lunedì 16 febbraio 2015

La Carta di Roma: il giornalismo e il “razzismo della parola”

(da associazionecartadiroma)


La Carta di Roma: il giornalismo e il razzismo della parola”: è questo il titolo della tesi di laurea discussa nel luglio 2013 da Roberta Picchi, studentessa del corso di laurea specialistica in Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria presso l’Università di Roma Tor Vergata. Relatore del lavoro di tesi Giuseppe Federico Mennella, già capo ufficio stampa del Senato, e professore di deontologia della professione giornalismtica presso l’Università di Roma Tor Vergata; co-relatore Marco Frittella, giornalista RAI e docente di Giornalismo politico e radio-televisivo presso la seconda Università di Roma.

Eccone una sintesi.

Impegnati come siamo a filtrare la miriade di informazioni che ogni giorno riceviamo, molto spesso non abbiamo tempo di soffermarci a riflettere sulle modalità narrative messe in atto per far arrivare l’informazione, per renderla più “attraente”. Ancor peggio, gli stessi operatori dell’informazione non hanno il tempo di uscire dal paradigma dominante, di guardare le cose da una prospettiva diversa e riflettere un attimo sui termini che vengono associati quasi automaticamente, d’istinto a determinate notizie. Si ricade così in un’informazione che conferma gli stereotipi, spesso negativi, del sentire comune e non consente una lettura equilibrata dei fenomeni sociali.
Cosa succede quando questo atteggiamento dei media si applica ad un tema delicato come quello dell’immigrazione? Uno degli aspetti più complessi del fenomeno migratorio è proprio la sua rappresentazione mediatica perché, come è noto, i mezzi di informazione esercitano un’influenza diretta sull’opinione pubblica. Come si comporta il mondo dell’informazione nei confronti delle persone migranti? Sono rappresentate allo stesso modo degli autoctoni? Oppure nel caso degli stranieri c’è una tendenza a enfatizzare alcuni aspetti e ignorarne altri? Le parole utilizzate per parlare di migranti sono discriminatorie? C’è spazio per una lettura che vada oltre gli stereotipi?
Alcuni fatti confermano la facilità con cui la società sia portata a demonizzare lo straniero, il diverso: ricorderemo tutti come, a poche ore dalla strage di Erba, si scatenò la caccia a Azouz Marzouk, ritenuto l’autore della strage solo perché tunisino; Mohammed Fikri fu incarcerato con l’accusa di aver ucciso la giovane Yara Gambirasio per un’intercettazione tradotta male; a Rignano Flaminio, Kelum Da Silva fu accusato e incarcerato sulla base di due testimonianze inverosimili; a Perugia Patrick Lumumba passa 14 giorni in carcere per un SMS tradotto male.
Un fatto di natura diversa fornisce una risposta negativa alle questioni poste poc’anzi. L’adozione della Carta di Roma nel giugno 2008 è “un’ammissione di colpevolezza” da parte del giornalismo italiano: con il Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti i giornalisti italiani hanno preso coscienza di dover restituire una rappresentazione obiettiva dei fenomeni migratori, libera da stereotipi e pregiudizi che alimentano i conflitti all’interno di una società meticciata. Sì perché l’immigrazione è oramai un carattere strutturale della società italiana e non ha quindi senso parlare di “emergenza, allarme immigrazione”: è un fenomeno risalente agli inizi degli anni Settanta dello scorso secolo a cui l’Italia non ha saputo dare un’organizzazione dapprima legislativa e poi sociale, economica e culturale.
Dal campo del giornalismo la questione si sposta dunque sul piano politico-legislativo: se in fondo i media sono lo specchio della società, allora la rappresentazione mediatica dell’immigrazione non è solo un problema di modalità narrative e termini utilizzati con troppa leggerezza ma ha radici profonde, in un contesto politico che, impegnato da altre incombenze, ha impostato politiche di corto respiro, inadeguate per l’integrazione e il contrasto delle discriminazioni.
D’altra parte, la situazione italiana è speculare all’assenza di un approccio giuridico internazionale alle migrazioni: a differenza di altri campi di azione in cui gli Stati hanno dato vita ad accordi sovranazionali, per l’immigrazione non si è mai stabilita un’agenda giuridica internazionale coerente e sistematica. La mancanza di un coordinamento legislativo internazionale in materia di immigrazione ha prodotto quindi un peggioramento dei diritti dei migranti.
Se, da un lato, occorrono politiche volte a favorire l’inserimento dei cittadini stranieri all’interno del tessuto sociale ed economico, dall’altro è necessario sensibilizzare la società italiana a una cultura diversa orientata all’apprezzamento dei valori e delle conoscenze di cui gli stranieri sono portatori. Nel fare ciò, un ruolo fondamentale è svolto proprio dai media che, restituendo una rappresentazione equilibrata del fenomeno migratorio, possono facilitare l’integrazione tra le diverse culture.
A distanza di sei anni dalla sottoscrizione della Carta di Roma qualcosa è cambiato nel giornalismo italiano: oggi i media dimostrano una maggiore sensibilità verso la rappresentazione dei migranti, una sensibilità che passa innanzitutto attraverso l’utilizzo di un linguaggio meno discriminatorio. Nonostante questo passo avanti, sono ancora molti gli aspetti da migliorare. Restano i pregiudizi prodotti da anni di politiche criminalizzanti degli immigrati: per l’italiano medio lo straniero che arriva in Italia ruba il lavoro agli autoctoni, ha un alto tasso di criminalità, accetta di lavorare in nero per pochi euro penalizzando così il lavoratore italiano, non paga le tasse.
L’immigrato vive in Italia in una duplice dimensione: o è troppo visibile o è troppo invisibile. Solo quando la società, la politica e i media riusciranno a trovare un punto di equilibrio sull’immagine dei migranti potremo dire di aver raggiunto la piena attuazione di quell’uguaglianza enunciata nell’articolo 3 della nostra Costituzione repubblicana.


La versione integrale della Tesi di Laurea di Roberta Picchi è scaricabile qui:
La Carta di Roma il giornalismo e il razzismo della parola