Oggi,
per la Giornata contro le infibulazioni delle donne, ripubblichiamo
il testo di Valentina Acava Mmaka e la ringraziamo ancora per questo
suo importante contributo.
Ho
da poco concluso la prima parte di un tour in Italia cominciato a
marzo di quest’anno in cui ho portato in giro una performance
poetico-teatrale “The Cut-Lo Strappo” che è nata da una
esperienza che ho fatto in Sudafrica a Cape Town. Nel 2011 ho dato
vita ad un collettivo di donne con le quali volevo lavorare ad un
progetto di scrittura e diritti umani. Nel corso del periodo in cui
abbiamo lavorato insieme, sono state tante le tematiche affrontate,
quella che alla fine ha preso il sopravvento sulle altre è stata le
Mutilazioni Genitali Femminili (MGF). Il tema non mi era nuovo, avevo
già scritto di MGF, avevo già avuto modo anni addietro di
incontrare donne infibulate. Ma questa volta è stato diverso, perché
questa volta si è presentata a me in modo inaspettato. Nel corso del
lavoro una donna del collettivo mi ha confidato di essere stata
vittima del “taglio”. Ad un certo punto del nostro lavoro, nel
momento in cui riflettevamo sulla percezione di limiti e divieti
imposti dalla società, si deve essere creato in lei un conflitto tra
la sua esperienza e la possibilità di condividerla con il gruppo di
lavoro. Era sorto in lei un dubbio (è possibile condividere un
tabu’?), che al tempo stesso era una richiesta (come uscire dal
dolore? come riappropriarsi o costruirsi una vita senza una parte di
sé?). Sicuramente il potere della parola, dell’immaginario hanno
sortito in lei la consapevolezza che l’arte può essere
rappresentativa di una presa di posizione, di un’idea, di un
cambiamento. Lei aveva percepito, anche se non completamente a
livello conscio, che per cambiare si deve dire di NO a ciò che ad un
certo punto della tua vita ha impedito una scelta.
Oggi
sono 140 milioni circa le vittime nel mondo. Due milioni le bambine
che ogni anno nel mondo vengono sottoposte alle Mutilazioni Genitali
Femminili, denominazione entro cui rientrano diverse pratiche: dal
taglio del clitoride, l’escissione, l’infibulazione. Sono tutte
pratiche invalidanti e irreversibili, questo significa che la donna
mutilata è una donna che porta sul suo corpo il dolore fisico nel
quotidiano; il semplice urinare, il ciclo mestruale, la maternità,
sono tutti eventi in cui la donna patisce rischiando continuamente la
sua vita a causa di infezioni, setticemia, tetano, senza contare che
le mutilazioni aumentano il rischio di infertilità.
Le
MGF vengono praticate per diversi motivi: inibire il piacere sessuale
nella donna, che deve essere esclusivo dell’uomo; controllare la
fedeltà della donna (il dolore che la donna prova nel rapporto
sessuale e il suo piacere inibito, scoraggiano la donna a
intraprendere relazioni adulterine); rendere la donna pura asportando
quella parte del corpo ritenuta imperfetta. E’ importante
sottolineare che le MGF non sono una pratica prescritta da alcuna
religione, né tantomeno sono un problema solamente africano.
Certamente l’Africa è il continente con il maggior numero di paesi
dove sono praticate, ma ricordo che l’Indonesia, l’India, il Sud
America sono tra i le aree geografiche dove le MGF sono una pratica
tradizionale presso alcuni popoli. Uno degli aspetti raramente
condivisi e sottolineati è l’implicazione che questa pratica ha
non solo a livello culturale ma anche socio economico. Le MGF
praticate nei paesi di origine, non rispondo solo alla necessità di
ribadire un ideale che vuole la donna facilmente controllabile
dall’uomo, ma anche ad una esigenza di tipo economico. Innanzi
tutto la daya
che pratica le MGF vive
di questo, viene pagata per farlo, è il suo lavoro. Quindi al di là
del ruolo di prestigio sociale tramandato, la daya
svolge una professione
che è la sua fonte di guadagno. Inoltre la bambina senza il taglio è
una bambina che non potrà mai accedere al mondo femminile delle sue
coetanee tagliate, non potrà cioè sposarsi e questo vuol dire per
la famiglia niente dote, altra implicazione di tipo economico. Un
altro degli aspetti sconcertanti è che in alcune situazioni,
soprattutto là dove le mutilazioni sono praticate in altissima
percentuale, talvolta sono le bambine stesse a richiederla per non
essere discriminate a scuola o addirittura per andare a scuola visto
che chi non si sottopone al taglio, viene bandito dalla frequenza
della scuola. Questo è inquietante perché significa che è una
pratica talmente radicata e stigmatizzata che la mancanza di
partecipazione finisce per diventare una ulteriore condanna dalla
società, significa diventare ad un tratto delle “invisibili”,
delle “fuori casta” con le conseguenze del caso: discriminazione,
impossibilità di studiare, allontanamento della famiglia dal resto
della società. In questi casi estremi sembra 0non esserci una via
d’uscita. Ci sono due punti su cui mi piace riflettere: da una
parte c’è l’aspetto dei diritti umani che vanno tutelati in
toto, ad esempio, condannando anche qualunque tipo di rito
alternativo lieve come quello proposto dal medico somalo Omar
Abdulcadir. E su questo tema ci sarebbe molto da dire perché il
concetto di Diritti Umani non è riconosciuto universalmente allo
stesso modo ovunque. Essendo
i diritti umani non riconosciuti universalmente occorre legittimarli
attraverso il confronto pluralista con le culture che non li
contemplano nel loro sistema sociale tradizionale. Dall’altra
è il ruolo dei migranti nei paesi di immigrazione rispetto a questa
pratica. La pratica delle MGF si è diffusa a livello mondiale nella
nostra contemporaneità grazie ai flussi migratori di persone
provenienti da paesi dove essa è parte della tradizione socio
culturale. Anche in Sudafrica dove le MGF non sono precipue delle
culture locali, capitolo a parte i Venda che la praticano, ho
incontrato migranti provenienti dall’Africa orientale e occidentale
che continuavano a “tagliare” le loro bambine.
Credo
che il cambiamento sia possibile come è già avvenuto in alcuni
paesi e presso diverse comunità, soprattutto africane, nella
diaspora. Cambiare significa dire di NO non solo a livello
individuale, come scelta e decisione personale ma a livello familiare
e collettivo dell’intera comunità di appartenenza. L’opposizione
del singolo non porta all’abbandono collettivo della pratica,
tuttavia alzarsi in piedi e rivendicare i propri diritti che sono i
dritti fondamentali come quelli alla salute, a condurre una vita
completa, è fondamentale, può offrire una occasione per altre donne
di confrontarsi con la possibilità di cambiare collettivamente.
Lavorare sul cambiamento è possibile grazie ad un percorso di
conoscenza ed emancipazione nei paesi dove le mutilazioni sono
praticate. Le donne che si oppongono alle MGF vengono emarginate e
non godono più di quel sostegno economico che una famiglia può
darle per sopravvivere. Ecco che sradicare la pratica del taglio deve
nascere da un percorso dove la donna viene messa nella condizione di
scegliere e questa condizione prevede l’accesso all’istruzione e
l’acquisizione di una autonomia economica sostenibile che le
permetta di non doversi più sottomettere all’autorità maschile.
Il miglioramento della condizione femminile all’interno della
propria società originaria porta di riflesso anche ad una diversa
percezione delle tradizioni culturali e quindi ad esaminare credenze
e valori optando per un cambiamento nella loro pratica.
Un
ruolo determinante è quello rappresentato dalle comunità dei
migranti. I migranti che provengono da aree geografiche dove le MGF
sono praticate anche contro la legge, possono diventare mediatori di
un cambiamento. Vivere l’altrove inevitabilmente mette la persona
nella situazione di rapportarsi a nuove idee, a nuovi “modelli”,
a un concetto diverso della donna e dei suoi diritti. Conoscere
significa prendere coscienza. Se nell’altrove le comunità migranti
riescono ad acquisire consapevolezza circa la dannosità di questa
pratica e riescono, attraverso i loro figli, quindi i migranti di
seconda generazione, a interrompere il supplizio, allora possono
diventare gli interlocutori-fautori del cambiamento anche nei loro
paesi originari. Anche in questo caso, statisticamente si evidenzia
che le donne che godono di una istruzione di livello superiore e
hanno comunque una autonomia economica derivante dal lavoro, non
sottopongono le loro figlie alle MGF. Quindi anche nella diaspora,
tali condizioni di emancipazione vanno garantite in modo da creare
mediatrici efficaci di un cambiamento sostenibile in patria.
E’
un passaggio fondamentale, il cui primo scoglio da superare è
proprio la condivisione. Le MGF sono un tabù, le comunità che le
praticano non ne parlano, difficile immaginare una dodicenne che
condivida questa esperienza con una coetanea in una scuola italiana,
inglese o spagnola. Sono comprensibili anche i motivi: innanzi tutto
si prova un senso di vergogna perché il proprio corpo è stato
mutilato mentre il corpo delle altre bambine no, poi esiste un
disagio evidente fisico, un trauma psicologico derivato
dall’impossibilità di condurre una vita attiva pari a quella
condotta fino al taglio. Inoltre c’è il dubbio giustificato di
come si possa condividere qualcosa che altri non potrebbero capire o
addirittura che potrebbero giudicare? La scuola secondo me dovrebbe
essere il luogo primario da cui cominciare a riflettere sulla
tematica fornendo ai ragazzi una documentazione completa sulle MGF,
degli strumenti da utilizzare insieme agli educatori e alle famiglie
per avvicinarli al problema con la consapevolezza che sta alla base
di ogni cambiamento sostanziale. Di MGF si parla solo quando la
cronaca riporta notizie drammatiche come quella della bambina
egiziana Suahir morta dopo essere stata infibulata. La letteratura
che ne parla in Italia è insufficiente anche perché è quasi tutta
incentrata sugli aspetti antropologici della pratica, manca ad
esempio una letteratura per ragazzi, a parte il libro di Silvana de
Mari Il
gatto dagli occhi d’oro, non
ho trovato una pubblicazione per bambini/ragazzi che tratti
l’argomento sotto forma di racconto-favola-fiaba. Sempre in Italia,
e sempre secondo la mia esperienza, i consultori sono privi di
materiale informativo sulle MGF, forse qualche eccezione saranno i
consultori delle grandi città, ma realmente manca ogni possibilità
di “sentire” che questo problema esiste anche qui. La legge del
2006 prevedeva uno stanziamento economico di diversi milioni di euro
da destinare alla formazione del personale medico sanitario e alla
realizzazione di opuscoli informativi, e sportelli di accesso per le
donne vittime del taglio. Resta inteso che tali finanziamenti non
sono stati investiti come previsto.
E’
per questo motivo, con uno sguardo speciale rivolto al mondo dei
giovani, che io e il documentarista
Lorenzo
Moscia
stiamo
cercando di realizzare un film documentario che parli di MGF sempre
però bypassando l’argomento attraverso i diversi linguaggi
dell’arte che meglio di altri, sa veicolare il dolore e stimolare
un pensiero creativo e sensibile. Il film documentario vuole essere
uno strumento di dialogo e confronto, un’occasione per cominciare a
riflettere sulla tematica coinvolgendo tutte le parti della società,
e offrire anche proposte per un cambiamento sostenibile che abbatta
gli stereotipi e i pregiudizi che purtroppo non aiutano le vittime ad
aprirsi verso una possibilità di confronto. Il progetto di questo
lavoro si chiama Breaking
The Cut e
per poterlo realizzare si avvale anche di un sistema di
sottoscrizione popolare attraverso cui le persone diventano
co-produttori del documentario. Una formula che oltre a permettere la
realizzazione dello stesso, pone in essere un interesse nella gente
che partecipando al progetto sostiene questa causa di impegno civile.
Stiamo anche coinvolgendo artisti in giro per l’Italia che vogliono
sostenerci con delle serate di poesia, musica, teatro, danza, una
sorta di staffetta “Artisti
contro le MGF” .