lunedì 30 giugno 2014

La Palestina è sotto attacco

L'Associazione per i Diritti Umani aderisce al seguente appello:




La Palestina non solo è sotto attacco militare, il che preoccupa moltissimo per le vite dei palestinesi e la ulteriore perdite delle loro strutture.

La Palestina è sotto attacco da parte di Israele nella sua resistenza come realtà autonoma....

La Palestina è sotto attacco allo scopo di dimostrare la sua “impossibilità di esistenza”. Nel momento della riconciliazione tra le fazioni che governano nella Cisgiordania e a Gaza, un tentativo di unificare il territorio politico della Palestina, di trovare un’ autorappresentazione politica presso l’ONU, di liberare Gaza dall’assedio (reso ancor più insostenibile dal blocco alla circolazione di persone e beni da parte dell’Egitto di Sissi), di reclamare la illegalità della detenzione ed abduzione amministrativa di prigionieri e di difendere il territorio in Gerusalemme e nella Cisgiordania, di sviluppare una autonomia economica, Israele dispiega attacchi militari con forze di terra e uso spropositato della forza verso i civili nella Cisgiordania, con più di 400 detenzioni amministrative, infinite malversazioni a Gerusalemme e bombardamenti e sconfinamenti a Gaza. Questa operazione dello stato Israeliano, battezzata “guardiani dei nostri fratelli “ è “giustificata” dalla scomparsa di 3 giovani riservisti Israeliani in territorio sotto completo controllo Israeliano in Cisgiordania. Non c’è prova di chi abbia collaborato alla sparizione, non rivendicata da alcuna fazione Palestinese. In qualsiasi paese civile una sparizione è un caso di polizia investigativa e non la ragione per imprigionamenti di massa su base politica, di invasione e permanenza in migliaia di abitazioni di civili, dell’abbattimento di case, degli omicidi di persone disarmate, di bombardamenti su zone del territorio Palestinese sotto blocco e fuori e da quella in cui la scomparsa è avvenuta. Questa operazione non è altro che una operazione, probabilmente preordinata, di punizione collettiva per i Palestinesi nel momento in cui hanno raggiunto un accordo politico e si presentano come stato nella comunità internazionale. Serve per annientare fisicamente una fazione-partito (Hamas) e richiedere la resa dell’altra fazione-partito (Fatha), protagoniste precedentemente del dissenso interno che aveva creato due governi separati in Gaza ed in Cisgiordania. Serve ad imporre con la forza la opposizione del governo Israeliano alla riconciliazione nazionale Palestinese. E’ un’ operazione la cui entità e sviluppo si può pensare che continuino ad accrescersi nel livello e con la violenza. In Cisgiordania le uccisioni, la invasione da parte delle forze di terra con carri armati, i sorvoli di F16, le violente invasioni delle case, gli arresti indiscriminati di civili, il ri-arresto di prigionieri liberati, la nutrizione forzata di quelli in sciopero della fame, la mano libera lasciata alla violenza dei coloni, si accompagnano ai bombardamenti quotidiani su Gaza, all’attacco ai suoi pescatori, al sorvolo con F16, che ben ricordano l’inizio degli attacchi del 2008 e del 2012. Vogliamo essere vicini ai Palestinesi che ne sono vittime, e che si sono impegnati come attori nel difficile processo di costruire una unità nazionale, e diciamo al nostro Governo ed a quello Europeo che ci opponiamo alla loro connivenza con Israele e speriamo di rompere il silenzio che regna sulle aggressioni in corso. Il silenzio e/o la connivenza della comunità internazionale è la luce verde che Israele aspetta per imporre sul terreno col la paura e l’esercito la sua richiesta all’Autorità Nazionale di Ramallah di rompere l’accordo di riunificazione.

E’ un lasciapassare per continuare la illegale detenzione amministrativa e le vessazioni sui prigionieri, per continuare il blocco di Gaza e la politica di insediamenti e vessazioni in Cisgiordania e Gerusalemme.

Temiamo che sia anche la luce verde per realizzare vecchie e nuove minacce su Gaza: ” vi ridurremo al medio evo”, “la prossima volta vi attaccheremo in modo che non avrete il tempo di rispondere” (dopo il novembre 2012) e per tutta la Palestina: “elimineremo tutto il verde (Hamas ha bandiere verdi) dalla regione”.

I palestinesi stanno resistendo uniti – ma l'immagine della gente in solidarietà proveniente da tutto il mondo, in piedi accanto a loro, sarà incoraggiante e darà forza al popolo palestinese, nella sua lotta contro un occupante crudele.

Per sostenere il popolo palestinese sotto attacco, anche il silenzio dei Governi e della Istituzioni Europee deve finire ed il messaggio delle Chiese deve giungere limpido e chiaro.

*Chiediamo che i rappresentanti delle Istituzioni Italiane e quelle Europee si facciano responsabili in tutte le sedi della sicurezza e dello sviluppo della nazione e dello stato Palestinese riunificato, secondo le leggi internazionali.*

*Che nelle sedi internazionali queste si schierino per l’ autonomia dello Stato Palestinese e contro la occupazione della Cisgiordania e la continua espansione degli insediamenti Israeliani, per la liberazione dal blocco di terra e mare di Gaza, per la fine della detenzione amministrativa dei Palestinesi e loro abduzione in Israele, per uno statuto chiaro e condiviso per Gerusalemme.*

*Chiediamo che i governi Europei mettano in campo finalmente sanzioni economiche per Israele che continua a non rispettare la legislazione internazionale, le risoluzioni ONU e la convenzione di Ginevra.*

*Chiediamo ai rappresentanti delle religioni che si pronuncino contro i crimini verso la umanità e le persone che Israele compie con impunità verso il popolo Palestinese e diffondano la loro solidarietà verso le sofferenze di un popolo interno.*

Aderisci mandando una mail a
palestinasottoattacco@outlook.it

per vedere le firme:
https://sites.google.com/site/parallelopalestina/firme-la-palestina-e-sotto-attacco



Mercoledì prossimo, 2 luglio, si terrà una manifestazione a Milano, ore 17.30. Pazza della Scala

Le ragioni e i torti: Israele e il rapimento dei tre ragazzi



Per capire meglio i motivi del rapimento dei tre giovani coloni rapiti, pubblichiamo il seguente articolo, uscito su www.gariwo.net lo scorso 20 giugno 2014.  




Lo scrittore Amoz Oz ha spesso sostenuto che il conflitto israelo-palestinese contrappone due popoli con due ragioni legittime per un’unica e piccola terra. Non esiste dunque una verità contrapposta a un’altra, perché entrambi i popoli esprimono il bisogno di libertà e di emancipazione. Aggiungerei però che non c’è solo un conflitto di ragioni, ma anche un conflitto di torti non riconosciuti. La questione infatti si potrà risolvere quando, da entrambe le parti, ci saranno intellettuali e politici coraggiosi che oseranno portare le loro società a una profonda opera di purificazione morale.

Uno di queste personalità è il presidente emerito del parlamento israeliano
Abraham Burg che, intervenendo sul rapimento dei tre giovani israeliani, non solo condanna l’atto criminale dei gruppi terroristi, ma richiama la società e i politici israeliani a un esame di coscienza. Non ci sono solo gli israeliani sequestrati, ma anche migliaia di palestinesi che sono privati di una speranza per il futuro, e che spesso si fanno catturare dalle sirene del terrorismo e del fondamentalismo.
Se anche dalla parte palestinese emergeranno figure morali come quella di Abraham Burg, che esorta ad ammettere i propri torti e non solo a rivendicare i propri diritti, la pace sarà più vicina.
Per il suo valore esemplare proponiamo la traduzione dell’articolo di Burg, pubblicato su Haaretz il 18 giugno 2014.

Gabriele Nissim


I palestinesi: una società sequestrata
Non riusciamo a comprendere il grido di sofferenza di una società e continuiamo a tenere nelle nostre mani il futuro di un’intera nazione.
Stiamo soffrendo per quei tre ragazzini che fino a un momento fa erano perfetti sconosciuti, ma ora appartengono a tutti noi. Ognuno di loro potrebbe essere mio figlio o il figlio di ciascuno dei miei amici e dei loro amici. Come molti, spero con tutto il cuore che venga presto il momento in cui li vedremo tornare vivi tra noi e tutta la tensione si scioglierà in un liberatorio sospiro di sollievo. Tremando di paura, tengo viva la speranza, ma non posso e non voglio ignorare la verità taciuta che circonda il loro rapimento.

Questi tre giovani sono davvero sfortunati. Lo sono per il
clima di terrore nel quale è avvenuto il sequestro, per l'incertezza e per il grave pericolo che corrono le loro vite. Soffrendo, rivolgiamo a loro il nostro pensiero e alle loro famiglie, catapultate all'improvviso nel clamore dei media. Questi ragazzi sono sfortunati anche per un altro motivo: l'ipocrisia in cui hanno trascorso il tempo delle loro vite - vite di apparente normalità, costruite sulle fondamenta della più grave delle ingiustizie israeliane: l’occupazione.

Ma lasciamo stare i loro tormenti e torniamo ai nostri. Per noi, un evento drammatico o un trauma è sempre un'occasione per riflettere con grande lucidità e chiarezza, quando vengono alla luce tutti i nostri progetti e fallimenti, paure e speranze.

Ecco l'ottuso primo ministro di Israele e la polizia incompetente, le masse che si recano a futili cerimonie di preghiera e non a quelle per la pace dell'Umanità. Ecco anche i rabbini capi ipocriti del Paese, che solo un mese fa chiedevano al Papa di impegnarsi per il futuro del popolo ebraico, ma
rimangono in silenzio, nella vita quotidiana, davanti alla sorte del popolo dei nostri vicini, schiacciato dal giogo dell’occupazione e del razzismo fomentato da quei rabbini che ricevono stipendi e benefit esorbitanti.
Improvvisamente tutto si manifesta nella sua vera essenza, emergendo dalle tenebre alla luce del sole. Questo è proprio il momento di farci un esame di coscienza dato che, come ho detto, tutto avviene sotto i nostri occhi.

Prima di tutto, la
superficialità di Netanyahu. Non è una cosa su cui vi sia molto da aggiungere. Dopo tutto, lui è la persona che ha portato i colloqui israelo-palestinesi nel vicolo cieco della questione del rilascio dei prigionieri, nonché colui, per dirla con le sue stesse parole, che ha violato l’impegno di Israele a rilasciare l’ultimo gruppo di prigionieri palestinesi. È anche l’uomo che ha spinto l’Autorità Palestinese nell’angolo dell’unificazione con Hamas.

Di che cosa va quindi lamentandosi, con i suoi commenti e gesti esagerati e melodrammatici? La sua reazione immediata, impulsiva e sconsiderata mostra che stava solo aspettando il momento giusto per dire: “Ve l’avevo detto”. E ora che l’ha detto, emerge la vera domanda: che cosa ci sta dicendo precisamente? La risposta dolorosa è: niente di niente.
Anche la sinistra israeliana,che si presume essere dotata di integrità morale, è diventata la bocca aperta della carpa, farcita con qualche sostanza grigiastra stesa sul vassoio del seder pasquale della destra ingorda. Anche quest’ultima, peraltro, è invischiata in una lotta disgraziata per una fetta della torta della legittimità, che appartiene a chi è in grado di ottenere il fedele consenso delle masse.

Come può essere che nessuno di loro si sia alzato, abbia tracciato una linea e abbia detto: “Chiunque sta dall’altra parte porta la responsabilità dell’accaduto”? Non è piacevole, ma è la verità (che piacevole non è mai, dopo tutto).

Prima che ci sia un rapimento – perché parlarne? Nessuno ne vuole sapere, tanto tutto è tranquillo. E al momento del rapimento non dobbiamo parlare, come ha detto il direttore esecutivo di Peace Now, perché i ragazzi rapiti non ci sono più. E una volta che tutto finisce (in quella che, Dio non voglia, potrebbe essere una tragedia personale o collettiva di cui non importa niente a nessuno), perché dovremmo parlarne? Ancora una volta tutti sono occupati con la supermodella israeliana Bar Refaeli, la Coppa del Mondo o il prossimo scandalo.

Quindi questo è anche un momento di
vero isolamento, non quello delle case a cui eravamo abituati, ma quello dei cuori. Poche persone tanto a destra quanto a sinistra - tranne Gideon Levy, Uri Misgav e pochi altri commentatori cauti e terrorizzati – cercano di capire le cause profonde del rapimento.

Noi ci autoassolviamo dicendo: “I palestinesi hanno festeggiato, dopo aver sentito del rapimento”. La loro felicità ci fa contenti, dato che più li vediamo felici oltrepassando il nostro dolore, più ci sentiamo esenti dal doverci interessare a loro e alla loro sofferenza. Tuttavia non c’è un modo di aggirare il problema: è un'esultanza che va approfondita e capita a fondo.

La società palestinese nel suo complesso è una
società sotto sequestro. Come molti degli israeliani che hanno svolto “un servizio significativo” nell’esercito, molti lettori di questa rubrica, o i loro figli, sono entrati nella casa di una famiglia palestinese in piena notte cogliendoli di sorpresa e sic et simpliciter, determinati e insensibili, hanno portato via il padre, fratello o zio. Anche questo è rapire e succede tutti i giorni. E che cosa possiamo dire dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane?

Che cos’è questo se non un rapimento su larga scala, ufficiale, malvagio e ingiusto al quale tutti partecipiamo e del quale non paghiamo mai il prezzo? Questo è il destino di decine di migliaia di detenuti e di altri arrestati che sono, o sono stati, nelle prigioni israeliane – alcuni per nessuna ragione, con accuse false, e la maggior parte sottoposta alla giustizia militare. Tutte cose di cui non ci occupiamo minimamente.

Tutto questo ha trasformato il tema dei prigionieri nell’argomento principale di una società sotto occupazione. Non c’è famiglia senza un detenuto o un prigioniero, quindi perché ci dovremmo stupire della loro gioia, fermi restando il nostro dolore, le nostre paure e la nostra preoccupazione? Abbiamo avuto e abbiamo ancora la possibilità di capirli.

Tuttavia, fino a quando il governo israeliano sbarra tutte le strade per la libertà, scappa da tutti i negoziati che potrebbero risolvere il conflitto, si rifiuta di compiere gesti di buona volontà, mentre viola in modo palese i suoi propri impegni, la violenza è tutto ciò che rimane per quella gente.

È già stato dimostrato numerose volte come un rapimento permetta di liberarsi degli scrupoli. Ancora una volta sembra che Israele non capisca
nient’altro che la violenza. Che cosa ci suggerisce questo? Questa nostra reazione, che va da “Se lo meritano” a “Sono tutti terroristi” a “Sto seguendo degli ordini” a “Non sapevo che cosa stesse succedendo” dice più cose su di noi che sui palestinesi.

Nonostante il successo enorme ed esemplare di Breaking the Silence (una ONG che raccoglie le testimonianze dei soldati che hanno prestato servizio nella West Bank), il nostro silenzio totale è ancora il rumore più assordante intorno a noi. Siamo disposti a uscire dai nostri comodi schemi mentali per personaggi strani e controversi come Pollard, per una o tre vittime di rapimento, ma siamo incapaci di comprendere la sofferenza di un’intera società, il suo grido e il futuro di un’intera nazione che noi abbiamo sequestrato.
Anche questo va detto e andrebbe ascoltato durante questo momento di lucidità – e va detto a voce più alta possibile.




Abraham Burg, presidente emerito della Knesset


domenica 29 giugno 2014

Ed ecco il PRIDE !

Una settimana all'insegna dell'orgoglio gay, quella che si è tenuta anche a Milano dal 23 al 29 giugno 2014. Una settimana ricca di iniziative per conoscere la comunità LGBT, per parlare di diritti civili, di libertà, di accettazione di sé e degli altri. "In bloom" è il libro, con mostra fotografica, di E. Calvelli, così come "Nuda" un altro libro di M.Pagarini; il fumetto "I colori del vicino" di G. Macalone, la biblioteca dei libri parlanti, "Ho visto un re" lo spettacolo teatrale; il talk dal titolo "Educare alle differenze", il dibattito "Quali prospettive dopo la sentenza della Corte Costituzionale 170/2014", "Diritti LGBT. A che punto siamo?" incontro con l'Abominevole diritto...Questi alcuni degli incontri e degli approfondimenti che hanno animato quest'ultima edizione del Pride milanese che è culminato con la parata festosa e musicale che ha colorato una città grigia e piovosa. Alla prossima!
(Le foto sono di Monica Macchi)


                                                  

venerdì 27 giugno 2014

Dire NO a violenze e razzismi



L'Associazione per i Diritti Umani ha aderito alla “Carovana delle culture” organizzata da: Convergenza delle culture Sanpapè, I cammini aperti Onlus, Associazione Unisono Spazio Baluardo, Studio 3R, Movimento alianza Pais. Una manifestazione che si è tenuta a Milano lo scorso 21 giugno per rispondere, con vitalità, alla violenza e al razzismo che serpeggiano in alcuni quartieri della città.

Vi proponiamo il video con alcune interviste ai partecipanti che abbiamo realizzato per voi. La musica in sottofondo ricorda proprio il carattere non violento e allegro della carovana perchè, come scritto anche sul volantino, è stata: “Un'onda di colori, voci ed espressioni diverse che portano equilibrio, felicità, evoluzione!”.


giovedì 26 giugno 2014

Giornata mondiale contro la tortura


In occasione del 26 giugno, Giornata Mondiale contro la Tortura, la Campagna LasciateCIEntrare vuole lanciare una riflessione sul tema, partendo dalla denuncia di quei luoghi che calpestano la dignità e i diritti delle persone: i CIE.   
I Centri di identificazione ed espulsione rappresentano una violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo:
“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Ce lo spiega bene Lassad, che da uomo libero è finito al CIE di Ponte Galeria, vivendo così sulla sua pelle un trattamento inumano che mai dimenticherà. Prima di Ponte Galeria era transitato per Bari e Trapani.
“Mi sono trovato nel CIE con delle persone con le bocche cucite. Mi sono domandato, dove sono? In Afghanistan, a Beirut!? Non è logico che nel 21esimo secolo esistano questi luoghi chiamati CIE e che delle persone per far sentire la propria voce arrivino a compiere gesti estremi, persone che si cuciono la bocca con ago e filo per protesta. Ma dove siamo?!”.
Siamo nei CIE, strutture che nascono per trattenere gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento, ma che in realtà non sono nient’altro che dei lager autorizzati. Gli immigrati reclusi vivono senza dignità, senza diritti.
Entrano ed escono dal CIE: “Non hai un documento e ti mettono li per un anno e mezzo. Massimo 6 mesi a Ponte Galeria. Solo perché non hai documenti devi passare il resto della vita ad uscire e rientrare nei CIE”.
Lassad vive in Italia da 22 anni e questa nazione con la sua politica la conosce bene “il bello della politica italiana: parole parole parole ! I CIE non sono la soluzione! 41 euro, vale così poco la vita umana?
Siamo la Banca d’Italia, entrano soldi, siamo la conseguenza di una causa, dunque siamo un prodotto e come prodotto ha un suo prezzo”.
Vite umane spezzate, rinchiuse senza nessuna colpa, si trovano a dover contare le loro sbarre: “Passo la mia giornata a contare le sbarre che sono attorno al perimetro della mia stanza. Per la precisione sono 206, su 18 passi e mezzo di lunghezza, su 8 passi e mezzi di larghezza, questo è il perimetro della mia stanza” così ci racconta Lassad.
Lassad è ora di nuovo un uomo libero, gli domandiamo “cosa diresti ai tuoi compagni che sono rimasti nei CIE?
L’arma è diventata troppo sottile. Cercano di colpirvi nell’anima, sfiancarvi la resistenza. Questi posti ti spezzano
l’anima... Tenete duro!
La Campagna LasciateCIEntrare chiede che non vengano riaperti i CIE di Gradisca d'Isonzo, Milano, Palazzo S.Gervasio e che chiudano tutte le strutture di detenzione amministrativa per stranieri. #MAIPIUCIE
E’ possibile vedere l’intervista video integrale sul sito: www.lasciatecientrare.it

Un ambulatorio popolare per migranti e non solo


Cari lettori,


Pubblichiamo anche noi l'intervento del 6 maggio 2014 a cura dell'Ambulatorio Medico Popolare (www.ambulatoriopopolare.org) di Via dei Transiti di Milano, pronunciato in occasione del presidio contro la riapertura dei CIE e dei CARA a Milano, presidio che si è tenuto davanti alla Prefettura della capoluogo lombardo.

 

L'Ambulatorio Medico Popolare si trova in Via dei Transiti, 28 (MM PASTEUR) a Milano.

Apertura: Lunedì dalle 15.30 alle 19.00 e Giovedì dalle 17.30 alle 20.00

Telefono: 02-26827343

mail: ambulatorio.popolare@inventati.org


L’Ambulatorio Medico Popolare di via dei Transiti è un’associazione che dal1994 porta avanti la battaglia in difesa del diritto alla salute, lottando per un’assistenza sanitaria di base gratuita per tutti e praticando una solidarietà militante perché il fenomeno migratorio non sia affrontato solo come un problema di pubblica sicurezza, ma come esperienza di vita che italiani ed europei in primo luogo sperimentano e hanno sperimentato.

Quest’anno compiremo i 20 anni dall’apertura del nostro ambulatorio, esperienza che tanto ha in comune con molte altre, come quelle del NAGA e di Oikos.

In Italia ai migranti privi di permesso di soggiorno viene negata la tessera sanitaria, quindi per curarsi possono solo richiedere un codice chiamato STP (Straniero Temporaneamente Presente). Questo codice garantisce l’accesso alle cure farmacologiche e specialistiche urgenti ed essenziali, ma non l’assistenza di base: questo comporta l’impossibilità di ottenere le prescrizioni per esami o visite e quindi di mantenere sotto controllo patologie croniche. La regione Lombardia delega ad associazioni di volontariato questo problema, non facendosene carico in alcun modo.

SI nega così il diritto all’accesso alle cure di prima soglia ad un gruppo di uomini e donne, che nell’impossibilità di ottenerle seguendo un percorso sanitario “convenzionale” deve ripiegare su soluzioni di fatto di qualità inferiore, perché su base volontaria, e quindi con garanzie di professionalità e disponibilità relative. Si genera così una sorta di sanità di serie B, un accesso “dal retrobottega” alle cure mediche di base, indispensabili a tutti per garantire un’assistenza sanitaria continuativa e adeguata. Questo vale principalmente per i malati cronici, gli anziani e i bambini; questi ultimi due gruppi di assistiti solo da poco hanno trovato spazio nel SSN, anche se precario e poco garantito.

In questo scenario,l’assistenza sanitaria pubblica di base dipende dal permesso di soggiorno, che è a sua volta vincolato al possesso di un contratto e di un reddito lavorativo: questo spinge ad accettare condizioni di lavoro infime pur di conservare il permesso di soggiorno, un ricatto che trova la sua origine nelle leggi Bossi-Fini eTurco-Napolitano.

La nostra battaglia parte da qui, e date queste premesse, l’Ambulatorio Medico Popolare non può che sostenere la battaglia contro i CIE, che altro non sono se non dei lager di stato dove viene negato un altro diritto fondamentale, il diritto alla libertà.

L’Italia è un Paese senza memoria: ci siamo indignati per il naufragio del 3 ottobre e per il video che mostrava il trattamento di “disinfestazione” dei migranti nel CIE di Lampedusa, ci siamo indignati per la storia di Hellen e Joy, per i suicidi e le proteste delle bocche cucite, ci siamo puliti le coscienze alzando la voce da più parti per denunciare la vergogna di questi fatti. Passata l’indignazione, però, ci siamo di nuovo nascosti dietro parole come “centri di accoglienza” (CARA), per tacitare le nostre coscienze raccontandoci la bugia di strutture umanitarie dove ospitare temporaneamente i migranti, abbiamo ridato spazio e voce a politici e giornali che straparlano di “razzismo contro gli italiani” e di “emergenza migranti”.

Noi oggi siamo qui per fare in modo che la memoria non si perda, per ricordare che i CIE sono una vergogna e un abuso, per protestare, perché questo è l’unico modo per sperare che certi ignobili fatti non si ripetano.

Chiedere accesso alle cure mediche per tutti non significa solo lottare per il diritto alla salute, ma implica per noi sciogliere quel legame infido e infame che lega diritti, libertà, vita, lavoro, possibilità, sogni e aspettative ad un misero pezzo di carta, rilasciato da forze dell’ordine territoriali che nulla sanno di cosa voglia dire migrare o essere liberi, fisicamente e mentalmente.

Dobbiamo chiudere i CIE subito, chiudere i CARA subito, lasciare le persone libere di muoversi sulla terra, perché la terra è di tutti e non saranno i loro muri a fermarci o a dividerci.”


mercoledì 25 giugno 2014

Rosarno: il lavoro degli stagionali


 

Piana di Gioia Tauro, Calabria. Un viaggio che inizia tanti anni fa per documentare il lavoro di “Medici senza Frontiere” e che testimonia la quotidianità dei lavoratori stagionali, migranti e non solo: un posto caldo per dormire, un vestito smesso, qualche ora di lavoro sottopagato, ma pur sempre lavoro...

E una convivenza possibile tra immigrati - dall'Africa e dall'Europa dell'Est - e rosarnesi.

Tutto questo e molto di più nel documentario intitolato Rosarno di Greta De Lazzaris.

Abbiamo intervistato per voi la regista che ringraziamo.




Il progetto del documentario inizia nel 2003, prima che i fatti di cronaca rimbalzassero sui giornali: cos'è cambiato, in questi anni, sia nella vita dei migranti che riescono ad arrivare in Italia, sia nella mentalità degli italiani?

 

Per quello che riguarda Rosarno in particolare, purtroppo si può dire che nulla è cambiato. Se negli anni prima della “rivolta” i migranti vivevano nelle fabbriche abbandonate, nelle case abbandonate delle campagne, sotto i ponti, senza luce ne acqua, oggi vengono accolti nelle tendopoli installate dal Governo l’anno successivo agli scontri. Queste tendopoli, costosissime, sono poi state subito abbandonate dalle autorità e non sono più in grado di garantire le minime esigenze abitative e igieniche. Le tendopoli possono risolvere un emergenza, non possono diventare una soluzione definitiva di accoglienza. E comunque non ce ne sono abbastanza, molti ragazzi rimangono fuori. Quest’inverno ancora e’ morto di freddo un ragazzo della Liberia, aveva 32 anni e dormiva in una macchina. La mentalità degli italiani nel loro confronto non e’ cambiata.

Pero se nulla e’ cambiato, la rivolta a Rosarno e’ servita almeno a risvegliare le conscienze. C’è sicuramente più solidarietà oggi a Rosarno, che nel 2003 e vorrei sottolineare il lavoro enorme dell’associazione SOS Rosarno di Giuseppe Pugliese che segue i migranti a sempre.


Vogliamo ricordare i motivi per cui tante persone lasciano i propri Paesi d'origine? Da cosa fuggono e cosa cercano?


Sono semplicemente persone che fuggono dalle guerre, dalla povertà, dai regimi, dalle minaccie alle liberta individuali Ma in fondo, da cosa fuggono importa poco. Alcuni fuggono semplicemente dalla miseria, e anche se non sono vittime e non sono in reale pericolo fuggono da una vita che non lascia prospettive per il futuro come é giusto che sia.


Quali sono le considerazioni dei migranti che si ritrovano a lavorare come stagionali, in condizioni di sfruttamento? Chi si arricchisce con la fatica dei migranti?


I migranti tendono ad essere omertosi sulle loro condizioni di vità e di lavoro. Sono facilmente ricattabili, hanno paura, e sono spesso pronti alle peggiori umiliazioni pur di non dover tornare al pasese di origine. Ribellarsi è rischioso. Ci sono i caporali, la malavita, le minaccie. Chi si arrichisce é la grande distribuzione, le multinazionali, non certo il piccolo produttore, che, anche se diventando anche lui “sfruttatore” il suo malgrado, subisce la Politica agricola europea.


Nove anni per montare tutto il materiale ripreso dal 2003/2004: perchè tanto tempo? E quali sono le sue riflessioni su ciò che ha visto e sulle testimonianze raccolte?


Non ho impegnato nove anni per fare il film. L’ho lasciato da parte per tutto questo tempo. E stato un lavoro che ho covato per tanto tempo, un pò come la “rivolta” è stata covata per tanto tempo. Quando sono stata a Rosarno per la prima volta nel 2003, ero sicura che questa situazione sarebbe esplosa, ma me lo aspettavo molto prima, perche mi sembrava impossibile umanamente, resistere e soptavvivere in tali condizioni. Pero il motivo principale, che mi ha impedito di montare subito, è stato che mi sembrava che le immagini che ero riuscita a raccogliere, e quelle che mi era stato “consentito” di riprendere, erano troppo lontane ancora della crudelta quotidiana della quale sono stata testimone per 2 mesi.


Com'è la convivenza tra immigrati e rosarnesi, oggi?


Oggi, grazie anche al lavoro delle associazioni di volontari, ho citato ad esempio SOS Rosarno di Giuseppe Pugliese, la convivenza e nettamente migliorata. Ma i problemi gravi persistono. Rosarno è una città che soffre. È una citta nella quale la miseria della nostra economia globalizzata,si è venuta ad aggiungere ad una miseria pre-esistente.


martedì 24 giugno 2014

Salviamo Razieh



Nel nostro piccolo, ci uniamo alla voce della comunità internazionale (HumanRights Watch, Amnesty International e molte altre organizzazioni) per salvare la giovane vita di Razieh Ebrahimi che, durante questa settimana, potrebbe essere mandata al patibolo, letteralmente.

Una breve, intensa vita che potrebbe spezzarsi troppo presto: a 14 anni è stata data in sposa ad un uomo molto più grande di lei; l'anno successivo è diventata madre e a 17 ha ucciso il marito.

Tutto accade in Iran. La bambina era stata data in sposa, da suo padre, al vicino di casa, di professione insegnante: mesi e mesi di umiliazioni e di botte fino a quando lei ha deciso di reagire, con altrettanta violenza. Gli ha sparato e ha nascosto il corpo in giardino.

Sembra la trama di un brutto film e, invece, si tratta di una realtà ancora troppo presente nel tessuto sociale di una società contraddittoria e complessa, come quella persiana.

Si chiede, con questo articolo/appello, una giusta pena per la ragazzina, magari accompagnata da un percorso di recupero psicologico e la condanna di ogni forma di uccisione di Stato.

Il caso di Razieh fa riflettere, ancora una volta, su temi e questioni ancora irrisolte, in Iran come in molte altre aree del mondo: quello delle spose-bambine e quello delle esecuzioni per reati commessi prima della maggiore età, o comunque prima dei 18 anni. Pensiamo,a de sempio, anche alle ragazze stuprate e impiccate in India, alle studentesse rapite in Nigeria, ai soprusi in Yemen, Sudan, Arabia Saudita...

Una speranza per evitare a Razieh l'impiccagione sarebbe data dal perdono dei famigliari della vittima e un riscatto in denaro. Ma il problema dovrebbe essere risolto alla radice, con un cambiamento della legislazione e per questo anche la società civile iraniana si sta mobilitando in nome della Giustizia umana e del diritto alla vita.

Segregare,concentrare,allontanare






Rom e Sinti si trovano ai margini della società” ha affermato Papa Francesco, lo scorso 5 giugno in occasione di un incontro con i propomotori episcopali e i direttori nazionali della pastorale per i Rom. Ed è la prima volta che che un pontefice individua nella mancanza di alloggio una delle cause principali dello stato di discriminazione e di segregazione in cui vivono le comunità Rom e Sinte in Italia: il Papa ha anche sollecitato le istituzioni locali e nazionali ad impegnarsi nel processo di inclusione di ali comuità nel tessuto sociale. Ma, alla luce dell'ultimo rapporto silato dall'Associazione 21 luglio, la strada è ancora lunga.

Il rapporto si intitola “Campi nomadi s.p.a.” (www.21luglio.org) e in esso si individua un vero e proprio sistema, quello dei “campi” nel quale operano 35 enti, pubblici e privati, con l'impego di oltre 400 persone. Enti e personale che usufruiscono dei finanziamenti comunali per gestire, soltanto a Roma, otto “villaggi della solidarietà” che di solidale hanno ben poco.

Le comunità rom e sinte sono vittime di sgomberi continui (con le relative conseguenze di cui abbiamo parlato in un precedente articolo) oppure fruitori di un sistema abitativo disagiato e parallelo, riservato loro solo su una base etnica; l'Amminsitrazione di Roma Capitale che eroga finanziamenti pari a 16 milioni di euro; e poi il terzo settore riceve i contributi per erogare alcuni servizi di base all'interno degli insediamenti.

Questo vero e proprio “sistema s.p.a.” comporta una continua violazione dei diritti umani, ma anche un notevole dispendio economico per lo Stato che, come si legge nelle conclusioni del rapporto scritte dal Presidente dell'Associazione 21 luglio, Carlo Stasolla, finisce per alimentare tre tipi di miseria:


- la misera assistenza dei “campi nomadi”, alla quale ci si abitua e per la qale negli anni, che la subisce ne risulta assuefatto


- la miseria di forme contrattuali e compensi attribuiti agli operatori sociali che lavorano nei “campi nomadi” ai quali, in tempi di crisi, è difficile se non impossibile rinunciare


- la miseria morale di quei rappresentanti istituzionali che negli ultimi anni hanno costruito la propria fortuna politica giustificando, in nome dell”emergenza nomadi”, un così alto dispendio economico a discapito della promozione di reali percorsi di inclusione sociale.


Nel rapporto viene proposta un'alternativa possibile ai “campi”: un progetto di autorecupero che darebbe alloggio a 22 famiglie tra cui: una rom, una di rifugiati, una di immigrati e altre di italiani poveri. Un progetto, codificato dalla Legge Regionale n. 55 del 1998, che partirebbe dall'individuazione di un edificio dismesso tra i numerosi sparsi sul territorio. Non solo nell'area di Roma, ma questa potrebbe essere un'iniziativa valida per tutta l'Italia con la speranza di iniziare a superare l'ostilità o il disprezzo nei confronti delle popolazioni rom e sinte.

lunedì 23 giugno 2014

Rapita nella guerra in Siria: Susan Dabbous

Lo scorso 3 giugno in Siria si sono tenute le elezioni, definitie dalla comunità internazionale e dagli Stati Uniti, in particolare, come “la parodia della democrazia”: è stato, infatti, confermato il potere a Bashar Al Assad che con un gioco di forza ha voluto dimostrare, ancora una volta, la sua supremazia.

Torneremo sull'argomento in maniera approfondita, ma per ora vi riproponiamo una breve intervista che abbiamo fatto alla giornalista Susan Dabbous poco prima delle consultazioni elettorali.

Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra


Il 3 aprile 2013 Susan Dabbous, giornalista di origini siriane, è stata rapita insieme ad altri tre reporter italiani. Sono stati sequestrati a Ghassanieh, un villaggio cristiano, da parte di un gruppo legato ad al-Qaeda mentre stavano facendo le riprese per preparare un documentario per la RAI.

I giornalisti sono stati dapprima portati in casa-prigione, successivamente Susan è stata trasferita, da sola, in un appartamento con Miriam, moglie di uno jihadista, con cui ha dovuto pregare e ascoltare i discorsi di Bin Laden. Ma la domanda che le veniva posta, in maniera ricorrente, era: “ Qual è la tua morte preferita?”.

Da qui il titolo del libro: Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra, il diario della prigionia di Susan Dabbous, edito da Castelvecchi.




Abbiamo intervistato per voi la giornalista che ringraziamo molto.



Innanzitutto, ci può raccontare brevemente qual è il ricordo più duro legato alla sua prigionia e quali erano i suoi pensieri ricorrenti durante quell'esperienza? Come si è rapportata con i rapitori?

Ho optato per un atteggiamento passivo di sottomissione totale, ma ci tengo molto a precisare che l’islamizzazione è stata una cosa volontaria, sono io che ho chiesto di imparare la preghiera, volevo integrarmi nel loro contesto sociale, condividere i miei giorni con altre donne nel caso in cui ce ne fossero state, uscire da un contesto di prigionia violento e angosciante. Credevo che mi avrebbero tenuto per mesi se non per anni, come accaduto ad altri ostaggi. L’integrazione per me equivaleva alla sopravvivenza.



Recentemente, durante una presentazione del suo libro, lei ha citato la frase di Padre Paolo Dall'Oglio: “Non mancare la propria morte”: ci può spiegare il significato di quella frase e del concetto che esprime?


Tra le frasi che mi hanno colpito di più del libro “Collera e Luce” di Padre Paolo Dall’Oglio c’è questa: “Per me inconsciamente la preoccupazione di non fallire la propria morte è rimasta molto viva e interviene nelle mie scelte. La paura di non morire là dove si dovrebbe, quando si dovrebbe e per le giuste ragioni”. Ho trovato in questa frase molto forte il concetto di sacrificio, cristiano, umano, per il prossimo: là dove la fede non è pregare per la propria salvezza bensì per il miglioramento dell’umanità. Padre Paolo crede così tanto nel dialogo da non ha paura di proporlo ovunque e a chiunque. In Egitto, come in Siria senza dimenticare l’Iraq. Le sue recenti scelte sono state dettate dal coraggio ma anche da una conoscenza più che trentennale del Medio Oriente. Da luglio scorso non si hanno più notizie di lui, chi lo detiene in Siria sa probabilmente chi ha tra le mani. Spero con tutta me stessa che sia trattato con rispetto.

Nel suo libro parla del coraggio del popolo siriano. La guerra civile è una guerra che i civili stanno pagando a un prezzo altissimo: vuole riportare alcune voci di quelle persone? Le loro aspettative, le loro richieste...

In Siria si spera di tornare presto alla normalità. I bambini vogliono tornare a scuola; i padri di famiglia vogliono lavorare, perché il problema del lavoro è assolutamente centrale. Le donne sognano di ritornare nelle proprie case. Sono stanche di vivere la condizione di povertà estrema, di precarietà e di mancanza di dignità. A nessuno piace essere profugo, ma in questo caso specifico si tratta di un popolo con scarsa propensione all’emigrazione. I siriani, anche i più poveri e modesti, posseggono una casa o un pezzetto di terra.

Il 2 aprile scorso è stato cancellato, in Italia, il reato di immigrazione: cosa possono fare l'Italia, ma anche l'Unione Europea in termini di immigrazione? E come tutelare i diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo?

L’Europa potrebbe impegnarsi di più nell’accoglienza dei profughi che arrivano sulle nostre coste sostenendo viaggi disumani, pagando decine di migliaia di euro. Appena arrivati si sentono salvi, dopo poche ore inizia un nuovo calvario, tutto europeo e burocratico, fatto non più di loschi trafficanti e vecchi barconi ma di questure e fogli di rinvio. Bisognerebbe rivedere il regolamento di Dublino che obbliga il richiedente asilo a fare domanda nel primo paese d’arrivo. Un sistema palesemente fallimentare perché nessuno vuole rimanere in Italia, Grecia o Bulgaria, paesi dalle economie fragili incapaci di dare non solo opportunità ma a volte anche l’assistenza di base.

Qual è o quale deve essere il ruolo dei mass-media italiani (e occidentali in genere) nel raccontare ciò che succede in Medioriente? E' possibile fare giornalismo, in tema di politica estera, con precisione e attenzione alla verità?

Credo che la Siria venga raccontata e anche bene, ma è una qualità dell’informazione accessibile solo ai tecnici, a chi sa dove prendere cosa. Tra siti internet, fonti dirette e fughe di notizie da parte di chi vuole colpire questo o quel gruppo in conflitto. Il problema, certo, è come rendere fruibile questa quantità a volte anche mastodontica di notizie. Discernere e tentare di verificare senza mettere a repentaglio la propria vita. È una sfida importante, conosco giornalisti italiani e stranieri che sono entrati e usciti illesi dalla Siria negli ultimi mesi, questo non significa però che non abbiano affrontato enormi rischi. In Italia c’è però un problema di discontinuità, sui temi di politica estera che vengono raccontati a singhiozzo, questo non aiuta affatto la comprensione di fenomeni complessi che ci sono ad esempio dietro i conflitti.


domenica 22 giugno 2014

Migranti abbandonati a Rogoredo (Milano)



Ci è pervenuta questa comunicazione da parte del Naga che riteniamo importante. La pubblichiamo chiedendovi, gentilemnte, di condividerla. Grazie.

La testimonianza dei volontari del Naga

Milano, 11/6/2014 Martedì 10 giungo mattina, arrivano chiamate al Naga che segnalano la presenza di “Africani” davanti alla stazione di Rogoredo.

Andiamo alla stazione quindi per cercare di capire cosa sta succedendo: due autobus provenienti da Taranto hanno scaricato davanti alla Stazione di Rogoredo persone provenienti da Gambia, Mali, paesi dell’Africa sub-sahariana e dalla Siria. Il viaggio da Taranto è stato "organizzato" dalla Prefettura di Taranto. Sono visibilmente affaticati, disorientati, scossi, molti non hanno neppure le scarpe e alcuni di loro hanno un numero attaccato ai vestiti. Così come sono scesi dalla barca, così sono adesso sul piazzale antistante la stazione.

Siamo in viaggio da 7 giorni”, ci racconta Prince della Nigeria “dopo un viaggio in mare, durato 5 giorni, siamo arrivati a Taranto, abbiamo compilato un foglio con i nostri dati anagrafici e poi ci hanno chiesto di metterci in fila”, continua “una fila era per le persone che volevano andare a Milano e una per chi voleva andare a Roma. Noi ci siamo messi nella fila per Milano perché ci avevano detto che c'erano delle strutture di accoglienza e siamo arrivati qui stamattina”.Ci hanno fatto salire su un autobus, abbiamo viaggiato tutta la notte poi ci hanno lasciato qui. Io non conoscono nessuno, sono solo, non so dove andare, vorrei solo lavarmi e dormire. Ci porteranno in un centro? Ci lasceranno qui? Non ci hanno detto nulla.” Ci chiede Dagmawy.

La sensazione di totale sospensione nel tempo senza la prospettiva neanche di mezz’ora è evidente: nessuno dei presenti sa dove si trova né cosa sta succedendo. Kwame ci chiede di poter usare il telefono per trovare, sul suo profilo Facebook, il numero di un amico che gli aveva detto di chiamarlo appena fosse arrivato. Kwame scorre messaggi gioisi che raccontano dei preparativi di una partenza, messaggi pieni di forza della volontà di avere un futuro diverso, di prendere in mano la propria vita e partire. Improvvisamente Kwame scoppia a piangere e ci mostra la foto sorridente che appare sul social network “Era un mio carissimo amico, l’abbiamo perso in mare nelle acque internazionali”.

La Questura di Milano arriva verso le 16.00 per avviare le procedure di identificazione e per chiedere se qualcuno vuole presentare domanda di protezione internazionale. Denunciamo con sconcerto quanto accaduto e l’evidente mancanza di un sistema minimo di accoglienza, denunciamo l’ipocrisia di un sistema che non volendo gestire il fenomeno migratorio cerca di lavarsene le mani e sposta le persone che arrivano nel nostro Paese con l’evidente obiettivo di non doversene occupare, sperando che, come per magia, che diventino invisibili.” Dichiara Luca Cusani, presidente del Naga presente a Rogoredo. “Facciamo appello alle Istituzioni affinché garantiscano a chiunque arriva un’accoglienza dignitosa non solo per rispetto della legge, ma per doveri minimi di umanità e solidarietà.” conclude il presidente del Naga.



venerdì 20 giugno 2014

Dall'Afghanistan alla Turchia, direzione Europa: per il diritto alla vita

di Basir Ahang

Ringraziamo tantissimo Basir Ahang per aver scritto per noi il seguente articolo che pubblichiamo in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, oggi 20 giugno 2014. 

La Giornata Mondiale del Rifugiato si celebra in tutto il mondo il 20 giugno. Indetta dalle Nazioni Unite per la prima volta nel 2001 in occasione del cinquantesimo anniversario della Convenzione di Ginevra, questa giornata serve a ricordare ogni anno le milioni di persone che a causa della guerra o delle persecuzioni sono costrette a fuggire dal loro Paese. Oggi vi sono più di 36 milioni di rifugiati nel mondo e il numero sembra tragicamente destinato a salire. In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) seleziona un tema comune per coordinare gli eventi celebrativi in tutto il mondo. Quest’anno un tema che molti rifugiati vorrebbero proporre all’UNHCR è quello dei richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan bloccati in Turchia da anni e delle tragedie che colpiscono queste persone quando tentando di raggiungere la Grecia. In Turchia il 12 aprile di quest’anno, i rifugiati provenienti dall’Afghanistan, avevano iniziato una manifestazione pacifica e uno sciopero della fame di fronte all’ufficio dell’UNHCR ad Ankara per protestare contro la mancata verifica delle loro richieste di protezione internazionale e della conseguente situazione di precarietà ed incertezza in cui gli stessi sono costretti a vivere. La manifestazione è stata condotta soprattutto dalle donne, molte delle quali si sono cucite la bocca in segno di protesta. 




 
 

Senza un documento i rifugiati in Turchia non possono lavorare, i bambini non possono studiare e i loro diritti più basilari non vengono nemmeno presi in considerazione. La registrazione dei rifugiati è di vitale importanza anche perché permette il loro reinsediamento in un Paese Terzo. Dal primo dicembre 2012 l’UNHCR ha sospeso la registrazione dei rifugiati provenienti dall’Afghanistan, come si può leggere nell’annuncio esposto sulla porta del loro ufficio ad Ankara. Interrogato sulla vicenda da alcuni giornalisti UNCHR non ha fornito alcuna spiegazione delle nuove politiche da loro adottate nei confronti dei rifugiati. 



Traduzione dell’annuncio: “L’Alto commissariato delle Nazioni Unite ha sospeso la registrazione per la verifica dello status di rifugiato e per il reinsediamento in Paesi Terzi dei rifugiati provenienti dall’Afghanistan. Il provvedimento è stato rinnovato a partire dal 6 maggio 2013”.




La Turchia rappresenta da sempre il corridoio attraverso il quale accedere all’Europa. Dal 2010 Frontex (l’agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea) ha tentato di chiudere le vie di accesso al confine tra Grecia e Turchia, ma ciò non ha comunque impedito ai richiedenti di continuare a rischiare la loro vita per fuggire dalla guerra e dalle persecuzioni. In Grecia i rifugiati subiscono ogni tipo di angherie e di violenza da parte della polizia greca. Un caso in particolare è tragicamente salito alle cronache. Nel gennaio di quest’anno un gruppo di rifugiati che stava tentando di raggiungere le coste greche è stato respinto in mare con la forza dalla guardiacostiera greca. Durante il respingimento la barca si è rovesciata e molte donne e bambini a bordo sono caduti in acqua; quando chi stava annegando ha tentato disperatamente di aggrapparsi all’imbarcazione dei guardiacosta, gli uomini a bordo li hanno rigettati in mare ed hanno impedito ai rifugiati di salvare i loro cari minacciandoli con delle pistole. Alla fine nove bambini e tre donne sono morte, uccise dalla guardiacostiera greca.




Uno degli intervistati del seguente video era riuscito in precedenza a raggiungere la Norvegia, Paese dal quale era stato rimpatriato in Afghanistan. Dall’Afghanistan, l’uomo, assieme alla sua famiglia aveva tentato nuovamente di fuggire con la speranza di salvarsi la vita. 

Questa situazione non riguarda solo i rifugiati provenienti dall’Afghanistan, ma anche quelli che fuggono dalle altre guerre che insanguinano oggi il nostro mondo. Non resta che augurarsi che arrivi presto il giorno in cui non occorrerà più una giornata mondiale per ricordare i morti ed i vivi a cui non è concesso vivere.



English version: 
 
From Afghanistan to Turkey, Europe direction: for the right to life.
By Basir Ahang


We’d like to thank very much Basir Ahang for writing the following article that we are going to publish today, 20th June 2014, on the occasion of the World Refugee Day.

The World Refugee Day is celebrated worldwide on June 20th. Held for the first time in 2001, by the United Nations, on occasion of the 15th anniversary of the Geneva Convention, this day celebrates the million people who are forced to leave their countries, every year, because of wars or persecutions. Today there are more than 36 million refugees in the world, and this number seems tragically destined to rise. On the occasion of the World Refugee Day, the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) selects a common theme to coordinate the celebratory events throughout the world. This year, a theme that many refugees would like to propose to UNHCR, is that of asylum seekers from Afghanistan, who have been blocked in Turkey for years, and of the tragedies that affect these people when they try to reach Greece. In Turkey, this year, on 12th April, the refugees from Afghanistan started a peaceful demonstration and a hunger strike in front of the UNHCR office in Ankara, to protest against the lack of verification of their applications for international protection and the resulting situation of precariousness and uncertainty in which they were forced to live. The event was carried out mainly by women, many of them with their mouths sewn in protest.

In Turkey, without any document, refugees cannot work, children cannot study and their most basic rights are not even taken into consideration. The registration of refugees is vital, also because it allows them to resettle in a Third Country. From 1st December 2012, the UNHCR has interrupted the registration of refugees from Afghanistan, as it is written in the notice on the door of their office in Ankara. When questioned on the matter by some journalists, UNCHR did not provide any explanation of the new policies adopted by them

concerning refugees.


 
 
Translation of the announcement: "The High Commissioner of the United Nations has suspended the registration for the verification of refugee status and resettlement in third countries of refugees from Afghanistan. The measure has been renewed since May 6, 2013”.

Turkey has always been the corridor for access to Europe. Since 2010, Frontex (European Agency for the Management of Operational Cooperation at the External Borders of the Member States of the European Union) has been attempting to close the access to the border between Greece and Turkey, but this has not prevented the applicants to keep on risking their lives to escape from war and persecution. In Greece, the refugees suffer all kinds of harassment and violence by the Greek police. In particular, a case has tragically gone up to the news. Last January, a group of refugees trying to reach the Greek coasts was violently rejected by the Greek coast guard. During the rejection the boat capsized and many women and children on board fell into the water. Those of them who were drowning, desperately tried to cling to the boat of the coast guards, but they were thrown again into the sea by the men on board, who also prevented refugees to save their relatives and friends threatening them with guns.

Finally, nine children and three women died, killed by the Greek coast guard.

One of the protagonists of the following video had once been able to reach Norway, country from which he had been repatriated to Afghanistan. Once in Afghanistan, he had tried to escape again, with his family, hoping of saving his life.

This situation affects not only the refugees from Afghanistan, but also the ones escaping from the several wars that afflict our world today.

Our hope is that, one day, to have a world day to remember dead people and living ones who are not allowed to live, won’t be necessary any more.

 

giovedì 19 giugno 2014

Invito per la Giornata mondiale del Rifugiato


La carovana delle culture


 
 
Carovana delle Culture a Milano il 21 giugno
L'associazione Convergenza delle culture insieme all'Associazione Unisono Spazio Baluardo, Movimiento Alianza Pais Lombardia, Studio 3R e con led artisti organizza:

La Carovana delle culture sarà una parata multietnica, un'onda di colori-voci-volti diversi.
Artisti, ballerini, musicisti, e tutti coloro che, opponendosi a razzismo e discriminazione vogliono costruire una città non violenta e multicolore.

* Se anche tu credi nell'importanza e nella ricchezza di ogni cultura e di ogni individuo,

* Se anche tu credi che un atteggiamento d'apertura non può che contribuire all'evoluzione dell'essere umano,

* Se anche tu credi che ogni individuo ed ogni cultura rappresentano un contributo inestimabile per la nostra piccola città,



Contattaci ed organizza insieme a noi l'evento.



Associazioni promotrici



Convergenza delle Culture Sanpapiè, I Cammini Aperti ONLUS, Unisono APS Spazio Baluardo, Studio 3R, Movimiento Alianza Pais Lombardia







Aderiscono



ANPI Zona 8, Quarto Posto, Associazione per i Diritti Umani, Assileassime, ARCI Lesbica Zami, Scuola di italiano Baobab Torchiera, Circolo Arnaldo Cambiaghi ItaliaCuba Milano, Federazione Milano di Rifondazione Comunista, Associazione Culturale di progettazione e coordinamento ispanico-americano, NO MUOS Milano, Comunità dei popoli della Pachamama, Associazione Sucenor, SPI-CGIL Sempione, Maquis, Bottega Partigiana, Comunità Filippina di Milano.



Artisti che ci supportano



Assileassime con musica e danze dal Togo, Djembappel/Associazione Siraba Italia Ritmi e danze dell'Africa Occidentale, Mario Lopez, Karlos Xavier, Musica andina di Marcelo Vega, Nueva Generaciòn e Concultura con musica e danze folk loriche latino-americane, Gruppo Filippino di danze tradizionali.

 


 

mercoledì 18 giugno 2014

Giraffada



Pubblichiamo questo saggio di Monica Macchi, ringraziandola molto.

(già su www.formacinema.it)


Regia: Rani Massalha

Sceneggiatura: Xavier Nemo, Rani Massalha

Fotografia: Manuel Teran

Montaggio: Carlotta Cristiani

Scenografia: Yoël Herzberg

Musiche: Benjamin Grospiron

Produzione: Heimatfilm, Lumière & Co. in associazione con Al-RANI PRODUCTION -
 
CINE+/WDR distribuzione italiana VISIONARIA



Con la partecipazione di: FONDS SUD CINEMA; MINISTERE DE LA CULTURE ET DE
 
LA COMMUNICATION-CNC; MINISTERE DES AFFAIRES ETRANGERES ET
 
EUROPEENNES-INSTITUTE FRANçAISE

Con il sostegno di: EURIMAGES; FILM UND MEDENSIFTUNG NRW FFA




Film riconosciuto di Interesse Culturale con il sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo Direzione Generale per il Cinema

L’idea per questo film nasce da un trafiletto su un giornale durante la Seconda Intifada “ Il conflitto israelo-palestinese ha fatto una vittima in più: una giraffa è stata uccisa nello zoo di Qalqylia”, ispirando il libro “The zoo on the road to Naplouse” di Amelia Thomas, il documentario “The zoo” di Hayden Campbell e l’installazione di Peter Friedle a una mostra d’arte contemporanea in Germania. Questa notizia ha colpito anche il regista che più volte ha cercato di far arrivare un’altra giraffa allo zoo, ma senza mai riuscirci; ha continuato però a pensarci e l’idea è diventata un film quando ha incontrato Xavier Nemo che ha subito sostenuto il progetto perché da “ebreo-armeno non posso accettare cosa sta succedendo in Palestina”.


Questa favola a misura di bambino vista dagli occhi di un bambino racconta di Yassin, veterinario dello zoo di Qalqylia e di suo figlio Zyad che ha la passione delle giraffe, di cui si prende cura preferendole alla compagnia degli altri bambini. Durante un raid aereo una delle giraffe, Brownie si spaventa, cade, batte la testa e muore, nonostante Yassin avesse promesso al figlio di fare un miracolo. Lo zoo non ha soldi per comprare un’altra giraffa, per non parlare di tutti gli impedimenti burocratici e Yassin si trova a fronteggiare la rabbia del figlio che lancia pietre e smette di mangiare. Una delle particolarità del film sta nell’innestare sentimenti universali il cui fulcro ruota attorno al rapporto padre-figlio, nello specifico palestinese: l’amore verso il figlio assume la forma di amore tout court, amore per la libertà, la vita e la dignità mentre Zyad rappresenta la tenacia ed il desiderio che hanno la meglio sul caso e sul caos e lo zoo diventa così una metafora, un universo sferico di gabbie concentriche.
Gabbie rese anche dall’uso in questa parte dei primi piani che fanno penetrare nell’intimità di cosa succede sullo schermo e attestano la centralità dei personaggi con “volti intensivi per citare Deleuze che sentono, tendono verso un limite e oltrepassano una soglia”. Yassin pensa così di rapire una giraffa maschio dal parco Ramat Gan vicino a Tel Aviv per portarla a Qalqylia, coinvolgendo anche un collega israeliano e una giornalista francese: e qui il film prende una dimensione on the road al tempo stesso estremamente visuale e reale ma tuttavia immaginifica nel senso che permane la struttura lineare ma in continuo bilico tra realtà e immaginazione fino alle scene finali surreali in campo lungo con la giraffa che attraversa il muro e hanno una duplice funzione sia estetica che semantica mostrando in tutta la sua estensione e potenza, la gabbia che imprigiona i palestinesi, quel muro di separazione alto nove metri, ben più della giraffa, l’animale più alto di tutti.



 
 

Molto interessante l’utilizzo del rumore: razzi, spari, urla tutti effetti sonori essenziali alla definizione del contesto in una terra occupata e ai check point, ma c’è in più un elemento dialetticamente attivo cioè la scelta di non tradurre né sottotitolare l’ebraico parlato dai coloni e dai soldati che contribuisce alla tensione drammatica ed esprime l’incomprensione e la lontananza ben esemplificati nella scena dell’arresto finale.
In Palestina non esiste una industria cinematografica né politiche culturali adeguate o infrastrutture: (ad esempio per Giraffada non sono riusciti ad ottenere i permessi per girare a Qalqylia e hanno così scelto Nablus); nonostante ciò la scena culturale è estremamente vivace si produce molto: basta pensare alle recenti candidature all’Oscar di “Five broken cameras” di Emad Burnat e Davidi Guy, e di “Omar” di Hany Abu-Hassad, ma ci sono moltissimi altri film che hanno avuto riconoscimenti internazionali ad esempio When I saw you” di Annemarie Jecir, vincitore del “Best Asian Film” al Festival di Berlino, del “Best Arab Film” al Festival di Abu Dhabi, del “Premio Speciale della Giuria” al Festival arabo di Oran in Algeria e del “Premio della Giuria” al Festival Internazionale del Cairo, e anche A world not ours di Mahdi Fleifel, che ha vinto ben 3 premi al Festival di Abu Dhabi, il Premio per la Pace al Festival di Berlino, il Premio del Pubblico al Millenium International Documentary Film Festival di Bruxelles, il Dokfest a Monaco di Baviera e il Miglior Film Internazionale al Festival Internazionale di Ismailia in Egitto. Sono tutti documentari e fiction che riprendono il dolore e le inquietudini del popolo palestinese in modo da cristallizzarli e renderli veicolabili sulla scia della lezione di Tawfiq Salih regista di “Al-makhdu’un”, opera basilare della cinematografia palestinese (tratto dal romanzo di Ghassan Khanafani “Rijal fi-al-shams”) secondo cui non si può cambiare la mentalità e la psicologa di un popolo giocando coi suoi sentimenti al punto da provocarne le lacrime..l’arte impegnata deve provocare nello spettatore la collera di fronte a ciò che vede per sviluppare una coscienza critica” .
Nella filmografia palestinese sono così pochissimi i film per bambini dove la realtà viene messa momentaneamente tra parentesi e dove le uniche risorse restano l'immaginazione e la conoscenza dell’Altro: emblematiche sono le figure della giornalista francese (un’estranea idealista che ben presto resta affascinata e coinvolta al punto da trasportare clandestinamente Yassin e Zyad in Israele) e soprattutto il veterinario israeliano che arriva addirittura a prendersi gioco del soldato di guardia allo zoo pur di aiutare Yassin: in particolare il regista ha scelto per questo ruolo Roschdy Zem, un attore di origini marocchine (cha vinto il premio come Miglior Attore a Cannes nel 2006 per “Days of Glory” e la Palma d'oro nel 2010 per il film “Outside the Law”) perché “spesso nei film gli israeliani sono biondi e con la pelle chiara, ma la verità è a volte io stesso non riesco a distinguere tra ebrei e arabi, così ho voluto rompere il cliché”.
Ma tutto il cast è di altissimo livello a partire da Saleh Bakri attore de “La banda” di Eran Kolirin (per cui ha vinto l’Oscar israeliano) e “Salt of this Sea” di Annemarie Jecir, “Il tempo che ci rimane” di Elias Suleiman, “La sorgente dell’amore” di Radu Mihaileanu e il recentissimo “Salvo” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza; Ahmad Bayatra che ha recitato nel cortoElvis of Nazareth” vincitore dell’ Unifrance Premio Speciale a Cannes e Mohammed Bakri attore e regista icona del cinema e del teatro palestinese che ha lavorato con registi di fama mondiale (“Hanna K” di Costa Gavras, “Mas des alouettes” dei fratelli Taviani, “Private” di Saverio Costanzo) che appare in un cameo come venditore di noccioline che parla per metafore.







TRAILER https://www.youtube.com/watch?v=OuH947wtPxQ