sabato 31 ottobre 2015

I soldati di 38 unità delle forze armate greche: «Non partecipiamo alla guerra contro i migranti, non reprimiamo le lotte sociali»



carni lacerate dal filo spinato, bambini annegati sulle coste, affamati nelle piazze, folle accalcate che implorano per i loro documenti, …

Molti di noi hanno visto e hanno vissuto queste scene vergognose prima che arrivassero sulle prime pagine e nei telegiornali, sul fiume Evros e sulle isole, là dove ci hanno mandati per svolgere obbligatoriamente il servizio dell’assurdo. Lavoratori schiavi e contemporaneamente carne per i loro cannoni.

Queste scene ci scioccano, monopolizzano i nostri discorsi. Non vogliamo, però, che diventino routine. Come non ci siamo abituati e non riconosciamo i memorandum e le politiche anti-popolari, gli interventi imperialistici e le loro sporche guerre, così non accetteremo e non ci abitueremo al dramma dei profughi. È il dramma delle nostre genti, del nostro mondo, del mondo del lavoro, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione o dal sesso!

Il cosiddetto «aumento dei flussi migratori» è in realtà fuga dalla guerra e sradicamento. Non è un fenomeno naturale, ci sono dei responsabili. È la loro crisi capitalistica. Per far sì che passi, aboliscono i nostri diritti, ci lasciano nella fame, nella povertà, nella disoccupazione, nella nuova necessità di migrare. Sono gli USA, la NATO, l’Europa, la Cina e la Russia. Impongono i loro interessi economici con la paura e la morte, mantengono e resuscitano nuovi alleati e nemici, alimentano il fondamentalismo religioso. Sono le forze della periferia dell’impero (Turchia, Israele, Grecia, paesi Arabi), che inaspriscono gli antagonismi di quest’area.

Sono quelli che parlano di stati falliti e di popoli inferiori, quelli che affrontano gli uomini come spazzatura e fanno rastrellamenti, trasformando interi territori in discariche di persone e in dispense per il crudo sfruttamento! Uno solo è il nemico della classe borghese e dei suoi governi: i lavoratori, sia che si battano per i loro diritti, sia che si muovano senza documenti, anche se sono stati i loro interventi militari a portarli allo sradicamento. E inoltre, non sono i rifugiati a decidere dove andare: i flussi migratori vengono incanalati verso i moderni campi di concentramento, gli hot spot, perché i lavoratori scelgano dove essere sfruttati! Se ne libereranno, chiaramente, quando non avranno più bisogno di loro, o quando si azzarderanno a reagire, rimettendoli di nuovo sul mercato …

Lo stato greco e l’esercito sono parte del problema e non la soluzione. Il governo SYRIZA-ANEL continua la guerra al terrorismo, prende parte ai programmi imperialistici, combatte le «minacce non conformi» (migranti, movimenti sociali). Replica la falsa ripartizione tra profughi di guerra buoni e migranti economici cattivi. Le forze armate chiedono a noi, i soldati di leva, insieme a quelli in ferma stabile e agli ufficiali, di fare la guerra al «nemico interno», come nel caso recente dell’esercitazione PARMENIONE 2015! Al ciclo morte-sfruttamento-oppressione collaborano in armonia i “nemici” Grecia e Turchia, che pattuglieranno congiuntamente l’Egeo! Il fronte di guerra dell’Europa, per altro, comincia a Gibilterra e termina nell’Egeo, con Frontex con un ruolo preponderante.

Un sommergibile greco si unirà alla flotta europea che opera nelle acque territoriali libiche. La 16° divisione, sull’Evros, è in stato d’allerta per i migranti che arrivano da Edirne. Ci ordinano di esercitarci per reprimere le folle, come quando a Kos, dopo i drammatici eventi di Kalymnos, il generale ha richiesto che venisse dichiarato lo stato di emergenza e che fossimo mandati armati contro i migranti reclusi senza cibo né acqua. Facciamo la guardia a questa cortina assassina che è anche la ragione di tutti questi annegamenti nell’Egeo.

NON COMBATTIAMO, NON REPRIMIAMO, NON DIAMO LA CACCIA AI MIGRANTI.

Noi soldati in lotta siamo contro tutto questo, contro i loro crimini vecchi e nuovi.

Chiamiamo a un Movimento di massa, sia dentro che fuori l’esercito.

Per bloccare in ogni modo Frontex, la NATO e l’esercito europeo, l’azione delle forze armate in questo massacro continuo. Non partecipiamo alle ronde.

Aiutiamo ad abbattere le cortine e non a costruirne di nuove. Che nessun soldato salga sulle navi dirette in missione.

Navi, sommergibili e aeroplani facciano ritorno alle loro basi. Nessun supporto ai loro rifornimenti.

Rifiutiamo la trasformazione dell’esercito greco in un dispositivo capitalista, sia a discapito dei migranti che dei movimenti sociali. Non accetteremo di rimediare come «lavoratori volontari» alle carenze delle infrastrutture sociali. Per noi la minaccia non conforme sono la guerra dichiarataci contro dai governi e gli interessi che essi sostengono.

Chiediamo ai nostri colleghi non solo di mostrare pietà e compassione, ma anche di considerare i comuni interessi di classe. Sono le stesse istituzioni borghesi, le stesse politiche borghesi, gli stessi governi borghesi che distruggono anche i nostri sogni.

Quello che adesso vivono i profughi, la continua persecuzione da parte di dispositivi totalitaristici di ogni tipo, la lotta per la dignità e la sopravvivenza, il loro tragico presente, sono per molti di noi l’incubo di un presente e di un futuro che non dobbiamo vivere: lo stato del totalitarismo parlamentare con i collaboratori NAZISTI di Alba Dorata.

Sappiamo bene che le prossime rivolte vedranno gli sfruttati uniti o gli uni contro gli altri.

Non esiste oggi una solidarietà più pragmatica e un aiuto più grande a noi stessi che il colpire il male alle radici.

Siamo parte del moderno movimento dei lavoratori e contro la guerra, che può esistere solo attraverso un’ottica di classe, anticapitalista e internazionalista. Con la resistenza, l’opposizione, il rifiuto in toto del governo, dei dispositivi imperialistici, del mondo borghese dell’oppressione.

(seguono nel testo originale le sottoscrizioni dei soldati di 38 unità delle forze armate, n.d.t.)

RETE DI SOLDATI LIBERI “SPARTAKOS”

COMITATO DI SOLIDARIETA’ AI SOLDATI DI LEVA*


Traduzione di AteneCalling.org

http://atenecalling.org/comunicato-dei-soldati-di-50-unita-delle-forze-armate-greche-non-partecipiamo-alla-guerra-contro-i-migranti-non-reprimiamo-le-lotte-sociali/

L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI





Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



La resistenza attiva di un immigrato



Presentazione del documentario: “SEXY SHOPPING”

di Adam Selo e Antonio Benedetto





giovedì 5 NOVEMBRE, ore 19

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1 (ang Via G. da Cermenate, 2 MM ROMOLO) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del documentario “SEXY SHOPPING” di Adam Selo e Antonio Benedetto alla presenza dei registi e di Veronica Tedeschi, avvocato ed esperta del tema delle migrazioni.










Terrore albino


di Veronica Tedeschi
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 

Tre uomini con indosso il balaclava entrarono nella mia casa e mi attaccarono con un macete. Ho cercato di reagire ma fui sopraffatto. Mi misero una stoffa intorno al capo e un’altra in bocca per non farmi urlare. Scapparono via con un pezzo di carne preso dalla mia testa.”

Queste sono le parole pronunciate da Mohammed Said, ragazzo albino di 35 anni che vive in Tanzania, nella città di Mkuranga. L’evento in questione è avvenuto lo scorso 21 ottobre.

L’incubo vissuto da Mohammed è il tormento di un tanzaniano su venti.


L’albinismo è una malattia ereditaria consistente nella depigmentazione parziale o totale della pelle che comporta conseguenze alla vista e alla pelle stessa.


In alcuni paesi africani (Guinea, Tanzania, Costa D'Avorio, Burundi) l’incidenza di questa malattia è molto alta nella popolazione e gli albini in questione diventano oggetto di discriminazione e violenza.

L’ignoranza velata della popolazione africana ha portato alla creazione di credenze e superstizioni intorno alle persone albine che sono diventate oggetto di racket e scambi di denaro; le atrocità subite dalla persone affette da albinismo sono enormi. Attaccati in casa o per le strade, vengono mutilati e talvolta uccisi, perché il loro sangue e le parti del corpo sono usati per creare amuleti e talismani capaci, secondo alcuni, di portare fortuna negli affari e negli affetti.

A sostegno e difesa di queste persone Peter Ash ha fondato in Tanzania una Ong a supporto degli albini, con lo scopo di educare le persone locali organizzando corsi e incontri per avvicinare i diffidenti alla malattia. Under the same sun offre protezione e supporto e intercede con governi e istituzioni per la difesa delle persone affette da albinismo. 
 
 


Il problema principale di queste discriminazioni sta nel fatto che i veri protagonisti di questo racket sono gli stessi politici che dovrebbero ostacolarlo e questo è dimostrato dal fatto che le violenze aumentano nei cicli elettorali : "I governi - riferisce Ash - inizialmente hanno fatto finta di niente, poi, dopo sei anni di battaglie, hanno strappato qualche promessa rimasta ancora inattuata. In Guinea, Tanzania, Costa D'Avorio, Burundi e Suriname la percentuale degli attacchi aumenta in concomitanza alle elezioni politiche, tanto che in questo periodo le persone affette d'albinismo restano segregate in casa più del solito per evitare gli attacchi degli stregoni. Un altro problema è che questa credenza è davvero molto radicata. In alcuni villaggi, per esempio, si crede che gli albini non muoiano, ma spariscano, si dissolvano nel nulla.”

In questi ultimi anni, però, sono stati fatti due passi avanti molto importanti: è stata annunciata la giornata mondiale degli albini il 13 giugno, giorno in cui nello scorso 2013 è stata adottata all’unanimità la prima risoluzione che includeva sanzioni severe per gli stregoni e chiedeva ai paesi membri dell’Onu di proteggere i diritti umani degli albini. Anche Papa Francesco ha mostrato la sua vicinanza a questo problema abbracciando, per la prima volta nella storia della chiesa, un bambino affetto da albinismo.

“I have a dream that one day people with albinism will take their rightful place throughout every level of society, and that the days of discrimination against persons with albinism will be a faint memory - EVERYWHERE!” - Peter Ash, Founder & CEO Under the same sun.

 
 

venerdì 30 ottobre 2015

Gruppo GUE/NGL vota contro la Relazione d'Iniziativa Prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche



Bruxelles, 19 ottobre 2015

La Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento europeo ha votato a favore la Relazione d’Iniziativa Prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche, redatta dalla deputata francese del Partito Popolare Europeo Rachida Dati.



Il Gruppo GUE/NGL ha presentato 95 emendamenti alla versione iniziale della Relazione e ha lavorato, nel corso di tutto il processo che ha portato a questo voto, a stretto contatto con varie ONG che operano nel settore dei diritti fondamentali.

Barbara Spinelli, Relatore Ombra per il Gruppo GUE/NGL, ha dichiarato:

«Alcune delle nostre linee rosse sono purtroppo state integrate nel testo finale, come la richiesta di un maggiore controllo dei confini esterni dell'Unione, il rafforzamento delle Agenzie europee quali EUROPOL, la richiesta di una piena cooperazione con i paesi terzi, inclusa la Lega Araba, nonché l'impegno a lavorare verso la finalizzazione, entro la fine dell'anno, della Direttiva sul PNR europeo. Per il nostro Gruppo è altresì problematico l’approccio adottato riguardo alla prevenzione della radicalizzazione su internet, che prevede una responsabilità legale in capo alle società di internet e ai gestori di servizi di cooperare con le autorità degli Stati Membri al fine di cancellare i contenuti illegali su internet nonché il compito, per tali società, di promuovere, in cooperazione con le autorità, narrative positive. A cui si aggiunge la richiesta rivolta agli Stati Membri di istituire un’Unità Speciale volta a facilitare l'individuazione e l’eliminazione dei contenuti illegali su internet.

«In ogni caso il nostro Gruppo ha conseguito vari successi, come quello sull'introduzione di misure di prevenzione, tra cui i programmi educativi nelle prigioni volti al reinserimento dei detenuti e i programmi di supporto per i lavoratori in prima linea, finanziati attraverso investimenti sociali a lungo termine da parte degli Stati Membri. Abbiamo inoltre ottenuto miglioramenti riguardo al ruolo della scuola e dell'istruzione come strumento per prevenire la radicalizzazione attraverso la promozione di corsi di tolleranza e diritti umani, e abbiamo affrontato i fattori socio-economici che conducono a emarginazione chiedendo investimenti in progetti sociali e di vicinato volti a combattere l'emarginazione economica e geografica.

«Siamo riusciti infine ad ottenere l'adozione di una serie di richieste rivolte agli Stati Membri, ad esempio quella di implementare diligentemente gli strumenti dell'Unione Europea contro la discriminazione e adottare misure efficaci per affrontare la discriminazione, l'incitamento all'odio e i reati di odio, nonché incoraggiare gli Stati Membri ad adottare azioni immediate contro il sovraffollamento delle carceri, che continua ad essere un grave problema in molti Stati Membri.

«Per concludere, siamo riusciti ad evidenziare nel rapporto che una strategia per contrastare l'estremismo, la radicalizzazione e il reclutamento di terroristi all'interno dell'UE può funzionare solo se si sviluppa in parallelo ad una strategia di integrazione, inclusione sociale, reinserimento e de-radicalizzazione dei cosiddetti "combattenti stranieri rimpatriati"».



giovedì 29 ottobre 2015

Le nostre proposte al MUDEC, Museo delle Culture di Milano


martedì 3 novembre ore 17.30
"Pallidi segni di quiete": la quotidianità in terra di Palestina
con Monica Macchi, Cristina Dozio, Elena Santomauro, Alessandra Montesanto
a cura dell’Associazione per i Diritti Umani
www.peridirittiumani.com

“Pallidi segni di quiete” raccoglie i più bei racconti di Adania Shibli, la giovane scrittrice palestinese il cui primo romanzo (“Sensi”, Argo 2007) è già noto al pubblico italiano. Calando l’asciutta enunciazione di piccoli fatti quotidiani in un’atmosfera oscillante fra stupore e sgomento, Adania Shibli consegna al lettore un mondo drammaticamente incomprensibile. Da “Senza rami” a “Necrologio di un bravo professore del quartiere armeno” a “Pallidi segni di quiete” che dà il titolo alla raccolta, è un incessante succedersi di finestre che si spalancano su un universo bello e terribile, fissato da occhi inermi e spietati. I racconti sono stati tradotti dall’arabo sotto la cura di Monica Ruocco; il libro è stato pubblicato nel 2014 da Argo editrice.
Ne parlano Monica Macchi e Cristina Dozio, esperte del mondo arabo. Coordina Alessandra Montesanto, vicepresidente dell’associazione per i Diritti Umani.
L’attrice Elena Santomauro leggerà alcuni brani del testo in lingua araba e in italiano.
__________

martedì 24 novembre ore 17.30
Dare un calcio alla povertà… in Brasile
Proiezione del documentario “Avenida Maracanà” con l’intervento degli autori.
a cura di Associazione per i Diritti Umani 
www.peridirittiumani.com

Rio de Janeiro. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul Mondiale di calcio e le proteste ad esso legate, le gioie e i dolori di un paese per la propria Nazionale fanno da sfondo alle sofferenze e agli affetti di una famiglia che vive in una favela. L’occhio della macchina da presa documenta quello che accade, lo riprende, lo registra e ce lo mostra, senza filtri, senza parteggiare.
A presentare e commentare il documentario intervengono Stefano Bertolino, Anna Cordioli, Francesco Moroni Spidalieri, filmaker, registi e produttori. Coordina Alessandra Montesanto, vicepresidente dell’Associazione per i diritti umani e critico cinematografico.
__________

martedì 1 dicembre ore 17,30
Migrazioni: dall’attualità alla graphic novel
con Chiarastella Campanelli, Edda Pando, Alessandra Montesanto
a cura di Associazione per i Diritti Umani
www.peridirittiumani.com

Presentazione del libro di Jérôme Riullier “Se ti chiami Mohamed”, edizioni Il Sirente. Ispirandosi al giornalismo investigativo, Jérôme Riullier racconta di vite precarie, di frequenti umiliazioni, di una complessa tessitura di rapporti che i tanti Mohamed hanno mantenuto con il paese d’origine e con quello d’accoglienza. Racconti autentici, lontani dai cliché, di grande forza emotiva, che abbracciano vari temi, dalla ricerca identitaria all’integrazione, dall’esclusione sociale al razzismo, proponendo dubbi e interrogativi che coinvolgono oggi più che mai ogni cittadino europeo. “Se ti chiami Mohamed” ha ottenuto nel 2012 il dBD Award per il miglior fumetto reportage.
Chiarastella Campanelli, responsabile della casa editrice Il Sirente, spiegherà la scelta di tradurre e pubblicare questo testo che affronta i temi descritti attraverso la forma letteraria della graphic novel. Edda Pando, responsabile dell’associazione Arci Todo Cambia e attivista, si occuperà degli  aspetti più politici e giuridici legati ai temi delle migrazioni. Introduce e coordina Alessandra Montesanto, vicepresidente dell’Associazione per i Diritti Umani.

Le moschee segrete in Grecia - Hidden mosques in Greece

di Cinzia D'Ambrosi



Seguendo l'Imam della comunita' sudanese, sono arrivata davanti a due luoghi chiusi dalle autorita' greche. Mentre tentavo di leggere il foglio della polizia attaccato alla porta, una donna inizia a gridare contro di noi. Mi viene detto che non e' inusuale.
Hassan, un rifugiato dal Sudan dice: 'Le autorita' hanno chiuso la moschea. Ci hanno detto delle scuse. Ci hanno detto che i vicini hanno fatto denuncia per via della nostra musica. Non abbiamo mai suonato musica.'
Habiba, originaria del Marocco, dice: 'Talvolta entro in un negozio ed il proprietario mi grida di lasciare il negozio immediatamente perche' non servono donne con il foulard.'
Ci sono circa un milioni di musulmani in Grecia. Approssimativamente 600,000 musulmani vivono in Atene. Come tanti altri che risiedono in Europa, hanno difficolta' a praticare la loro religione. Vorrebbero praticare la loro fede in un posto ufficiale di culto, pero' non e' ammesso costruire una moschea in Atene ed in Grecia. Le comunita' musulmane sono costrette a pregare in posti segreti ed informali come, ad esempio, i garages.
 


A former garage underneath a building serves as an illegal mosque in Neos Kosmos, which it has been called Al Salam Mosque. Copyright: Cinzia D'Ambrosi.    
Questo luogo, che un tempo serviva come garage, e' stato trasformato in una moschea informale e 'segreta' (non apertamente annunciata) riferita come moschea Al Salam. Copyright: Cinzia D'Ambrosi


Alongside the Imam of the Sudanese community in Athens, I walked to two sites, basements garages, been shut by the Greek authorities. Even lingering outside the door of one of these sites, a woman started to shout at us. I was later told that this is not unusual.
Hassan, a refugee from the Sudanese community says: 'The authorities have closed the mosque. We have been given excuses. They told us that the neighbours complained of our music. We don't play music.'
Habiba, originally from Morocco, says 'Sometimes I am shouted at and told to leave the premises of a shop because I wear a head scarf''.
Anisur, from Bangladesh : 'Officials don' t make it easy for us. We are treated differently.'
There are around one million Muslims in Greece and approximately 600,000 Muslims who live in Athens. Like many who live in other European countries, face difficulties in practising their religion. They would like to express their faith through prayer in an appropriate place of worship, however there is no official mosque in Athens or Greece. Up until now, the Muslim communities are forced to pray in hidden informal spaces such as disused garages and basement spaces.





mercoledì 28 ottobre 2015

Gender l’inganno perfetto






 

Così una parola neutra diventa simbolo delle nostre paure:il saggio di Michela MarzanoMelania Mazzucco (da La Repubblica)

La parola gender divide. Ci sono parole che a forza di essere brandite come manganelli, innalzate come bandiere, finiscono per diventare esse stesse strumenti di aggressione, contundenti, perfino urticanti. Come molte parole straniere, fagocitate da una lingua altra che le assimila senza comprenderle e le utilizza senza spiegarle, esalano un’aura di autorevolezza e insieme di mistero, che ne giustifica l’uso improprio. Oggi può capitare che durante una pubblica discussione sulla scuola un genitore zittisca un docente agitando un foglio su cui c’è scritto “no gender”. Come alle manifestazioni in cui nobilmente si protesta contro le piaghe che minacciano l’umanità: no alla guerra, alla pena di morte, al razzismo. La perentorietà del rifiuto di qualcosa che non si saprebbe (né si intende) definire impedisce l’avvio di qualunque dialogo. Ma di che cosa stiamo parlando?
Lo scontro che negli ultimi tre anni è divampato intorno al gender in Italia (ma anche, in forme simili, in Francia) diventerà oggetto di studi di sociologia della comunicazione e psicologia delle masse. Ci si è riflettuto poco, finora, forse per sottovalutazione — o perché non si è stati capaci di comprendere quale fosse l’oggetto del contendere, né che riguardasse tutti, e non solo gli omosessuali. Chiunque si interessi della circolazione e della manipolazione delle idee non può non restare stregato e insieme spaventato dalla mistificazione perfetta che si è irretita intorno a questa parola, fino ad avvolgerla di una nebbia mefitica. E a occultare il vero bersaglio: la battaglia culturale, ma anche politica e legislativa, per «combattere contro le discriminazioni che subisce chi, donna, omosessuale, trans, viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».
L’ultimo libro di Michela Marzano,
Papà, mamma e gender , che esce per Utet, ci spiega come, quando e perché sia potuto accadere che una concezione antropologica sulla formazione dell’identità (sessuale, psichica, sociale) delle persone abbia aperto una “crepa”, una “frattura profondissima” nel nostro paese, e scatenato campagne di propaganda, informazione e disinformazione mai più viste da decenni. Fino a trasformare il gender in uno spauracchio, un fantasma cui chiunque può attribuire — in buona, ma anche in cattiva fede — il negativo delle proprie idee, della propria concezione dell’esistenza, e riversare su di esso pregiudizi, fobie e paure che si agitano nel profondo di ognuno di noi.
Ricordando con Camus che «nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo», Marzano assegna al libro innanzitutto questo scopo “didattico” (il volume è corredato di un glossario). Dunque gender è un termine inglese, la cui traduzione italiana è semplicemente genere. È entrato in lingua originale nel sistema della cultura universitaria perché delineava un campo di studi nuovo (gender studies) e perciò bisognoso di un proprio nome. Ma poi ha finito per riassumere l’insieme delle teorie sul genere — estinguendo ogni differenza e sfumatura, anche significativa.
Papà, mamma e gender è un libro smilzo, di agevole lettura, una bussola utile per orientarsi nel magma burrascoso di interventi, argomentazioni, polemiche, molte delle quali vanno alla deriva sulle onde del web. Alla confusione semantica e concettuale del dibattito — che mescola sesso, identità di genere e orientamento sessuale — Marzano oppone spiegazioni essenziali (“l’ABC”) che si potevano ritenere acquisite, e invece si sono scoperte necessarie. Si memorizzi ad esempio questa: «Quando si parla di sesso ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche fisiche, biologiche, cromosomiche e genetiche che distinguono i maschi dalle femmine. Quando si parla di “genere” invece si fa riferimento al processo di costruzione sociale e culturale sulla base di caratteristiche e di comportamenti, impliciti o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono troppo spesso con il definire ciò che è appropriato o meno per un maschio o per una femmina ».
È insieme un libro di storia culturale e di cronaca contemporanea, in cui le riflessioni sulla distinzione tra identità e uguaglianza, tra differenza e differenzialismo, si affiancano all’analisi del lessico di una petizione presentata in Senato per sostenere «una sana educazione che rispetti il ruolo della famiglia », le parole di Aristotele, Bobbio e Calvino vengono valutate come quelle di uno spot contro la perniciosa “ideologia gender”. È un libro di filosofia e auto-filosofia (se posso mutuare questo termine dalla narrativa): perché l’autrice non nasconde i propri dubbi (e la critica contro la corrente radicale del pensiero gender) e rivendica l’onestà intellettuale di dire come e perché è giunta a credere a certe cose piuttosto che ad altre. L’esperienza personale — chi siamo, come siamo diventati ciò che siamo — influenza e sempre indirizza il nostro modo di stare nel mondo. «Il pensiero non può che venire dall’evento, da ciò che ci attraversa e ci sconvolge, da ciò che ci interroga e ci costringe a rimettere tutto in discussione».
Gli essenzialisti affibbiano a chi non riconosce il dualismo tra Bene e Male l’etichetta di relativista etico. Ma l’etica non è relativa. Dovrebbe solo essere transitiva. Come Marzano, mi sono chiesta spesso come mai si possa temere che riconoscere ad altri i diritti di cui godono i più (alle coppie omosessuali di sposarsi o di avere e crescere figli) sia lesivo di questi. In che modo il matrimonio tra due persone dello stesso sesso possa sminuire quello di un uomo e di una donna, come una famiglia differente possa indebolire le famiglie cosiddette uguali. Non so rispondermi. Però mi viene in mente il finale visionario de
La via della Fame , il romanzo che lo scrittore nigeriano Ben Okri ha dedicato alla propria giovane nazione, tormentata dall’odio, divisa dai conflitti, e incapace di nascere. «Non è della morte che gli uomini hanno paura, ma dell’amore... Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel sogno. Un sogno può essere il punto più alto di tutta una vita». Ma ci occorre «un nuovo linguaggio per parlarci ». Ecco, forse abbiamo bisogno di una nuova parola. Lasciamo gender alle rivoluzioni antropologiche del XX secolo: il riscatto dei lavoratori, delle donne, dei neri, degli omosessuali. Le rivoluzioni sono irreversibili, nel senso che possono essere sconfitte, ma non revocate, e i principi che le accendono non tramontano. Troviamo un’altra parola per «sognare il mondo da capo».IL LIBRO Papà, mamma e gender, di Michela Marzano (Utet, pagg. 151 euro 12)


Diritti Lgbt, teatro e società

 
 
 
 




Uno spettacolo teatrale intitolato Assolutamente deliziose, di una delle autrici più trasgressive della scena britannica, Claire Dowie - interpretato da Flaminia Cuzzoli e Ottavia Orticello con la regia di Emiliano Russo – che ha debuttato al Teatro Due di Roma, con le tappe estive del Fontanone Estate XX Edizione e del Venus Rising Festival nella sezione Teatro del Gay Village Farm e presso il Teatro dei Filodrammatici che ha ospitato il Festival ILLECITE//VISIONI a Milano, ci permette di approfondire alcuni temi riguardanti la comunità Lgbt, i diritti delle donne e i rapporti di genere.



Per questo abbiamo rivolto alcune domande al regista e alle attrici che ringraziamo moltissimo per la disponibilità.



Rispondono Flaminia Cuzzoli (attrice), Ottavia Orticello (attrice) ed Emiliano Russo (regista)



Lo spettacolo veicola molti argomenti. Ad esempio: essere donna nella società contemporanea così contraddittoria e competitiva...


Esattamente. Nel raccontare i destini incrociati di queste due donne, cugine, coetanee, cresciute insieme, la Dowie ironizza su alcune stereotipate aspettative della società contemporanea in cui si imbattono le nostre protagoniste; aspettative in primis provenienti dall’ambiente domestico, quella serie di regole del “buon costume” cui le bambine sono chiamate a conformarsi. Attraverso una serie di slogan, cui l’autrice antepone la dicitura “IN RIFERIMENTO AD UNA ROUTINE DA COMMEDIA TRITA E RITRITA”, veniamo a confrontarci con queste norme comportamentali che diventano una sorta di sfottò al mondo dei genitori: sulla scena vediamo concretamente i nostri due personaggi A e B imitare l’intonazione e il linguaggio usato in particolar modo dalla madre di una delle due che le esorta a tenere la schiena dritta, non parlare a meno che non sia il proprio turno, non dire cose scortesi, non fare cose disdicevoli, comportarsi da signorine da brave ragazze, tenere le ginocchia unite per non far vedere le mutandine e così via. A questo segue l’elenco di una serie di passatempi in rosa che si considera essere “naturali” per le ragazzine come stare a casa a raccontarsi i segreti, parlare delle cose proibite del sesso, farsi maschere di bellezza per la pelle, andare a ballare, dare della sgualdrina ad un’amica. E come reagisce una donna, come si rapporta a questo bombardamento di convinzioni riguardanti l’essere “femmina”? Nel nostro spettacolo proponiamo due diversi modi, opposti ma complementari, due diverse strategie di sopravvivenza messe in atto dalle nostre A e B. La prima sviluppa un rifiuto totale del modello rappresentato da sua madre (da lei definita “casalinga che farebbe di tutto per una vita tranquilla eccetto combattere per i propri diritti) e, nel suo tentativo di non diventare ossessionata dal budino come lei, di non avere il suo stesso sguardo, i suoi stessi occhi, diventerà un “maschiaccio”, rifiutando di identificarsi in un “genere” definito, jeans maglietta capelli corti e sogni anarchici e anticapitalisti. La seconda, al contrario, trova nello status quo, nei soldi, nell’essere una donna in carriera di successo un modo per sentirsi amata e accettata dalla gente, utilizzando la sua bellezza e sensualità per garantirsi questa accettazione di cui ha disperatamente bisogno; non manca però un continuo influenzarsi a vicenda, una fusione della propria identità a quella dell’altra per tutta la vita, perfino a distanza quando B lascia l’Inghilterra per raggiungere sua madre in Australia. Finiranno entrambe per nascondersi dietro le rispettive ideologie, alla ricerca di un senso per le proprie esistenze, di qualcosa per cui lottare, per non sentire quella voce nella testa ripeterti “MIO DIO CHE FALLIMENTO. UN LAGNOSO, FRIGNANTE FALLIMENTO. TUTTO QUESTO, GUARDA, PENSI CHE PORTERA’ A QUALCOSA? PENSI CHE VALGA QUALCOSA? MIO DIO SEI STATA INGANNATA O COSA?  
 
 



Il rapporto raccontato dal testo affonda le radici nell'infanzia e nell'adolescenza delle protagoniste: quanto è importante quel periodo della vita per la formazione dell'identità dell'adulto ? Oppure la Natura fa il proprio corso al di là delle esperienze di vita?



Infanzia e adolescenza sono periodi fondanti per la creazione della propria identità. Se l’infanzia è un periodo in cui è possibile assorbire messaggi e insegnamenti dal mondo esterno senza ancora avere la piena capacità di giudizio e quindi di filtro nei confronti degli impulsi esterni, l’adolescenza è sicuramente il momento di presa di coscienza nella maturazione di un individuo. Oltre ad essere un periodo che racchiude le esperienze di crescita fondamentali per una persona, è il momento in cui si comincia a chiedersi chi si è, cosa si vuole. Crescere senza portare su di sé le tracce di ciò che ci circonda è forse un’utopia: dalla semplice relazione col mondo esterno in tutte le sue sfaccettature, come ad esempio il giudizio della società che impone e condiziona fortemente la persona in un periodo di grande confusione e di fragilità, al più fondamentale “microcosmo familiare” che soprattutto in età adolescenziale rappresenta per noi l’unico modo, l’unico punto di vista con cui vedere il mondo. Resta il fatto che noi non siamo il nostro passato, le nostre storie familiari, ma che possiamo scegliere dove portarCI o non portarCI in qualunque momento.



Quali sono le difficoltà nel poter vivere liberamente le proprie scelte affettive?

 

Dovrebbe suonarci quantomeno strano l’accostamento delle parola “difficoltà” con “vivere liberamente” e “scelte affettive”. Le scelte affettive riguardano le persone coinvolte in esse, sono qualcosa di privato che non dovrebbe trovarsi sottoposto al tribunale del giudizio altrui, love is love e vivere un sentimento non dovrebbe costituire un problema. In pratica poi, al di là dei “dovrebbe e non dovrebbe”, si verificano situazioni che ti fanno sentire in difficoltà. Ad esempio se vivi in una piccola città temi il “giudizio” della gente, temi che le loro chiacchiere possano creare disagio non solo a te stesso/a ma anche alla tua famiglia. Probabilmente ti crea disagio essere etichettato, imprigionato in opinioni parziali sulla tua persona, sulla tua individualità... ma i giudizi, le opinioni esterne sono sempre parziali, sommarie; è come se l’essere umano avesse bisogno di racchiudere il prossimo in definizioni per poterlo controllare, ciò che non si conosce spaventa, come in un gioco di specchi tra io e l’altro. Così tutti giudicano e lo fanno anche A e B. Si giudicano e criticano in continuazione per ogni piccola cosa. Alla fine è sempre una questione di “potere”, di chi ha il controllo. D’altra parte parlando specificatamente del nostro paese, di noi italiani, giudizi offensivi e critiche sono ancora abbastanza radicati per varie ragioni culturali probabilmente, ma soprattutto perché, per tanto troppo tempo, non si è stati costretti a RIconoscere l’esistenza di persone che si considerano LGBTQ: tutto doveva restare nelle quattro pareti domestiche delle nostre rassicuranti famiglie borghesi.




Quali sono i diritti delle/degli omosessuali ancora da affermare, in Italia?


Sicuramente va varata prima di tutto una legge contro l’omofobia. Nelle ultime settimane c’è stata un’escalation di violenze fisiche e psicologiche: dall’adolescente in Sicilia che si è tolto la vita, al ragazzo sbattuto fuori dall’aula dal proprio insegnante, alle aggressioni quotidiane. E la cosa veramente preoccupante è che talvolta i media non si preoccupano più di diffondere queste notizie - che circolano poi invece sui social causando grande indignazione e sgomento da parte di molti. Il fatto che davanti a questi eventi ci siano persone al potere che ancora si ostinano a dire che “l’omofobia non esiste” dovrebbe davvero lasciarci riflettere su chi tesse le reti delle nostre vite. Ma in fondo questa è solo una delle tante questioni problematiche che attanagliano l’Italia di oggi.



Cosa vorreste dire, attraverso questo testo teatrale, ai genitori di persone gay?


Non è un caso che il nostro primo progetto indipendente - di ex compagni di Accademia, oggi colleghi, che hanno in mente un viaggio da percorrere attraverso un’associazione di promozione sociale come la nostra Upnos - sia “Assolutamente Deliziose”. Se c’è una cosa che odiamo è il dover a tutti i costi definire gli altri, mentre crediamo nella persona, nel cercare di essere se stessi piuttosto che quello che si dovrebbe essere, o quello che si pensa di dover essere o quello che la gente ci dice di essere … A e B, le donne di Claire Dowie ci provano, cercano di sbarazzarsi delle etichette imposte dalla cultura, anche se l’esito non è garantito e si beccano sofferenza a palate. In quanto ai genitori cosa si può dire? Vi consigliamo una bella lettura da tenere sui vostri comodini: il Profeta di Gibran, un tale che ha parlato ai genitori, a tutti i genitori di tutti i figli.



I vostri figli non sono figli vostri... sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.
Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perchè la loro anima abita la casa dell'avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perchè la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.
Voi siete l'arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L'Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell'infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell'Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l'arco che rimane saldo.




martedì 27 ottobre 2015

I migranti e le “Iene”



Nell'ultima puntata della trasmissione “Le iene” è andato in onda un servizio che parla dei migranti che tentano di arrivare in Europa dalla Libia. Come sempre, lo stile che caratterizza il servizio è molto forte perchè i giornalisti o conduttori della trasmissione sono giovani, rampanti e diretti per cui testimoniano la realtà in maniera cruda. In questo caso, però, la scelta è efficace.


 

Ecco il link per vedere il servizio:







Carlos Pronzato: un regista militante in Sudamerica



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi il regista Carlos Pronzato: figlio di piemontesi, si è trasferito con la sua famiglia in Argentina. Viaggiatore e documentarista indipendente racconta, con i suoi lavori, l'America latina di oggi, i cambiamenti, le crisi, le conseguenze sulle popolazioni delle scelte economico-politiche del Nord del mondo. 
 
 



Ecco le sue parole. Ringraziamo moltissimo Carlos Pronzato per la sua disponibilità.



Il suo è stato definito un cinema "militante": è corretta questa definizione?

 

Questa definizione è in un certo senso corretta se riferita alla parte più rappresentativa della mia opera cioè la descrizione dei movimenti sociali attuali in costante lotta contro l’oppressione del capitale e degli Stati. Un cinema documentale fatto di interventi sociali e politici a lato dei movimenti insurrezionali in America Latina i cui protagonisti sono in maggioranza i militanti; da questo deriva l’espressione “cinema militante”, un cinema che beve alle fonti ispiratrici degli anni ‘60 ed è un riflesso di questa lotta che si estende fino ai giorni nostri, soprattutto nelle strade. Si può dire che è anche militante da un punto di vista economico giacchè è realizzato con un risorse minime attraverso l’appoggio di enti, organizzazioni e contributi di singole persone; e direi anche che forse è ancora più militante per l'abbandono consapevole di altre possibilità estetiche, diciamo così, di lavorare in un ambiente economicamente più vantaggioso, ma in questo modo il regista si prende un impegno politico con il suo tempo.



La sua è una famiglia di artisti: l'arte dei suoi genitori ha influito sulle scelte per il uo lavoro? L'estetica, gli argomenti, etc...



Certamente! L'influenza è stata totale, innanzitutto nel campo artistico, nella conoscenza e nel mondo dell’estetica alleata sempre alla sua funzione etica e sociale e come possibilità estetica e funzionale. Soprattutto nel campo del teatro, della letteratura e del cinema. In particolare nella questione cinematografica che sviluppo io, sono stati cruciali gli anni delle mie esperienze in molti Paesi dell'America Latina prima di stabilirmi in Brasile e anche l'influenza di uno dei film interpretato da mio padre, Victor Proncet, che è stato anche sceneggiatore e autore del racconto che ha dato origine al film: “I traditori” del regista desapararecido Raymundo Gleizer, regista e film icona del cinema politico di tutto il mondo.



E' vero che il Brasile sta vivendo una fase di crescita economica? E allora perché molti criticano il governo attuale?



Il Brasile ha attraversato un periodo di crescita economica spettacolare negli ultimi anni, ed è riuscito a superare i tempi duri dopo il 2008, ma adesso è entrato in una fase di recessione e nella crisi globale. Questo è un dato fondamentale anche per capire il rifiuto nella popolazione contro le indicazioni del governo del PT e la sua alleanza di mera governabilità con altri partiti (tra cui anche figure storiche della politica brasiliana) e non solo di centro-sinistra. Un governo socialdemocratico che ha saputo distribuire le prestazioni sociali durante i periodi positivi (ma in parallelo a questo è necessario registrare i profitti record delle banche e delle multinazionali presenti nel Paese), ma che si è allontanato dalle sue basi sociali e dai movimenti che gli hanno dato la possibilità di accedere al potere politico, mentre il potere economico resta intoccabile. Le critiche e le grandi mobilitazioni che ci sono ora in Brasile contro il governo sono espressioni di una disputa elettorale che punta al 2018, di contenuto politico molto basso, interpretato dai settori di una élite che ha perso i settori chiave dello Stato per il loro business e che ora sono manipolati da un altro gruppo politico. Nel mese di giugno 2013 ci sono state mobilitazioni molto più potenti ed esplosive nel contenuto socio-politico che puntavano molto oltre al governo di turno, puntavano a un sistema, a un ordine capitalistico che sembra immutabile e continua a distruggere il pianeta, come già successo in varie parti del mondo. Ma quelle manifestazioni di ribellione legittime e autentiche alla ricerca di qualcosa di nuovo continuano ad essere offuscate dalle marce costanti e padronali dal profilo elettorale. Qui si fa riferimento a una “elezione Fla-Flu” (squadre di calcio brasiliane molto popolari), come fosse una disputa calcistica.



In generale, quali sono i rapporti tra l'America latina e il Nordamerica (soprattutto per quanto riguarda l'accoglienza dei migranti) ?



Le relazioni tra l'America Latina e il Nord America, in termini di migrazione, sia obbligatoria che volontaria, sono molte. Entrambe le aree geografiche hanno ricevuto milioni di schiavi dall’ Africa, uomini e donne, che hanno costruito questi Paesi, e al di là dei loro contributi culturali e delle relazioni sociali, il razzismo ha avuto risposte diverse ma tutte terribili fino ad oggi, per la loro dignità. A proposito di gruppi provenienti da altri luoghi, me compreso, come discendente di italiani (padre italiano) e galiziani (madre nipote di galiziani), la loro presenza è stata determinante nella costruzione di un'identità (ancora in formazione) realizzata sulla distruzione dei popoli indigeni di entrambe le regioni. Questo è stato un incendio, letteralmente, ma bisogna prendere in considerazione anche gli aspetti culturali positivi. Qui, nel sud, ci sono tanti che difendono un’unificazione latino-indo-afro, unificando tutte le radici, le origini e le terre in cui vivono, ma ci sono anche altri che si palesano proprio nel campo economico e nel raggio d’azione americano. A seconda della vicinanza geografica agli Stati Uniti, questa influenza sarà maggiore o minore. Per alcuni, questa vicinanza, come ha detto una volta lo scrittore messicano Carlos Fuentes, non è così benefica: “Tanto lontani da Dio e tanto vicini agli Stati Uniti".



Perché ha deciso di raccontare, nei suoi film, le trasformazioni sociali del sudamerica?


Credo di aver risposto a questa domanda sopra quando ho fatto riferimento agli anni in cui sono vissuto in altri Paesi dell'America Latina. A quel tempo non mi dedicavo alle mie occupazioni attuali, ma certamente è stato un periodo di formazione, di osservazione sul campo, fondamentale per il mio processo di sviluppo estetico e penso soprattutto per la ricerca di un’etica che si trasformi in proposta di lavoro e di vita. Queste trasformazioni stanno procedendo con una dinamica esaustiva e col riconoscimento di determinati obiettivi specifici, la scelta di temi specifici da essere affrontati dal genere documentario è una decisione praticamente quotidiana. E soprattutto oggi, quando ogni azione politica è immediatamente postata sul web, il nostro mestiere e professione di documentaristi è affinare gli strumenti di originalità creativa per continuare a costruire narrazioni, esempi di lotta per tutti e soprattutto per coloro che dedicano la loro vita per salvaguardare i diritti inalienabili dell’Umanità, costantemente vilipesi dal capitale e dai suoi portavoce della politica istituzionale.

lunedì 26 ottobre 2015

Sisi, Mustafa e gli altri


di Monica Macchi



Per la festa dell’Eid el Adaa di quest’anno il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi ha graziato molti detenuti politici tra cui alcuni giornalisti di Al Jazeera e pochi giorni fa in un’intervista con Wolf Blitzer alla CNN ha detto “Non voglio esagerare, ma vi assicuro che l'Egitto gode di una libertà senza precedenti nei media”.



In realtà Bassem Youssef si è visto cancellare il suo spettacolo “Al-Barnamig” dopo un episodio sulle elezioni presidenziali con annessa una multa di 50 milioni di ghinee. Ora vive all'estero e non è tornato in Egitto neppure per il funerale del padre per paura di essere arrestato…e nel frattempo continua a essere denigrato come “traditore”. E molti altri giornalisti come Reem Magued, Yosri Fouda e Dina Abdel Rahman sono stati licenziati con l’accusa nemmeno tanto velata di aver criticato il governo mentre nell’ultimo anno numerosi giornali tra cui Al-Watan, Al-Masry Al-Youm, Sawt Al-Oma e Al-Sabah sono stati confiscati dalle autorità. Secondo le cifre fornite dal Sindacato dei giornalisti ci sono 32 giornalisti ancora in carcere, tra cui il fotogiornalista Shawkan di cui ci siamo già occupati qui. (http://peridirittiumani.blogspot.it/2015/01/mahmoud-abou-zeid-alias-shawkan-un.html).



Ma anche la tv è nel mirino: la serie “Il popolo di Alessandria” è stata cancellata, perché critica la polizia egiziana prima della rivoluzione del 25 gennaio. E non sono solo i giornalisti e gli scrittori (Belal Fadl su tutti) ad essere sotto controllo... Ahmed El-Merghany, è stato cacciato dalla sua squadra Wadi Degla per aver criticato Sisi sulla sua pagina di Facebook…ebbene ha dovuto pubblicamente chiedere scusa per tornare a giocare perché tutti i calciatori egiziani hanno attuato una sorta di boicottaggio rifiutandosi di averlo in squadra.


Ma ci sono anche sparizioni misteriose come quella di Mostafa Massouny, un video-maker scomparso dal 26 giugno dal centro del Cairo. I suoi familiari e amici non sono riusciti a trovarlo da nessuna parte, negli ospedali, negli obitori, nelle carceri e nelle stazioni di polizia ma hanno saputo che è stato “oggetto di indagine” da parte del NSA (Agenzia di Sicurezza Nazionale) presso la sede di Lazoghly Square. Il Ministero degli Interni nega qualsiasi coinvolgimento ma dice che “stanno indagando”. L’associazione Freedom for the Brave ha iniziato una campagna per far luce sul caso di Massouny sotto l’hashtag “Dov’è Massouny?” (# ماصوني_فين) documentando almeno 163 casi di sparizioni forzate e detenzione illegale da parte delle forze di sicurezza solo negli ultimi due mesi.
 
 
 

domenica 25 ottobre 2015

Un cortometraggio per parlare del tumore al seno




L’idea di Segni, nasce dalla voglia di raccontare delle storie di dolore nella fase di“rinascita”. Protagoniste del delicato racconto sono tre donne (Donatella Gimigliano, Monica Periccioli e Arianna Stabile), una narratrice e un’artista del mondo della musica.

La narratrice (Rita Dalla Chiesa), è colei che raccoglie la testimonianza di tre donne coraggiose, che hanno affrontato la violenza psicofisica del tumore al seno, il tutto con le musiche e le incursioni della cantante (Fiordaliso). Attraverso i loro racconti, in chiave di conversazione/confessione, scopriamo quello che le donne raramente dicono: il percorso che hanno dovuto affrontare (o che stanno affrontando), spesso da sole, per superare la dirompente violenza che il cancro esercita sul loro corpo, sulla loro mente e sulla loro vita. Cinque i punti cardine: combattere il male per riappropriarsi del proprio corpo e dell'equilibrio psichico, dei rapporti interpersonali (che spesso vengono meno), col resto della società e col mondo del lavoro. Riappropriarsi anche dei piccoli gesti quotidiani che fanno parte del mondo femminile, come truccarsi, scegliere un bel vestito per uscire, sistemarsi i capelli. Riprendere consapevolezza della propria femminilità, della bellezza che fa parte di ogni donna. Il simbolo che accompagna le nostre quattro protagoniste nei loro racconti è il fiore di camomilla. La camomilla rappresenta la forza e il coraggio nei momenti difficili, ma viene anche utilizzata in natura con un nobile scopo: travasandola accanto a piante malate, ha il potere di rinvigorirle.
Il cortometraggio si chiude con un'immagine allegra e serena: le donne protagoniste e la narratrice stringono in mano ognuna dei mazzolini di camomilla, e decidono di offrirli a noi, come gesto di forza e solidarietà per chiunque ne avesse bisogno.

Per un'anticipazione del corto:




sabato 24 ottobre 2015

Il potere della letteratura e i diritti umani

 
 
 
VI ASPETTIAMO NUMEROSI !!!!
 
 
 
 
 


 


I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità: la città oscura che non ha voce


Esistono da sempre due città, una legale e l'altra illegale, i cui confini si spostano a seconda delle epoche storiche e delle necessità economiche contingenti. Spesso gli abitanti di queste due città si sfiorano, interagiscono, confliggono. Sulle loro contaminazioni si costruisce il tessuto sociale. Quasi sempre gli abitanti della città oscura non hanno voce sui media ufficiali: sono un numero, una statistica o un titolo di giornale. I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, edito da Le Milieu, nasce dalla necessità di far parlare i protagonisti del disagio e della devianza che vivono e attraversano le nostre metropoli. Andrea Staid si è messo in ascolto delle voci della città oscura, senza pregiudizi.



L'associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande ad Andrea Staid e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.


 
 
 
 

Il suo testo parte dall'assunto che esistano due città: una legale e un'altra illegale. Da chi è popolata quella illegale e quali sono i problemi delle persone che la abitano ?



Negli ultimi anni mi sono interessato sempre di più agli abitanti che vivono ai margini delle nostre metropoli e quindi mi sono soffermato sul mondo dell’illegalità. E' importante indagare in quella giustapposizione di due mondi, o città, che coesistono ma si ignorano o meglio si guardano, nonostante la prossimità, da una distanza insuperabile - la città che si autoproclama legittima e quella più o meno invisibile dell'illegittimità, dell'immigrazione, della micro-criminalità, della prostituzione, della tossicodipendenza. Due città ovviamente, in una posizione profondamente diversa e asimmetrica ma che se ci pensiamo bene sono due facce della stessa medaglia, perché la città illegale non fa altro che rispondere a una domanda creata da quella città autoproclamatasi legittima e legale. Piccoli esempi per capirci meglio chi vende droga appartiene alla città illegale, ma chi la compra? Chi lavora in nero sfruttato fa parte della città illegale, ma chi gli ordina di lavorare? Ma soprattutto chi compra e consuma i prodotti da lui lavorati? Chi si prostituisce vive nella città illegale, ma chi va con le prostitute? La città illegittima è titolare di un offerta di servizi la cui clientela è costituita in gran parte da membri della società legittima.

I problemi invece all’interno della città illegale sono tanti, ovviamente sto parlando della microcriminalità, le regole nella criminalità organizzata sono molto differenti, io non le ho studite e quindi preferisco non parlarne. Nel mondo microcriminale, o anche solamente dell’illegalità creata dalle norme dello stato, come i migranti che non riescono ad avere il permesso di soggiorno, i problemi sono quotidiani, ma possiamo riassumerli tutti nella loro grande impossibilità di accedere ai diritti che sono garantiti agli abitanti della città legale, per esempio il diritto all’abitare, ai servizi sociali, insomma viene negata la possibilità di vivere una vita dignitosa.

 

Ci può anticipare il tema centrale del libro, ovvero il caso di Viale Bligny, a Milano?


Nel mio libro il palazzo di Viale Bligny 42 viene trattato come un caso specifico, precisamente nel quinto capitolo ho cercato di creare una ricostruzione etnografica di un palazzo sicuramente particolare di Milano quello che dalla stampa viene chiamato ingiustamente il fortino della droga, un palazzo della vecchia Milano, situato a pochi isolati dal centro cittadino, nella via che porta alla famosa Porta Romana e a pochi passi dall'università della giovane elites italiana, la Bocconi. In questo capitolo ho analizzato la quotidianità di una realtà meticcia nel cuore di Milano, ho cercato di farlo senza pregiudizi e attraverso il contatto diretto con chi vive e attraversa quel luogo. In questo palazzo ho trascorso un anno per conoscere e intervistare gli abitanti provenienti da tutto il mondo, stiamo parlando di uno stabile formato da 220 appartamenti per più di 700 abitanti. Un micro paese, una comunità che oggi è formata da migranti, anziani inquilini arrivati dal sud Italia, altri italiani che vogliono vivere spendendo poco in una zona centrale di Milano e ancora da studenti e artisti. Un palazzo dove sicuramente ci sono dei problemi ma dove un’associazione di condomini ha deciso di costruire dal basso percorsi di interazione tra culture diverse e soprattutto gli abitanti dell’edificio mondo hanno cominciato a risolvere i problemi della quotidianità occupandosene in prima persona.


Il suo è uno sguardo antropologico: quali sono le sue conclusioni sulle città contemporanee? Quali le esigenze dei cittadini? E gli errori da parte delle istituzioni (soprattutto in termini di accoglienza e immigrazione)?


E’ difficile con uno sguardo antropologico trovare delle conclusioni sullo stato delle città contemporanee perché sono sempre più un coacervo di culture in movimento. Quello che vedo forse peccando di estremo ottimismo è che la realtà, anche quella marginale trova soluzioni molto interessanti per migliorarsi e andare avanti, soluzioni che ovviamente non fanno notizia sui mass media che continuano imperterriti a narrarci un presente di crisi, scontri culturali e impossibilità. Basti pensare a questa narrazione sull’invasione dei migranti, è un falso, sono tante le donne, gli uomini e i bambini in arrivo, ma sono numeri che un paese come l’Europa potrebbe accogliere senza problemi, quello che servirebbe sarebbe una gestione del “comune” assai differente. Le risorse ci sono, il problema è che vengono gestite in modo sbagliato e che il primo pensiero di molti è lucrare sui i migranti, credo che Mafia capitale sia un’indagine che ci può insegnare molto.


Non ho chiaro fino a che punto l’antropologia possa estendere il suo linguaggio specifico per rappresentare adeguatamente i concetti che gli osservati hanno sviluppato e che hanno espresso. Probabilmente l’antropologia può riflettere la visione del mondo delle persone che studia ma non riesco ad averne l'assoluta certezza. Come scrive Clifford Geertz già al momento dell'esposizione dei fatti veri e propri noi stiamo dando spiegazioni; e, quel che è peggio, spiegazioni di spiegazioni. Per questo ha un senso affermare che la ricerca antropologica deve procedere secondo un progetto teorico e conoscitivo, il quale deve a sua volta essere identificabile attraverso un’impalcatura epistemologica fatta di teorie, concetti, nozioni, ipotesi e dati, e di un vocabolario sulla base dei quali sia possibile confrontare e porre in relazione esperienze e intenzionalità etnografiche ed esistenziali differenti. L’antropologia deve essere considerata un sapere attraverso cui sia possibile percepire una visione del mondo che consenta di comprendere tutti i possibili mondi culturali, di conoscere appunto, senza per forza riconoscersi.


Come si è svolta la ricerca che ha portato alla stesura di questo libro?


 
La mia ricerca è iniziata nel 2007 e ancora oggi non si è conclusa. Il metodo è quello della ricerca sul campo, un’osservazione partecipante, un metodo etnografico che negli anni sto cercando di affinare per trovare un equilibrio sempre più forte tra intervistato e intervistatore. Quello che cerco di fare quando faccio ricerca è immedesimarmi il più possibile cono la vita delle persone che voglio comprendere, analizzare, studiare, lo faccio passando periodi lunghi sul campo approfondendo i rapporti con le persone che voglio intervistare e conoscere. Sto molto attento all’uso di registratori e macchine fotografiche, capisco che mettono in soggezione e non faccio solo domande, mi racconto e vivo la quotidianità con i protagonisti delle miei ricerche. E’ importante però sottolineare che l'antropologo pur impregnandosi con i modi di fare dell'ambiente in cui si trova non si trasforma mai in un membro della comunità che studia, pensarsi un agente neutro o considerarsi sullo stesso piano dell'intervistato sarebbe un errore grave per il ricercatore, deve sempre comprendere che è impossibile astrarsi da quella che è la sua posizione diametralmente differente da chi vive quello che viene raccontato.

Nella mia ricerca nel mondo dell’illegalità ho scelto di rivelare subito la mia identità di osservatore, non mi sono finto cliente o giornalista, da subito era noto agli osservati quello che stavo facendo, per questo credo che la mia osservazione partecipante sia diventata nei mesi trascorsi una specie di action research che ha indotto riflessioni, dibattiti, discussioni e ha quasi costretto i soggetti osservati a prendere coscienza delle proprie dinamiche relazionali.


venerdì 23 ottobre 2015

Hate speech e libertà di espressione




Lo scorso 9 ottobre 2015, presso l'Università Statale di Milano, Dipartimento di Giurisprudenza, si è svolto un convegno, organizzato dall'ASGI, dal titolo: Hate speech e libertà di espressione: tanti gli ospiti che hanno animato i dibattiti e che hanno approfondito gli argomenti relativi al tema.

L'Associazione per i Diritti Umani ha seguito il workshop che ha riguardato il “Linguaggio d'odio nella rete e nei media”.

Il primo punto su cui si è discusso riguarda la precisazione secondo la quale l'odio non passa solo attraverso un FATTO, ma anche attraverso elementi extra giuridici come, ad esempio, gli strumenti tecnici che vengono utilizzati. Ecco perchè sono nati, negli ultimi tempi, molti progetti che monitorano proprio gli strumenti tecnologici a disposizione delle persone.

Gabriella Klein ha illustrato il progetto RADAR per dare ad avvocati, giudici, Polizia e associazioni strumenti adatti a regolare l'antidiscriminazione e l'antirazzismo. Il progetto fornisce delle guide con raccomandazioni che servono anche a livello europeo e che riguardano, spesso, anche i testi di legge. Per fare un esempio: in alcuni comunicati dell'Unione europea si usa il termine “razza”: viene specificato che il termine non è usato in senso genetico, ma non viene nemmeno specificato in che senso venga utilizzato e questo contribuisce a creare confusione. In Finlandia, invece, il concetto di “razza” non viene mai utilizzato, così come il suo derivato “razziale”.

Nell'analisi delle sentenze si evidenziano e si analizzano le parole, ma anche la comunicazione non verbale (i gesti) e le immagini per verificare che non passino messaggi discriminatori, così come risulta importante la comunicazione paraverbale, ovvero il tono di voce con il quale possiamo veicolare i significati che corrispondono a ciò che pensiamo veramente, ma anche quelli sottesi. Nelle sentenze italiane non si considerano mai questi fattori comunicativi, ma al limite, ci si sofferma ad analizzare solo le parole. Questi fattori, invece, sono importanti perchè la comunicazione crea le pratiche sociali e vanno analizzati nella loro complessità e nella loro dinamica – attraverso l'analisi della conversazione, molto usata in sociolinguistica – perchè permettono di vedere la reazione dell'Altro, soprattutto quando sono state fatte delle videoriprese (ci riferiamo, quindi, all'analisi dei talk show, delle pubblicità, delle conversazioni in rete, scritte e visive).

Un altro progetto interessante è stato esposto da Alessandra Giannoni del Cospe. Il progetto europeo si chiama BRICKS e si occupa di capire come le testate online gestiscono le interazioni degli utenti in tema di immigrazione e minoranze, puntando sull'Educazione ai media per promuovere un approccio critico.

In collaborazione con l'Università di Firenze, sono state raccolte – tra gennaio e marzo 2015 – interviste a testate giornalistiche online ed ad esperti (dell'Unar e della Carta di Roma): le conclusioni, ad oggi, dimostrano che l'utente denominato “AGGRESSIVO” è colui il quale scrive: “Io li conosco, ho la soluzione perchè sono armato” oppure “Non sono razzista, ma...” oppure “ Non sono ipocrita, dico quello che penso...”: in questi casi siamo nel campo dell'opinione e chi scrive o pronuncia questa frasi, sa di poterlo fare perchè ormai sono accettate e non vengono sanzionate. Per contrastarle e monitorare i discorsi d'odio si potrebbe intervenire sui toni con cui vengono detti e scritti oppure rispondere alle persone in maniera privata, convincendole a non insistere.

L'UNICRI, l'Unità di Prevenzione del Crimine e Giustizia penale ha realizzato un progetto, PRISM, di cui si è parlato sempre durante il convegno. La relatrice, Elena D' Angelo, ha esposto i risultati comparativi di un'indagine che si è verificata in 28 Paesi europei per la lotta contro i crimini e i discorsi d'odio online e sui nuovi media (i Paesi che hanno risposto all'indagine sono stati, però, 18).

Il punto di partenza: quanto il Diritto può essere utile? E' in parte necessario, le misure giuridiche sono utili, ma non sono sufficienti. Innanzitutto manca una definizione precisa di “discorso d'odio” e poi mancano le tecniche di indagine COMUNI a livello europeo: in alcuni Paesi le legislazioni sono ancora vaghe, mentre in altri sono talmente nuove che non riescono ad essere efficaci, come ad es. in Grecia o in Spagna.

Le segnalazioni sono fondamentali perchè aiutano anche a dare un quadro completo del fenomeno: non solo le denunce alla Polizia, dunque, ma sarebbe necessario implementare anche applicazioni sui cellulari oppure una nuova e precisa modulistica online.

Chiara Minicucci, di CITTALIA, ha presentato un'altra ricerca, sempre nell'ambito del progetto PRISM, sui gruppi che più si caratterizzano per i discorsi di odio e come si rapportano i giovani riguardo al tema. Emerge, in Italia, una presenza massiccia di gruppi di destra e di destra radicale che non ripudiano il fascismo e il colonialismo e nemmeno il razzismo e la violenza. Una domanda interessante, emersa dall'indagine, è: “Chi scrive sui social, potrebbe passare dalla scrittura ai fatti?” (Vedi il caso di Stormfont Italia)...

Infine si è parlato anche di antisemitismo e islamofobia, con Giulia Dessì di MEDIA DIVERSITY. In Italia, oggi, non si parla di antisemitismo, invece in altri Paesi europei la situazione è molto grave: si leggono ancora, infatti, frasi che riguardano l'uso del sangue dei bambini per riti religiosi, di complotto giudaico e di negazionismo della Shoà anche se nei media mainstream l'antisemitismo è meno frequente, in Europa, rispetto ad altre forme di razzismo o di islamofobia. A questo proposito, si tende a dipingere l'Islam come un blocco monolitico, come portatore di valori inconciliabili con quelli europei ed occidentali tramite la visione di uomini violenti e dediti al terrorismo. Le fonti di ricerca hanno visto le analisi dei servizi de “Il Giornale” o di “Fox news” dove, spesso, le immagini non corrispondono al testo.

Le azioni di contrasto suggerite da questo progetto sono: presentare esposti e denunce ai giornalisti, all'Ordine dei giornalisti e alle associazioni e agli organismi regolatori indipendenti (ad es. IPSO per l'Inghilterra).

Al termine dell'incontro è stato ribadito che il RAZZISMO è solo un fenomeno CULTURALE: tutte le teorie sul razzismo biologico hanno clamorosamente fallito.