La
magica notte degli Oscar hollywoodiana ha premiato un film, per chi
scrive sopravvalutato: La
grande bellezza di Paolo
Sorrentino.
Ma noi
preferiamo parlare dell'altro lungometraggio candidato come Miglior
Film Straniero:
Omar,
di Hany Abu-Assad, già regista di Paradise
Now.
Girato
in Palestina - tra Nablus, Nazareth e Bisan - il film narra di un
giovane fornaio, Omar, abituato a scavalcare il muro di recinzione
(perchè di questo si tratta) che separa la sua terra da Israele:
schiva proiettili, supera check-point, questo Romeo contemporaneo,
per andare a trovare Nadia, la ragazza di cui è innamorato. Ma il
racconto non può essere, ovviamente, solo un racconto sentimentale,
c'è molto altro: Omar, insieme al fratello di Nadia, Tarek, e ad un
terzo amico, Amjad, partecipa ad un'attività di addestramento
clandestina per la liberazione della Palestina. Dopo l'uccisione di
un soldato, il protagonista verrà fatto prigioniero e sarà
torturato. Sopravvive, ma dovrà decidere se trascorrere il resto
della vita in carcere oppure collaborare con la polizia israeliana.
Interessante
l'opera di Abu-Assad che inserisce - grazie alla sceneggiatura ben
scritta - gli attori e in particolare Omar in una situazione
claustrofobica sia per quanto riguarda gli ambienti sia per quanto
riguarda la loro psicologia. Il ragazzo, infatti, si troverà a dover
farei conti con le opportunità di una vita sempre più difficile:
sopravvivere e tradire la causa, in una dicotomia tra etica ed
egoismo.
La
prima scena già anticipa il senso profondo del film: i palestinesi
sono divisi, geograficamente e fisicamente e sono separati anche tra
di loro (amici, parenti, amanti), ma portano dentro anche fratture
interiori, ferite dell'anima causate dall'emarginazione, dalla
guerra, dalla ricerca continua di un'identità. Non giudica, il
regista, ma cerca di immedesimarsi e di far identificare anche il
pubblico con questa gioventù che ha tutta una vita davanti, ma pur
sempre una vita spezzata.
Un
riscatto, invece, per la propria esistenza è quello narrato nel film
vincitore del premio come Miglior Film: 12
anni schiavo,
di Steve McQueen, un “inglese nero” come in tanti lo hanno
definito. Film che si è aggiudicato anche il riconoscimento per la
miglior sceneggiatura originale e per il quale è stata premiata
l'attrice non protagonista, Lupita Nyong'o.
Dopo
il bellissimo Django
Unchained
di Quentin Tarantino (trovate la recensione su questo sito), in tanti
hanno deciso di continuare a riflettere su una delle piaghe più
aperte della Storia americana, ma nessuno eguaglia la perfezione di
scrittura e di regia di Tarantino.
12
anni schiavo
riporta sullo schermo la schiavitù con la sua brutalità, ma anche
con gli accorgimenti estetici propri del buon Cinema, ma resta
superficiale la riflessione tematica: la discesa agli inferi e la
redenzione successiva fanno troppo “americanata”: l'opera
cinematografica riprende la biografia di Solomon Northup che, a metà
dell' '800, uomo libero, artigiano e padre di famiglia viene rapito e
venduto come schiavo per lavorare nelle piantagioni della Louisiana.
Lotta per dodici lunghi anni per poi riuscire a fare ritorno dai
propri cari. Ma la decisione della giuria di conferire il maggiore
riconoscimento a questo film è un messaggio importante: tornare a
parlare della schiavitù del Passato può essere utile per continuare
a riflettere sulle varie e nuove forme di schiavitù delle società
contemporanee e per tenere alta la guardia.