a causa della guerra di oggi) ; è un musicista, una persona molto esposta e questo, in un Paese governato da un regime, può diventare un pericolo. Nel momento in cui arriva in Europa, in Grecia, non gli vengono prese le impronte digitali, però impiega lo stesso un anno per arrivare in Italia: un viaggio difficilissimo nell'Adriatico. Sbarca in Puglia e qui gli prendono le impronte e rimane bloccato. Siamo riusciti ad arrivare in Svezia, ma solo per pochissimi giorni e per girare il documentario, ma adesso Rahell vive in Italia.


Quali sono le differenze tra l'Italia e i paesi del Nord Europa in termini di “accoglienza” ai rifugiati?


Quando parliamo di rifugiati facciamo spesso confusione rispetto al loro status economico, politico e culturale.

I rifugiati non sono persone che fuggono dalla povertà. Spesso si portano dietro un bagaglio anche molto ricco di conoscenze e, quindi, sono persone facilmente inseribili nella società e nel mondo del lavoro. Sarebbe importante - prima di parlare di accoglienza - comprendere la situazione di queste persone perchè potrebbero arricchire, con la loro esperienza, il Paese in cui arrivano.

L'Italia ha perso clamorosamente questa occasione, non ha compreso il fenomeno e lo ha amministrato solo con numeri e statistiche. Gli altri Paesi, quelli del Nord Europa come la Germania ad esempio (che accoglie quasi 1 milione di rifugiati, mentre l'Italia 50-60.000), hanno captato questa possibilità e hanno unito la loro storica tradizione di socialdemocrazie all'apertura verso lo straniero. Questo in Scandinavia, Olanda, Belgio, Francia.

In Svezia i rifugiati vengono immediatamente inseriti in programmi di formazione linguistica e professionale, partendo dalla persona, per capire le sue attitudini e così queste persone, in pochissimi mesi, riescono a restituire quello che lo Stato investe su di loro. La seconda parte di Terra di transito testimonia proprio questo: intervistiamo tre ragazzi palestinesi che fuggono da Damasco, i quali si sono inseriti in questi programmi e, a distanza di un anno, lavorano...e pagano le tasse. Intervistiamo anche una ragazza curda che è diventata un' esponente di spicco del Partito socialista svedese...


Cosa avete voluto raccontare e denunciare, quindi, con questo lavoro?


Denunciamo il paradosso evidente di un'Italia che, da una parte, continua a livello propagandistico a proclamarsi “terra di invasione” da parte degli stranieri e, dall'altra, accetta l'arrivo degli coatto dei rifugiati.

Io e Rahell stiamo continuando a seguire storie ancora in evoluzione perchè vogliamo fare proprio una campagna su questo argomento.


lunedì 25 agosto 2014

La Cattolica per i piccoli siriani



Un progetto ludico-ricreativo dell’Unità di ricerca sulla resilienza con Fondazione L’Albero della Vita per accogliere i minori in fuga dalla Siria che transitano dalla stazione centrale di Milano. Il contributo degli studenti-volontari dell’ateneo



Arrivano ogni giorno alla stazione Centrale di Milano. Sono minori siriani, quasi sempre con la famiglia, in transito dal luogo dello sbarco in Italia verso i paesi del Nord Europa. A Milano sono di passaggio e restano mediamente cinque giorni nella speranza di raggiungere, grazie all’aiuto di conoscenti o parenti, Paesi europei che idealmente offrono maggiori opportunità di lavoro. La situazione all’arrivo in stazione è difficile e pericolosa a causa di traffici illeciti, offerte di passaggi clandestini che tolgono ai profughi i pochi soldi rimasti, e della mancanza di beni di prima necessità come cibo, vestiti, un riparo per la notte.



Il progetto “Emergenza Siria”, promosso dalla Fondazione
L’Albero della Vita Onlus e dall’Unità di ricerca sulla resilienza dell’Università Cattolica insieme al Centro di Ateneo per la Solidarietà internazionale (Cesi), è nato a ottobre 2013 con l’esplodere dell’emergenza, per dare sostegno ai minori siriani sempre più numerosi in arrivo sul territorio milanese e accolti presso i centri di accoglienza di via Aldini e via Salerio, gestiti rispettivamente dalla Fondazione Progetto Arca e dalla Cooperativa Farsi Prossimo per conto del Comune di Milano. Qui lavora un gruppo di operatori volontari, studenti dell’Università Cattolica e studenti arabi iscritti a diverse facoltà degli atenei milanesi, appartenenti al gruppo Swap (Share With All People). Questa associazione studentesca nata in seno all’Università Cattolica e guidata dal docente di lingua araba Wael Farouq, si propone di favorire uno scambio interculturale tra studenti provenienti da ambienti diversi.



In questi centri sono stati attivati spazi ludico-creativi per i bambini, dove si svolgono attività specifiche di sostegno e recupero della quotidianità nel momento transitorio. Da ottobre ad oggi questi centri sono stati frequentati da 2200 bambini. Ogni giorno si lavora con un numero di ragazzi, tra i 5 e i 14 anni, variabile tra 10 e 40 per ogni centro, anche se spesso sono presenti bambini dai 2 anni di età, a cui sono proposte attività specifiche più adatte a loro. Le fasi del progetto, partito nei giorni scorsi e attivo sicuramente fino a metà ottobre, sono quattro.



La prima prevede un percorso di formazione gestito dall’Unità di resilienza della Cattolica rivolto a tutti i volontari coinvolti nel progetto, sulla base dell'esperienza maturata nell'ambito di progetti di sostegno psicosociale di minori siriani rifugiati in Libano e Giordania e di altri progetti condotti con minori in contesti di emergenza (Gaza, Haiti, Abruzzo, Molise, Sri Lanka, Cile, Cambogia, Pakistan...). La seconda fase consiste nell’attivazione di un intervento ludico-creativo in uno spazio dedicato, predisposto dall’Albero della vita, dove l’Unità di resilienza mette a frutto le competenze psicologiche e le conoscenze maturate nel corso dei tanti progetti elaborati in situazioni di emergenza.A questo segue l’attivazione di un percorso laboratoriale di promozione della resilienza condotto da studenti e tirocinanti della Cattolica. L’ultima fase è quella di ricerca, strettamente legata alle attività dei laboratori: utilizzando anche questionari, indaga i fattori che permettono ai bambini di superare in modo positivo i propri vissuti ed è finalizzata ad individuare buone pratiche educative e psicologiche di sostegno alla crescita. Una volta analizzati i risultati dell’indagine si procederà con un aggiornamento della formazione dei volontari che collaborano al progetto.



In particolare le attività ludiche utilizzano principalmente il disegno e la manualità, attraverso lavori che richiedono, oltre ai pennarelli e alle matite colorate, l’utilizzo di colla e carta crespa. Tutti questi strumenti contribuiscono a individuare le paure e le difficoltà incontrate dai bambini a fronte degli aiuti e della protezione che hanno ricevuto; a scoprire le risorse interne che aumentano l’autostima e la condivisione con gli altri; a percepire la propria storia attraverso ricordi positivi e negativi e a esprimere sogni e desideri per una rappresentazione positiva di sé nel futuro; a descrivere il periodo post migratorio e a rafforzare la propria identità culturale.



Nei momenti di attività nei due centri di accoglienza che si alternano tra mattina e pomeriggio da lunedì a venerdì sono presenti a turno 2 operatrici e 15 volontari de L’Albero della Vita e 2/3 studentesse e tirocinanti della Cattolica (facoltà di Psicologia e Scienze della formazione), accompagnate da un mediatore. I mediatori linguistici (9 in tutto, appartenenti al gruppo Swap) sono figure fondamentali in questo progetto perché la brevità del soggiorno dei profughi non consente un intervento approfondito e l’uso della lingua madre facilita la comunicazione immediata sia dei bisogni sia delle risposte.


SIRIA, LE CIFRE DI UN’EMERGENZA

Il numero dei profughi della guerra che dal marzo del 2011 sta dilaniando il Medio Oriente è allarmante: nel 2013, 10.552 siriani sono approdati sulle coste del nostro paese, di cui 3.523 minori. Solo da gennaio a maggio 2014 sono stati riscontrati 6.620 arrivi di cui 1.542 minori (364 non accompagnati). Gli ultimi dati del Comune di Milano parlano di 14.500 profughi siriani accolti da metà ottobre 2013 al 9 luglio 2014, di cui 10.500 negli ultimi due mesi e 3.836 bambini. Il 61% sono diretti in Scandinavia, il 26,5% in Germania e il 9,3% nei Paesi Bassi.

(Comunicato su www.unicatt.it)

venerdì 22 agosto 2014

Corso di formazione per attivisti rom e sinti



Ci è pervenuta questa comunicazione che pubblichiamo con piacere. Può interessare soprattutto chi vive a Roma.



Dopo l’esperienza di successo della prima edizione del Corso di formazione per attivisti rom e sinti, conclusasi lo scorso aprile con un’azione urbana di sensibilizzazione davanti al Colosseo, a Roma, ideata dagli stessi partecipanti, Associazione 21 luglio e il Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC) aprono le iscrizioni alla seconda edizione del Corso e invitano tutti gli interessati a presentare la propria candidatura.
Il Corso di formazione per attivisti rom e sinti, finanziato con l’otto per mille della Chiesa valdese, è rivolto a giovani rom e sinti, studenti o attivisti, di tutta Italia. Il Corso rappresenta un’eccellente occasione di scambio, confronto di idee ed esperienze, spunti di dibattito e di azione per i partecipanti.
Il Corso avrà una durata complessiva di 56 ore, suddivise in lezioni frontali che forniranno ai partecipanti le nozioni base, e in laboratori, dove i concetti teorici verranno messi in pratica. Il programma comprenderà i seguenti argomenti:
1) I diritti umani: concetto, principi e strumenti;
2) La
discriminazione;
3) La
comunicazione: strumenti utili per gli attivisti;
4) L’
attivismo: organizzare e coinvolgere la comunità;
5) Il
campaigning: ideare e attuare una campagna per ottenere un cambiamento;
6) L’
advocacy: strategie di pressione sulle autorità a livello locale, nazionale e internazionale;
7) La creazione di una
organizzazione/associazione rom;
8) Il diritto a un
alloggio adeguato;
9) Il
genere.
Lo scopo principale del Corso è la formazione di giovani rom e sinti che siano attivi e consapevoli, e che possano utilizzare gli strumenti e i meccanismi nazionali, regionali e internazionali per tutelare i loro diritti umani come singoli e quelli delle loro comunità, e lottare contro ogni forma di discriminazione.
Nel mese di settembre 2014 i candidati selezionati parteciperanno a un primo incontro di formazione, dove verrà verificata la loro motivazione e verrà fatta un’ulteriore selezione. Tra i partecipanti a questo incontro verranno selezionati 12 corsisti che proseguiranno il percorso formativo.
Gli incontri formativi in totale saranno 4, strutturati su due giornate (un weekend al mese), da settembre a dicembre 2014 e si terranno tutti a Roma.
I costi di viaggio, vitto e alloggio per i 12 corsisti selezionati sono totalmente a carico degli organizzatori.
Al termine del corso, i partecipanti riceveranno un attestato di partecipazione e i più meritevoli avranno la possibilità di svolgere un tirocinio retribuito della durata di 3 mesi presso la sede dell’Associazione 21 luglio a Roma. I restanti verranno assistiti e supportati nella ricerca e nella candidatura per altre posizioni di stage presso organizzazioni e/o enti.
Obiettivi del Corso
Il Corso di formazione per attivisti rom e sinti fa parte del programma dell’Associazione 21 luglio e dell’ERRC per sostenere e promuovere la
cittadinanza attiva all’interno delle comunità rom e sinte in Italia. Gli obiettivi primari del corso sono:
creare consapevolezza nei giovani rom e sinti riguardo i loro diritti come individui e come parte di una minoranza;
• sviluppare le loro conoscenze sugli
strumenti di protezione e promozione dei diritti umani e di lotta contro la discriminazione a livello nazionale (legislazione nazionale), regionale (Trattati Europei, altri meccanismi del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea) e internazionale (Trattati e meccanismi delle Nazioni Unite);
• rafforzare le capacità di monitoraggio, denuncia e difesa contro le violazioni dei diritti umani al fine di essere in grado di reagire immediatamente in caso di
violazioni dei diritti umani delle comunità rom e sinte;
• aumentare le abilità di
mettere in pratica i concetti appresi all’interno delle organizzazioni e delle comunità;
• promuovere una
rete di giovani attivisti rom e sinti in Italia che possa agire attivamente all’interno delle comunità e nei rapporti tra queste e l’esterno, sia tramite il rafforzamento dei legami con la società civile e con le organizzazioni rom/non rom, sia attraverso la creazione di azioni che coinvolgano le comunità nella lotta per i loro diritti.
Requisiti
I candidati dovranno:
• possedere una buona conoscenza della lingua italiana orale e scritta (il corso prevede la lettura di documenti e materiale didattico);
• avere un’età compresa tra i 18 e i 35 anni;
• possedere almeno un diploma di scuola media;
• dimostrare di essere individui attivi all’interno delle rispettive comunità;
• essere molto motivati e interessati alle tematiche trattate.

Si consiglia vivamente anche ai candidati che non dovessero soddisfare uno dei requisiti relativi all’età e alla formazione scolastica, ma che fossero molto motivati, di inoltrare la domanda di iscrizione. La loro domanda verrà comunque accettata con riserva e valutata attentamente dal comitato selezionatore.
L’Associazione 21 luglio e l’ERRC attribuiscono particolare valore e importanza alle candidature provenienti da membri delle comunità rom e sinte in Italia, in particolare ragazze e donne.
Procedura per la presentazione delle domande
I candidati dovranno presentare quanto segue per poter partecipare al Corso:
1. Modulo di iscrizione compilato -
Clicca QUI;
2. Curriculum Vitae (MAX 2 Pagg);
3. Lettera di presentazione da parte di un insegnante, professore, presidente o esponente di un’organizzazione, datore di lavoro o leader religioso che sia a conoscenza del lavoro del candidato e del suo impegno nel campo dei diritti di rom e sinti. La lettera dovrà spiegare la natura della relazione con il candidato, la durata della conoscenza reciproca ed evidenziare i principali motivi che rendono il candidato adatto a partecipare al Corso di formazione per attivisti rom e sinti.

Tutte le domande di iscrizione, corredate della documentazione di supporto completa, dovranno essere presentate tassativamente entro il 31 agosto 2014. Si invitano cordialmente i candidati a presentare le proprie domande di partecipazione prima di tale scadenza.
Le domande di iscrizione complete dovranno essere inviate per e-mail, come allegato, all’indirizzo attivismo@21luglio.org con oggetto: Corso di formazione attivisti rom/sinti – Nome Cognome. Oppure consegnate a mano, dopo aver contattato l’Associazione 21 luglio al numero 329 7922222, entro le ore 12 del 31 agosto 2014.
Le domande di iscrizione incomplete o pervenute in ritardo NON verranno prese in considerazione.
A causa dell’alto numero di candidature normalmente riscontrate, ci scusiamo di non potere fornire una risposta individuale a tutti. Qualora non si fosse contattati nell’arco di due settimane successive alla data indicata per il termine del bando, si prega di considerare ciò quale riscontro non positivo alla candidatura stessa. Si assicura infine il rispetto del trattamento dati sensibili a norma del Decreto Legislativo 196/2003.


Su carceri e tortura



Ringraziamo Patrizio Gonnella che ci permette di pubblicare questo suo testo già uscito sul suo blog di Micromega.



Nel 1948 è stata firmata solennemente da tutti gli Stati la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo L’articolo 5 afferma che: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti». Il termine ricompare all’articolo 3 delle quattro convenzioni di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra, cuore del diritto umanitario post-bellico. Il divieto è assoluto essendo assoluta la intangibilità della dignità umana.
Assolutezza ribadita dal Patto sui diritti civili e politici del 1966 delle Nazioni Unite il cui articolo 7 afferma che: «nessuno può essere sottoposto alla tortura, né a punizioni o trattamenti crudeli o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, a un esperimento medico e scientifico». Il successivo articolo 10 a sua volta afferma che: «Tutte le persone private della libertà devono essere trattate umanamente e con il rispetto dovuto alla dignità inerente all’essere umano».
Nel 1975 sempre in sede Onu viene promulgata la Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 2 si afferma perentoriamente che tutti gli atti di tortura costituiscono una offesa alla dignità umana. All’articolo 7 gli Stati membri dell’Onu sono invitati a prevedere al loro interno il delitto specifico di tortura. Una Dichiarazione nel diritto internazionale, però, è un atto privo di effetti vincolanti. Implica per gli Stati solo una doverosità morale.
Nel 1984 viene adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti. In questo caso la Convenzione, essendo un Trattato, vincola chi vi aderisce. E questo Trattato vincola ben 151 Paesi, quasi tutto il globo. L’articolo 1 della Convenzione del 1984 così definisce la tortura: «Ai fini della presente Convenzione, il termine ‘tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».
La tortura così come definita in sede Onu si compone dei seguenti quattro elementi: l’inflizione di una acuta sofferenza fisica e/o psichica, la responsabilità diretta di un funzionario dell’apparato pubblico, la non liceità della sanzione, la intenzionalità. E’ questa l’unica definizione di tortura universalmente riconosciuta.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dà vita negli anni 1993 e 1994 al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPIJ) e al Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR). Il contributo delle Corti ad hoc è stato comunque significativo per segnare la universalità della proibizione della tortura e la sua cogenza. La norma che vieta la tortura è ritenuta disposizione di natura consuetudinaria con radici lontane nel tempo e diffuse nello spazio. Nel caso Furundzija il TPIJ, proprio partendo dalla considerazione che la proibizione della tortura fosse norma di ius cogens, è giunto a sostenere una responsabilità diretta dello Stato nel caso di mancato adeguamento interno agli obblighi punitivi internazionalmente imposti.
Nel 1998 a Roma viene firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Vincola gli Stati che ratificano il relativo Trattato internazionale. Non più quindi una Corte ad hoc nata per giudicare crimini avvenuti in un dato contesto geografico prima della nascita della Corte stessa, bensì un tribunale permanente posto a protezione giudiziaria universale dei diritti umani. Tra i crimini contro l’umanità che la Corte deve perseguire vi è la tortura. Nel dicembre del 2002 viene elaborato e posto alla firma degli Stati il Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede un meccanismo
universale di controllo dei luoghi di detenzione.

Anche l’Europa vieta la tortura. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950 all’articolo 3 afferma perentoriamente che: «nessuno può essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il successivo articolo 15 sancisce che tale norma non trova eccezione neanche in caso di guerra. (Brani tratti da un mio libro del 2012, La tortura in Italia, ed. Derive Approdi).

In Italia la tortura non è ancora un reato. È inaccettabile, grave, vergognoso. La Camera sta discutendo un testo pieno di contraddizioni approvato dal Senato. In autunno andremo sotto il giudizio del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Chissà se per allora ci sarà uno scatto di reni delle forze politiche democratiche nel nome della dignità.




Lo Stato risponde della tortura dei suoi ufficiali se non ha il divieto nella sua legislazione.
Nel 1998 a Roma viene firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Vincola gli Stati che ratificano il relativo Trattato internazionale. Non più quindi una Corte ad hoc nata per giudicare crimini avvenuti in un dato contesto geografico prima della nascita della Corte stessa, bensì un tribunale permanente posto a protezione giudiziaria universale dei diritti umani. Tra i crimini contro l’umanità che la Corte deve perseguire vi è la tortura. Nel dicembre del 2002 viene elaborato e posto alla firma degli Stati il Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede un meccanismo universale di controllo dei luoghi di detenzione.

Anche l’Europa vieta la tortura. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950 all’articolo 3 afferma perentoriamente che: «nessuno può essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il successivo articolo 15 sancisce che tale norma non trova eccezione neanche in caso di guerra. (Brani tratti da un mio libro del 2012, La tortura in Italia, ed. Derive Approdi).
In Italia la tortura non è ancora un reato. È inaccettabile, grave, vergognoso. La Camera sta discutendo un testo pieno di contraddizioni approvato dal Senato. In autunno andremo sotto il giudizio del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Chissà se per allora ci sarà uno scatto di reni delle forze politiche democratiche nel nome della dignità.