domenica 16 marzo 2014

Container 158 e la "questione rom"

L'Associazione per i Diritti Umani presenterà il documentario Container 158 di Stefano Liberti e Enrico Parenti nell'ambito del fimfestival Sguardialtrove a Milano.
l'appuntamento è per mercoledì 19 marzo, alle ore 20.30, presso il cineteatro S. Maria Beltrade, Via Nino Oxilia, 10.
Un'occasione per approfondire la conoscenza dei popoli rom e sinti, troppo spesso vittime di discriminazioni fomentate anche da politiche di esclusione basate sulla paura del "diverso".
Il cinema documentario permette di entrare, in questo caso, nel campo rom di Via Salone, alle porte di Roma, il campo più grande d'Europa, e di trascorrere del tempo insieme ai suoi abitanti, condividendo la loro quotidianità: Miriana aspetta di partorire due gemelle in casa vera dove poter allevare anche gli altri suoi quattro figli; suo marito, Giuseppe, ogni mattina prende il suo furgoncino per andare a cercare ferro da riciclare; Remo è un meccanico, lavora in nero e i suoi clienti gli vogliono bene perché è economico e gentile. E poi ci sono i più giovani: Brenda è maggiorenne, vorrebbe fare la dottoressa, ma si è resa conto di quanto sia difficile, per lei, realizzare quel sogno; Marta, Cruis, Diego e Sasha frequentano le elementari e vengono rimproverati regolarmente per i loro frequenti ritardi.
Ma, quella che viene raccontata, è vita ed è vita "normale", se c'è una normalità.
Più di mille persone, provenienti per lo più dalla ex Jugoslavia, sopravvivono in questo enorme ghetto recintato da fil di ferro e sorvegliato da telecamere, come se fossero tutti accertati criminali e delinquenti: ammassati in camper di 22 metri, distanziati l'uno dall'altro soltanto due, lontano dal centro (dagli ospedali, ad esempio).  E tanti di loro non hanno lavoro - più per la diffidenza degli altri, che per la loro mancanza di volontà - e non hanno un'identità riconosciuta dallo Stato anche quando sono nati e cresciuti in Italia.
Le voci narranti di questo film sono, soprattutto, quelle dei bambini perché non hanno sovrastrutture: raccontano semplicemente e sinceramente la loro esistenza, mettendo in luce, in maniera inconsapevole, le contraddizioni delle politiche istituzionali che, da una parte, parlano di inclusione, ma dall'altra, non creano le condizioni concrete per attuarla.