venerdì 6 febbraio 2015

Contro le mutilazioni genitali femminili, di Valentina Acava Mmaka


Oggi, per la Giornata contro le infibulazioni delle donne, ripubblichiamo il testo di Valentina Acava Mmaka e la ringraziamo ancora per questo suo importante contributo.







Ho da poco concluso la prima parte di un tour in Italia cominciato a marzo di quest’anno in cui ho portato in giro una performance poetico-teatrale “The Cut-Lo Strappo” che è nata da una esperienza che ho fatto in Sudafrica a Cape Town. Nel 2011 ho dato vita ad un collettivo di donne con le quali volevo lavorare ad un progetto di scrittura e diritti umani. Nel corso del periodo in cui abbiamo lavorato insieme, sono state tante le tematiche affrontate, quella che alla fine ha preso il sopravvento sulle altre è stata le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF). Il tema non mi era nuovo, avevo già scritto di MGF, avevo già avuto modo anni addietro di incontrare donne infibulate. Ma questa volta è stato diverso, perché questa volta si è presentata a me in modo inaspettato. Nel corso del lavoro una donna del collettivo mi ha confidato di essere stata vittima del “taglio”. Ad un certo punto del nostro lavoro, nel momento in cui riflettevamo sulla percezione di limiti e divieti imposti dalla società, si deve essere creato in lei un conflitto tra la sua esperienza e la possibilità di condividerla con il gruppo di lavoro. Era sorto in lei un dubbio (è possibile condividere un tabu’?), che al tempo stesso era una richiesta (come uscire dal dolore? come riappropriarsi o costruirsi una vita senza una parte di sé?). Sicuramente il potere della parola, dell’immaginario hanno sortito in lei la consapevolezza che l’arte può essere rappresentativa di una presa di posizione, di un’idea, di un cambiamento. Lei aveva percepito, anche se non completamente a livello conscio, che per cambiare si deve dire di NO a ciò che ad un certo punto della tua vita ha impedito una scelta.

Oggi sono 140 milioni circa le vittime nel mondo. Due milioni le bambine che ogni anno nel mondo vengono sottoposte alle Mutilazioni Genitali Femminili, denominazione entro cui rientrano diverse pratiche: dal taglio del clitoride, l’escissione, l’infibulazione. Sono tutte pratiche invalidanti e irreversibili, questo significa che la donna mutilata è una donna che porta sul suo corpo il dolore fisico nel quotidiano; il semplice urinare, il ciclo mestruale, la maternità, sono tutti eventi in cui la donna patisce rischiando continuamente la sua vita a causa di infezioni, setticemia, tetano, senza contare che le mutilazioni aumentano il rischio di infertilità.

Le MGF vengono praticate per diversi motivi: inibire il piacere sessuale nella donna, che deve essere esclusivo dell’uomo; controllare la fedeltà della donna (il dolore che la donna prova nel rapporto sessuale e il suo piacere inibito, scoraggiano la donna a intraprendere relazioni adulterine); rendere la donna pura asportando quella parte del corpo ritenuta imperfetta. E’ importante sottolineare che le MGF non sono una pratica prescritta da alcuna religione, né tantomeno sono un problema solamente africano. Certamente l’Africa è il continente con il maggior numero di paesi dove sono praticate, ma ricordo che l’Indonesia, l’India, il Sud America sono tra i le aree geografiche dove le MGF sono una pratica tradizionale presso alcuni popoli. Uno degli aspetti raramente condivisi e sottolineati è l’implicazione che questa pratica ha non solo a livello culturale ma anche socio economico. Le MGF praticate nei paesi di origine, non rispondo solo alla necessità di ribadire un ideale che vuole la donna facilmente controllabile dall’uomo, ma anche ad una esigenza di tipo economico. Innanzi tutto la daya che pratica le MGF vive di questo, viene pagata per farlo, è il suo lavoro. Quindi al di là del ruolo di prestigio sociale tramandato, la daya svolge una professione che è la sua fonte di guadagno. Inoltre la bambina senza il taglio è una bambina che non potrà mai accedere al mondo femminile delle sue coetanee tagliate, non potrà cioè sposarsi e questo vuol dire per la famiglia niente dote, altra implicazione di tipo economico. Un altro degli aspetti sconcertanti è che in alcune situazioni, soprattutto là dove le mutilazioni sono praticate in altissima percentuale, talvolta sono le bambine stesse a richiederla per non essere discriminate a scuola o addirittura per andare a scuola visto che chi non si sottopone al taglio, viene bandito dalla frequenza della scuola. Questo è inquietante perché significa che è una pratica talmente radicata e stigmatizzata che la mancanza di partecipazione finisce per diventare una ulteriore condanna dalla società, significa diventare ad un tratto delle “invisibili”, delle “fuori casta” con le conseguenze del caso: discriminazione, impossibilità di studiare, allontanamento della famiglia dal resto della società. In questi casi estremi sembra 0non esserci una via d’uscita. Ci sono due punti su cui mi piace riflettere: da una parte c’è l’aspetto dei diritti umani che vanno tutelati in toto, ad esempio, condannando anche qualunque tipo di rito alternativo lieve come quello proposto dal medico somalo Omar Abdulcadir. E su questo tema ci sarebbe molto da dire perché il concetto di Diritti Umani non è riconosciuto universalmente allo stesso modo ovunque. Essendo i diritti umani non riconosciuti universalmente occorre legittimarli attraverso il confronto pluralista con le culture che non li contemplano nel loro sistema sociale tradizionale. Dall’altra è il ruolo dei migranti nei paesi di immigrazione rispetto a questa pratica. La pratica delle MGF si è diffusa a livello mondiale nella nostra contemporaneità grazie ai flussi migratori di persone provenienti da paesi dove essa è parte della tradizione socio culturale. Anche in Sudafrica dove le MGF non sono precipue delle culture locali, capitolo a parte i Venda che la praticano, ho incontrato migranti provenienti dall’Africa orientale e occidentale che continuavano a “tagliare” le loro bambine. 






Credo che il cambiamento sia possibile come è già avvenuto in alcuni paesi e presso diverse comunità, soprattutto africane, nella diaspora. Cambiare significa dire di NO non solo a livello individuale, come scelta e decisione personale ma a livello familiare e collettivo dell’intera comunità di appartenenza. L’opposizione del singolo non porta all’abbandono collettivo della pratica, tuttavia alzarsi in piedi e rivendicare i propri diritti che sono i dritti fondamentali come quelli alla salute, a condurre una vita completa, è fondamentale, può offrire una occasione per altre donne di confrontarsi con la possibilità di cambiare collettivamente. Lavorare sul cambiamento è possibile grazie ad un percorso di conoscenza ed emancipazione nei paesi dove le mutilazioni sono praticate. Le donne che si oppongono alle MGF vengono emarginate e non godono più di quel sostegno economico che una famiglia può darle per sopravvivere. Ecco che sradicare la pratica del taglio deve nascere da un percorso dove la donna viene messa nella condizione di scegliere e questa condizione prevede l’accesso all’istruzione e l’acquisizione di una autonomia economica sostenibile che le permetta di non doversi più sottomettere all’autorità maschile. Il miglioramento della condizione femminile all’interno della propria società originaria porta di riflesso anche ad una diversa percezione delle tradizioni culturali e quindi ad esaminare credenze e valori optando per un cambiamento nella loro pratica.

Un ruolo determinante è quello rappresentato dalle comunità dei migranti. I migranti che provengono da aree geografiche dove le MGF sono praticate anche contro la legge, possono diventare mediatori di un cambiamento. Vivere l’altrove inevitabilmente mette la persona nella situazione di rapportarsi a nuove idee, a nuovi “modelli”, a un concetto diverso della donna e dei suoi diritti. Conoscere significa prendere coscienza. Se nell’altrove le comunità migranti riescono ad acquisire consapevolezza circa la dannosità di questa pratica e riescono, attraverso i loro figli, quindi i migranti di seconda generazione, a interrompere il supplizio, allora possono diventare gli interlocutori-fautori del cambiamento anche nei loro paesi originari. Anche in questo caso, statisticamente si evidenzia che le donne che godono di una istruzione di livello superiore e hanno comunque una autonomia economica derivante dal lavoro, non sottopongono le loro figlie alle MGF. Quindi anche nella diaspora, tali condizioni di emancipazione vanno garantite in modo da creare mediatrici efficaci di un cambiamento sostenibile in patria.

E’ un passaggio fondamentale, il cui primo scoglio da superare è proprio la condivisione. Le MGF sono un tabù, le comunità che le praticano non ne parlano, difficile immaginare una dodicenne che condivida questa esperienza con una coetanea in una scuola italiana, inglese o spagnola. Sono comprensibili anche i motivi: innanzi tutto si prova un senso di vergogna perché il proprio corpo è stato mutilato mentre il corpo delle altre bambine no, poi esiste un disagio evidente fisico, un trauma psicologico derivato dall’impossibilità di condurre una vita attiva pari a quella condotta fino al taglio. Inoltre c’è il dubbio giustificato di come si possa condividere qualcosa che altri non potrebbero capire o addirittura che potrebbero giudicare? La scuola secondo me dovrebbe essere il luogo primario da cui cominciare a riflettere sulla tematica fornendo ai ragazzi una documentazione completa sulle MGF, degli strumenti da utilizzare insieme agli educatori e alle famiglie per avvicinarli al problema con la consapevolezza che sta alla base di ogni cambiamento sostanziale. Di MGF si parla solo quando la cronaca riporta notizie drammatiche come quella della bambina egiziana Suahir morta dopo essere stata infibulata. La letteratura che ne parla in Italia è insufficiente anche perché è quasi tutta incentrata sugli aspetti antropologici della pratica, manca ad esempio una letteratura per ragazzi, a parte il libro di Silvana de Mari Il gatto dagli occhi d’oro, non ho trovato una pubblicazione per bambini/ragazzi che tratti l’argomento sotto forma di racconto-favola-fiaba. Sempre in Italia, e sempre secondo la mia esperienza, i consultori sono privi di materiale informativo sulle MGF, forse qualche eccezione saranno i consultori delle grandi città, ma realmente manca ogni possibilità di “sentire” che questo problema esiste anche qui. La legge del 2006 prevedeva uno stanziamento economico di diversi milioni di euro da destinare alla formazione del personale medico sanitario e alla realizzazione di opuscoli informativi, e sportelli di accesso per le donne vittime del taglio. Resta inteso che tali finanziamenti non sono stati investiti come previsto.

E’ per questo motivo, con uno sguardo speciale rivolto al mondo dei giovani, che io e il documentarista Lorenzo Moscia stiamo cercando di realizzare un film documentario che parli di MGF sempre però bypassando l’argomento attraverso i diversi linguaggi dell’arte che meglio di altri, sa veicolare il dolore e stimolare un pensiero creativo e sensibile. Il film documentario vuole essere uno strumento di dialogo e confronto, un’occasione per cominciare a riflettere sulla tematica coinvolgendo tutte le parti della società, e offrire anche proposte per un cambiamento sostenibile che abbatta gli stereotipi e i pregiudizi che purtroppo non aiutano le vittime ad aprirsi verso una possibilità di confronto. Il progetto di questo lavoro si chiama Breaking The Cut e per poterlo realizzare si avvale anche di un sistema di sottoscrizione popolare attraverso cui le persone diventano co-produttori del documentario. Una formula che oltre a permettere la realizzazione dello stesso, pone in essere un interesse nella gente che partecipando al progetto sostiene questa causa di impegno civile. Stiamo anche coinvolgendo artisti in giro per l’Italia che vogliono sostenerci con delle serate di poesia, musica, teatro, danza, una sorta di staffetta Artisti contro le MGF” .