Visualizzazione post con etichetta Mediterraneo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mediterraneo. Mostra tutti i post

lunedì 28 dicembre 2015

L'appello di Abdullah Kurdi (il padre del piccolo Aylan), l'Europa e le migrazioni


Continuano a susseguirsi i naufragi dei migranti in mare e, tra loro, anche tanti, troppi bambini. Nel 2015 il numero dei bambini che hanno perso la vita nel Mediterrabneo è raddoppiato rispetto all'anno precedente ed è salito a 3200, oltre 700 dallo scorso gennaio: questi sono i dati riportati dalla fondazione Migrantes. Anche il mare Egeo è diventato, purtroppo, un cimitero d'acqua a dimostrazione del fatto che l'Europa - in terra e in mare – non è ancora in grado di gestire la criminalità dei viaggi, dare vera accoglienza ai profughi e ai rifugiati, salvare vittime innocenti, come ha sottolineato, pochi giorni fa Monsignor Gian Carlo Perego – Direttore generale di Migrantes: “ L'Europa sembra ora, a fronte della minaccia terroristica, giustificare i muri e la chiusura delle frontiere...L'accoglienza ai nostri porti, anziché in centri di accoglienza aperti, sembra affidarsi ancora una volta a centri chiusi, gli 'hotspots', come dimostra il Centro di accoglienza di Lampedusa: più di 20.000 persone arrivate al porto e trasferite al Centro, chiuso ad ogni ingresso e uscite”, parole dure alle quali ha aggiunto: “ le istituzioni Ue e Stati devono correggere le lacune nel funzionamento degli hotspot, incluso stabilire le necessarie capacità ricettive per raggiungere gli obiettivi e concordare rapidamente un preciso calendario affinchè anche gli altri hotspot diventino operativi”.



Intanto, per chi ancora non lo avesse ascoltato, riproponiamo l'importante appello di Abdullah Kurdi, il padre del piccolo Aylan, il bambino siriano di tre anni, annegato nel Mar Egeo, tra Grecia e Turchia, insieme al fratellino Galip e alla madre Rehan.
 
 
 
 
 




domenica 20 dicembre 2015

Migrazioni: dall'attualità alla graphic novel

Presso il museo Mudec di Milano, l'Associazione per i Diritti umani ha approfondito il tema delle migrazioni con gli interventi di Edda Pando (attivista e membro di Todo Cambia), Veronica Tedeschi (giurista) e Monica Macchi che ha illustrato il contenuto della graphic novel intitolata "Se ti chiami Mohamed".
Informazioni utili da fonti attendibili, approfondimento sui termini corretti da usare, definizioni giuridiche in tema di migrazioni e molto altro...nel video dell'incontro che, speriamo, possa essere utile anche a scopo didattico.


Tutti i video degli incontri pubblici organizzati da noi, sono disponibili sul canale Youtube dell'Associazione per i Diritti Umani e sul canale di Alessandra Montesanto.


Ecco a voi il video!



martedì 15 dicembre 2015

America latina: i diritti negati. Che cosa fare?



di Mayra Landaverde



In questi giorni di cortei, presidi e riunioni ho notato che tanti compagni si chiedono se davanti a tutte queste tragedie sia davvero utile continuare nella lotta. La lotta contro il razzismo, la corruzione, l'indifferenza ecc.

I risultati sono spesso scarsi o nulli. La stanchezza si fa molto presente fra noi.

Ieri, durante un corso, una partecipante ha chiesto al relatore cosa fare.

Sì, cosa fare? Andare in manifestazione? Realizzare uno striscione? Fare uno sciopero della fame? Incatenarsi davanti a qualche palazzo istituzionale?

Io non credo che nessun attivista o nessun docente abbia una risposta concreta.

E anche a me viene una stanchezza terribile quando vedo al nostro presidio per i nuovi desaparecidos - ogni giovedì - la gente che passa e non si ferma, non ci guarda e tante volte non accetta nemmeno il nostro volantino.

Sono tutti impegnati a faregli acquisti di Natale.

Come potrebbero essere interessati a dei ragazzi che ormai sono morti e sepolti in fondo al Mediterraneo? A chi potrebbe mai interessare la sorte di migliaia di centroamericani dispersi da qualche parte in Messico? Chi vorrebbe mai sapere di tutti i messicani che muoiono abbandonati nel deserto o annegati nel Río Bravo per attraversare la frontiera con gli Stati Uniti?

Non interessa a nessuno. Perché non li vedono. Perché sono numeri, cifre da telegiornale. Statistiche.

Allora, chiedono i compagni. Che cosa fare?

Facciamoglieli vedere. Proprio davanti ai loro occhi. Portiamoli qui nel centro città.

Il 25 aprile scorso , come Rete per i Nuovi Desaparecidos, abbiamo deciso di creare cartelli con le foto dei ragazzi algerini e tunisini dispersi nel Mediterraneo. Poche volte nella mia vita mi sono commossa in questo modo. La gente ha cominciato ad applaudire mentre noi camminavano in silenzio con i cartelli e quei volti appesi al collo , volti di persone di cui non si sa più nulla da anni.

Sono spariti, sono desaparecidos.

Noi li stiamo cercando! Vogliamo sapere dove sono. Non li portiamo per fare qualsiasi cosa.

Li portiamo perché le loro famiglie li cercano ma non possono essere qui. Perché ci hanno affidato questo grandissimo impegno e noi lo abbiamo accettato. Io l'ho accettato perché sono madre e non riesco nemmeno a immaginare la disperazione del non sapere dove sia finito mio figlio.

Che cosa fare chiedono i compagni.

Bene, prendete una di queste foto e cercateli con noi.

Ieri, 14 dicembre 2015, giornata importante a Milano, mentre si ricordava la strage di Piazza Fontana, abbiamo deciso di continuare ancora col nostro presidio, ma non da soli. Ora ci sono anche Torino, Palermo e Roma. E la stanchezza si sente già meno.

Facciamoci contagiare dai movimenti dell'America Latina. Noi siamo stanchi, ormai è da giugno che organizziamo questo presidio.

La carovana di madri centroamericane in cerca dei loro figli e figlie dispersi in Messico lo fanno da 11 anni. Saranno stanche anche loro, certo.

Ma stanno cercando i loro cari e vanno avanti, nessuno le ferma, neanche il governo messicano che ci ha provato in tutti i modi, negando il loro ingresso nel paese. Nessuno le ha fermate. Nemmeno quando trovano i propri figli. Emeteria Martínez cercò per 21 anni sua figlia. E continuò ad accompagnare le altre mamme anche dopo aver trovato la figlia.

Questo movimento ha trovato finora 200 persone e soltanto quest'anno ne sono già stati ritrovati altri quattro.

Ecco cosa fare.

Facciamoci contagiare da loro, dalla loro inesauribile voglia di cambiare il mondo.


martedì 1 dicembre 2015

America latina: i diritti negati



Chi cerca, trova.


di Mayra Landaverde



Da alcuni mesi la Rete Milano Senza Frontiere organizza un presidio in piazza Scala, in centro. Da maggio e fino al 18 dicembre, Giornata Internazionale del Migrante. Arriviamo, allestiamo la piazza con delle foto e delle maschere, con dei cartelli. Poi ognuno di noi prende una foto di uno dei tantissimi ragazzi dispersi nel Mediterraneo e giriamo in circolo. Vi ricorda qualcosa? 



Negli anni della dittatura in Argentina un gruppo di mamme ha deciso di fare la stessa cosa.



Allora era vietato qualsiasi tipo di manifestazione e le persone non potevano sostare davanti alla Plaza de Mayo, per cui la polizia ha chiesto loro di “girare”. Dal 30 aprile 1977 lo fanno, con le foto dei loro figli e nipoti desaparecidos. Vogliono sapere dove sono.



Cosi come le madres, esiste anche un’associazione di nonne: Asociacion Civil Abuelas de Plaza de Mayo e s’incaricano di cercare i bambini che sono stati sequestrati durante la dittatura e restituirli alle loro vere famiglie.



Dal 1977 al 2015 hanno recuperato 118 nipoti.



Sono state candidate al Nobel per la pace in diverse occasioni. Nel 2011 hanno ricevuto il premio Felix Houphouet-Boigny dall’UNESCO per il loro grande lavoro.



Anche noi vogliamo sapere dove sono le migliaia di desaparecidos del Mediterraneo. Lo vogliono sapere le madri tunisine e algerine che ci hanno affidato le foto dei loro cari.
 
 
 




E continueremo a cercarli insieme ai loro parenti.



Dall’altra parte del mondo in Latinoamerica ci sono altre madri che cercano i loro figli dispersi nel loro transito per il Messico. Tutti col sogno di arrivare negli Stati Uniti per avere una vita migliore e un futuro da offrire alle proprie famiglie. Purtroppo sono pochissimi quelli che arrivano alla frontiera nord. Prima devono attraversare tutto il Messico.  



A piedi o sopra il tetto dei treni. Scappando dalla polizia migratoria, dai militari e dai narcotrafficanti. E’ una delle rotte più pericolose che esistano.



Per le donne particolarmente.



Più del 70% delle donne migranti vengono violentate una o più volte durante il viaggio.



Ogni anno entrano clandestinamente in Messico 45,000 donne centroamericane.



La violenza sessuale è considerata “normale” , parte del viaggio, moneta di scambio. Lo si sa, i trafficanti chiedono soldi ma anche sesso in cambio di far passare le frontiere.

Per questo motivo tante donne prima di iniziare il viaggio prendono l’iniezione anti-Messico che non è altro che un anticoncezionale di lunga durata. Il Depo Provera è un contraccettivo ormonale in forma liquida che si somministra tramite iniezione ogni 12 settimane. Ma l’iniezione non le salva sicuramente dalla violenza e dai traumi che può subire una donna vittima dei trafficanti o degli stessi funzionari pubblici come gli agenti della polizia o i militari. Tante altre sono sequestrate e vendute per meno di 300 dollari per finire nella prostituzione. La CNDH ( Comision Nacional de Derechos Humanos) registrò, fra il 2009 e il 2011,più di 20 mila sequestri.Il Movimento Migrante Mesoamericano organizza da 11 anni la Caravana de Madres Centroamericanas de migrantes desaparecidos en su tránsito por México.
Lunedì 30 Novembre parte l’undicesima Carovana Migrante da Tenosique cittadina del sud messicano. Percorreranno più di 4 mila km cercando città per città i loro, i nostri desaparecidos.Dal 2004 la Carovana ha trovato 200 di questi figli. E’ questa la forza che spinge tutte queste madri: la speranza di ritrovare le figlie, i figli. Vivi. Siano madri argentine, tunisine o centroamericane. Tutte li cercano e noi dovremmo cercarli insieme a loro. Smettiamo di essere spettatori silenti.
 
 
Sono loro le madri è vero, ma siamo tutti figli di questo mondo.


domenica 27 settembre 2015

Berlino accolga anche chi fugge per fame. La maggior parte delle persone che attraversano i confini europei per trovare lavoro e costruire nuove vite non sono rifugiati.

di Ian Buruma    (da La stampa)



Com’è commovente arrivare in Germania, dove i tifosi di calcio reggono striscioni di benvenuto ai rifugiati dal Medio Oriente devastato dalla guerra. La Germania è la nuova terra promessa per i disperati e gli oppressi, i sopravvissuti alla guerra e alla razzia.
Anche i tabloid tedeschi popolari, di norma non molto disponibili, stanno promuovendo la volontà di aiutare. Mentre i politici nel Regno Unito e in altri Paesi si torcono le mani e spiegano perché anche un afflusso relativamente minore di siriani, libici, iracheni, o eritrei rappresenta una minaccia letale per il tessuto sociale delle loro società, «Mama Merkel» ha promesso che la Germania non rifiuterà nessun autentico rifugiato.
Si stima che quest’anno entreranno in Germania 800 mila rifugiati, mentre il primo ministro britannico David Cameron sta sollevando un polverone per meno di 30 mila domande di asilo e lancia cupi allerta su «sciami di persone» che attraversano il Mare del Nord. E, a differenza della Merkel, Cameron è in parte responsabile per aver attizzato una delle guerre (Libia) che hanno reso la vita insopportabile per milioni di persone. Non c’è da stupirsi che la Merkel voglia che i Paesi europei prendano più rifugiati nell’ambito di un sistema di quote obbligatorie.
In realtà, nonostante la retorica ansiogena dei suoi politici, il Regno Unito ha una società etnicamente più mescolata, e per certi versi più aperta, della Germania. Londra è incomparabilmente più cosmopolita di Berlino e Francoforte. E, nel complesso, la Gran Bretagna ha ampiamente beneficiato dell’immigrazione. Infatti, il Servizio Sanitario Nazionale ha avvertito che accettare meno immigrati sarebbe catastrofico e lascerebbe gli ospedali britannici gravemente a corto di personale.
Lo stato d’animo della Germania contemporanea può essere eccezionale. Accettare rifugiati, o qualsiasi genere di immigrati, non è mai stato facile politicamente. Alla fine degli Anni 30, quando gli ebrei in Germania e in Austria erano in pericolo di vita, pochi Paesi, tra cui i ricchi Stati Uniti, erano pronti a prendere più di una manciata di rifugiati. La Gran Bretagna aprì le porte a circa 10 mila bambini ebrei nel 1939, all’ultimo minuto, e solo a condizione che avessero sponsor locali e non avessero con loro i genitori.
Dire che l’atteggiamento generoso della Germania di oggi ha molto a che fare con il comportamento omicida dei tedeschi in passato non serve a spiegarlo. Anche i giapponesi portano un carico di crimini storici, ma il loro atteggiamento verso gli stranieri in difficoltà è molto meno accogliente. Anche se pochi tedeschi hanno ricordi personali del Terzo Reich, molti sentono ancora il bisogno di dimostrare che hanno imparato dalla storia del loro Paese.
Ma l’attenzione quasi esclusiva dei politici e dei media sull’attuale crisi dei rifugiati nasconde questioni più ampie sull’immigrazione. Le immagini di misere famiglie di profughi alla deriva in mare, in balia di contrabbandieri e gangster rapaci, può facilmente ispirare sentimenti di pietà e compassione (e non solo in Germania). Ma la maggior parte delle persone che attraversano i confini europei per trovare lavoro e costruire nuove vite non sono rifugiati.
Quando i funzionari britannici hanno detto che era «chiaramente deludente» che in Gran Bretagna ci fossero 300 mila persone in più rispetto a quante ne fossero andate via nel 2014, non stavano parlando principalmente di richiedenti asilo. La maggioranza di questi nuovi arrivati provengono da altri Paesi dell’Unione europea, come la Polonia, la Romania e la Bulgaria.
Alcuni entrano come studenti, e alcuni per cercare un lavoro. Non vengono per salvarsi la vita, ma per migliorarla. Accomunando i richiedenti asilo con i migranti economici, questi ultimi sono screditati come se stessero cercando di intrufolarsi con falsi pretesti.
È opinione diffusa che i migranti economici, dentro o fuori dell’Ue, siano principalmente poveri intenzionati a vivere con i soldi delle tasse pagate dai relativamente ricchi. In realtà, la maggior parte di loro non sono parassiti. Vogliono lavorare.
I vantaggi per i Paesi ospitanti sono facili da vedere: i migranti economici spesso lavorano di più per meno soldi rispetto alla gente del posto. Questo, per la verità, non è nell’interesse di tutti: ricordare i benefici della manodopera a basso costo non persuade le persone a rischio di vedersi tagliare il salario. È, in ogni caso, più facile fare appello alla compassione per i rifugiati che all’accettazione dei migranti economici. Anche in Germania.
Nel 2000, il Cancelliere tedesco Gerhard Schröder voleva rilasciare visti di lavoro per circa 20.000 stranieri esperti di alta tecnologia, molti dei quali provenienti dall’India. La Germania ne aveva un grande bisogno ma Schröder incontrò una dura opposizione. Un politico coniò lo slogan «Kinder statt Inder» (bambini invece di indiani).
Ma i tedeschi, come i cittadini di molti altri Paesi ricchi, non producono abbastanza bambini. Questi Paesi hanno bisogno di immigrati con energia giovanile e competenze per riempire i posti di lavoro che i locali, per qualsiasi motivo, non sono in grado o non vogliono. Questo non significa che tutte le frontiere debbano essere aperte a tutti. L’idea della Merkel delle quote per i rifugiati dovrebbe essere applicata anche ai migranti economici.
Finora, tuttavia, l’Ue non ha saputo adottare una politica coerente sull’immigrazione. I cittadini dell’Ue possono circolare liberamente all’interno dell’Unione (la Gran Bretagna vuole fermare anche questo, ma è improbabile che possa avere successo). Ma l’immigrazione economica dai Paesi non Ue, in condizioni da organizzare in modo accurato, è indispensabile e legittima. Questo non perché i migranti meritino la simpatia degli europei, ma perché l’Europa ha bisogno di loro.
Non sarà facile. La maggior parte delle persone sembrano essere più facilmente influenzate dalle emozioni - che possono portarle all’omicidio di massa o a un’autentica compassione, a seconda delle circostanze - che dal freddo e razionale calcolo del loro interesse personale.




sabato 26 settembre 2015

Rifugiati in Tunisia: tra detenzione e deportazione

Premessa

Negli ultimi mesi abbiamo assistito al tentativo di rilanciare il progetto di esternalizzazione delle frontiere europee. Un piano di esternalizzazione su piú fronti, che sulla carta riguarderebbe sia le politiche di controllo e di intercettazione dei migranti diretti in Europa, -con la firma del processo di Karthoum il 28 novembre 2014 ma già in parte preannunciato nella Task Force per il Mediterraneo partita nel novembre 2013 - sia le politiche di asilo, secondo quanto proposto dal Ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano durante il Consiglio “Giustizia e Affari Interni” dell’Unione europea del 12 marzo 2015. La Tunisia, insieme a Egitto, Marocco, Niger e Sudan, viene presentata come uno dei primi “laboratori” in cui dovrebbero venire attivati i progetti di esternalizzazione dell’asilo attraverso l’apertura di campi di “accoglienza” finanziati dall’Unione europea. E la Tunisia sarebbe anche uno dei due paesi, insieme all’Egitto, a cui l’Europa chiederà di impegnarsi in attività di sorveglianza marittima e di Search and rescue. Se così fosse, le imbarcazioni di migranti provenienti dalla Libia verrebbero intercettate dalla Garde Nationale tunisina e i migranti verrebbero trasferiti sul territorio tunisino dove le autorità tunisine verrebbero coadiuvate da OIM e UNHCR nelle procedure di esame delle domande di asilo e nella gestione dei potenziali rifugiati. Obiettivo che, in fondo, l’Unione europea aveva in parte provato a raggiungere nel marzo del 2014, ottenendo la firma della Tunisia sul partenariato di mobilità che tuttavia per il momento resta in fase di negoziazione. Certamente, gli accordi bilaterali tra Tunisia e stati europei, primo tra tutti l’Italia che nel giugno 2014 ha ulteriormente rafforzato i rapporti con la Tunisia in materia di migrazioni, non costuiscono affatto una novità; e, tuttavia, l’attuale progetto di cooperazione con i Paesi terzi sul controllo dell’immigrazione e per l’esternalizzazione dell’asilo, che vede la Tunisia tra i primi stati-laboratorio, sembra indicare un cambio di marcia nella costruzione di uno spazio di pre-frontiere europee. Mentre l’Unione europea sta dunque progettando di rafforzare le proprie pre-frontiere, umanitarie e non, esternalizzando politiche di controllo, campi di detenzione e meccanismi di protezione, alcuni dei rifugiati “diniegati” di Choucha sono ancora al campo, chiuso ufficialmente da UNHCR nel giugno 2013, da ormai quattro anni, chiedendo all’Europa di essere reinstallati in un luogo sicuro.

Il dossier che presentiamo racconta quanto sta accadendo ai migranti e ai rifugiati in Tunisia, in particolare rispetto a coloro che vengono imprigionati nel Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia, in un quartiere della periferia di Tunisi.

Dossier sulla situazione del Centro di detenzione per stranieri a Al Wardia, Tunisi (Glenda Garelli, Federica Sossi, Martina Tazzioli)

La situazione del Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia è particolarmente allarmante. Sappiamo che ogni mese vi vengono detenuti centinaia di migranti, senza alcuna possibilità di un sostegno legale e giuridico e, per questo, in totale balia dei poliziotti che gestiscono il Centro. I prigionieri con cui siamo riuscite a entrare in contatto telefonico ci hanno descritto una situazione molto critica, dovuta all’assenza di possibili contatti con il mondo esterno, al sovraffollamento delle celle, alla pressione da parte dei poliziotti e ai ricatti subiti per ogni domanda, alla carenza di vere cure mediche, alla situazione di scarso igiene e allo scarso cibo distribuito. Ma il fatto più preoccupante è l’assenza di ogni forma di assistenza giuridica, di modo che tutto ciò che avviene durante la detenzione e dopo è sul piano dell’illegalità. I migranti detenuti a Wardia hanno due possibilità di uscire. La prima consiste nel pagare loro stessi il biglietto per il loro rimpatrio. Segnaliamo, inoltre, che nel Centro vengono imprigionati anche i rifugiati siriani, che, non potendo evidentemente rientrare nel loro paese, sono obbligati a pagarsi un biglietto per la Turchia. Nel Centro, vengono inoltre detenuti anche rifugiati a cui l’Unhcr ha riconosciuto lo status in altri paesi. La seconda possibilità di uscire dal Centro è quella di essere deportati in Algeria. Ogni settimana, infatti, ci sono delle deportazioni durante la notte o nelle prime ore del mattino: i migranti vengono condotti in un posto di frontiera vicino alla città di Kasserine e lasciati dall’altra parte, in una zona desertica. Spesso ci sono casi di morte, perché i migranti si perdono prima di arrivare in un luogo abitato. Siamo venute noi stesse a conoscenza della morte di due migranti di origine somala, con cui eravamo in contatto durante la loro detenzione a Al Wardia e che in seguito erano stati deportati insieme ad altre persone. I sopravvissuti a questa deportazione ci hanno chiamate da una città algerina per raccontarci di questa vicenda. Vicino alla prigione per gli uomini c’è anche un luogo di detenzione per le donne e i bambini. Con questo Centro non siamo riuscite a stabilire un contatto diretto, ma siamo a conoscenza della sua esistenza attraverso le testimonianze dei rifugiati siriani con cui abbiamo potuto parlare e le cui famiglie erano detenute nei locali di quest’altro Centro. Abbiamo tali informazioni perché durante il mese di novembre 2014 siamo state contattate da un rifugiato diniegato del campo di Choucha che era stato imprigionato a Wardia e che avevamo conosciuto in occasione di una nostra visita al Campo. Abbiamo dunque potuto parlare con lui e con altre persone presenti al Centro a più riprese, sebbene ogni volta, dopo le nostre conversazioni al telefono, i migranti siano stati minacciati dai poliziotti. Abbiamo potuto anche mantenere i contatti dopo i loro rimpatri o le loro deportazioni. Abbiamo così raccolto diverse testimonianze di cui qui pubblichiamo quelle che abbiamo potuto registrare e trascrivere.

Intervista a A. dopo il suo rimpatrio (gennaio 2013)

D : Ci puoi descrivere la prigione di Tunisi in cui sei stato ? Vorremmo cercare di capire se sia possibile fare qualcosa per denunciare la situazione e per le altre persone che vi sono ancora detenute.

R: I poliziotti tunisini arrestano le persone straniere per la strada e poi le obbligano a pagare il biglietto per il loro rimpatrio.

D : Nel Centro di Al Wardia ci sono dunque solo migranti, alcuni che sono stati arrestati per strada e altri che arrivano direttamente dalla prigione?

R: Sì. Ci sono stranieri, perché è un Centro per gli stranieri, ci sono i rifugiati siriani che arrivano in Tunisia e anche alcuni rifugiati di Choucha, come me per esempio. All’interno, devi pagare per ogni cosa, se vuoi avere il cellulare, devi pagare 200 dinari. C’è soprattutto un commissario della polizia di frontiera che lavora con la Garde Nationale, è lui che organizza le cose. Dopo essere state nel Centro, le persone vengono deportate verso l’Algeria e vengono abbandonate verso mezzanotte nel deserto, nei pressi della città di Tebessa.

D : Quanti prigionieri c’erano al Centro quando sei arrivato lì?

R : C’erano continuamente nuovi arrivi, i nuovi arrivano il giovedì e la domenica.

D: Ma dove vengono deportati esattamente, in quale città dell’Algeria?

R : Per quanto riguarda l’Algeria non lo so esattamente, so che per quanto riguarda la Tunisia passano dalla città di Kasserine. So che in Algeria li lasciano vicino a una piccola città, subito dopo la frontiera.

D: Ma c’è un accordo tra la Tunisia e l’Algeria per le deportazioni?

R : No, non c’è un accordo, li lasciano lì clandestinamente. Gli danno una bottiglia d’acqua, una baguette e li abbandonano lì.

D: E’ quello che è successo anche ai somali che erano in prigione con te? E dopo che cosa è successo?

R : Alcuni si sono persi nel deserto e sono morti, mentre i nigeriani che erano con loro hanno camminato molto ma alla fine si sono ritrovati di nuovo in Tunisia, con i poliziotti tunisini. Quanto i somali che erano nella mia stessa cella sono stati deportati, i poliziotti mi hanno fatto molta pressione dicendomi che se non avevo i soldi per comperare il biglietto di rimpatrio mi avrebbero deportato in Algeria come avevano già fatto con i miei compagni di cella.

D: Quanto tempo sei rimasto a Al Wardia?

R: Due mesi. A Al Wardia c’erano circa 100 persone, ma bisogna tener conto anche delle persone che sono negli altri quattro Centri. Non so esattamente dove si trovino, io conosco quello di Alaouina ; e per tutti i Centri c’è un unico medico, così, se sei malato, ti dicono che devi aspettare il tuo turno, perché il medico deve andare anche negli altri Centri.

D : Ma nel Centro è possibile avere contatti con l’esterno ? potete tenere il cellulare?

R : Sì, ma bisogna pagare. Nel periodo in cui ero a Al Wardia un mio amico ha avuto la possibilità di avere un avvocato, quando vi aveva contattato e voi l’avevate messo in contatto con un avvocato. Nessuno prima di lui aveva avuto questa possibilità. Il poliziotto gli ha detto che aveva avuto una grande fortuna perché, appunto, nessuno prima di lui aveva avuto un avvocato. L’avvocato che è entrato al Centro ha fatto delle domande e il direttore gli ha risposto che il paese è di tutti, ma che bisogna rispettare le regole. Hanno minacciato l’avvocato, dicendogli che gli avrebbero potuto creare problemi nel caso in cui avesse continuato ad occuparsi del mio amico. Poi, quando l’avvocato se n’è andato, la polizia è venuta nella cella per minacciare il mio amico proprio perché aveva un avvocato e delle persone in Italia che si occupavano di lui e che lo aiutavano. Non riuscivano a capire, gli hanno fatto un sacco di domande rispetto a ciò, sia rispetto al fatto che conoscesse degli italiani sia rispetto al fatto che avesse un avvocato. L’hanno interrogato varie volte, e infine gli hanno detto che doveva comperare il suo biglietto d’aereo, e di farlo in fretta, perché non volevano che un avvocato e altre persone si occupassero di questa cosa. Gli hanno detto che doveva andarsene il prima possibile, perché altrimenti l’avrebbero deportato in Algeria; è per questo che aveva paura e che vi ha chiesto di aiutarlo a comperare il biglietto.

D: Quante persone sono state deportate in Algeria durante il periodo in cui sei stato lì.

R: 26 persone, perché non avevano assistenza giuridica o i soldi per comperarsi il biglietto per il rimpatrio.

D : Solo uomini ?

R: Per quanto riguarda le donne, non lo so, perché erano in un Centro vicino ma io non riuscivo a vederle. Ma per quanto riguarda gli uomini sono sicuro, la Tunisia non è un paese accogliente.

D: E per quel che concerne i rifugiati siriani, che viaggio fanno per arrivare in Tunisia?

R : Arrivano dalla Turchia con l’aereo.

D: E’ per questo che al Centro di detenzione gli chiedono di ritornare in Turchia?

R: Alcuni arrivano dall’Egitto passando attraverso il Libano, oppure arrivano in Libia con la barca. Qui, in generale, i visti hanno una validità di tre mesi, e quando il tuo visto scade bisogna pagare 100 dinari al mese per avere una carta provvisoria. Se sei al Centro di detenzione, per il rimpatrio ti chiedono di pagare l’intera somma che non hai pagato a partire dalla data di scadenza del tuo visto. Per questo l’Oim non riesce a organizzare i rimpatri, perché anche l’Oim secondo le autorità tunisine deve pagare l’intera somma, non solo quella del biglietto. Per quanto ci riguarda, noi di Choucha, che siamo in Tunisia da molto tempo e che adesso non abbiamo i documenti, siamo quasi obbligati a cercare di prendere la barca per andare in l’Italia. Io ho potuto vedere a Zarzis quanto guadagnano quelli che organizzano i viaggi, ho fatto anche dei video nei luoghi di partenza, e ho potuto rendermi conto di quanti soldi guadagnano. Ho scattato foto e ho fatto dei video, e scrivevo. Sono stato anche a Zwara per vedere i contrabbandieri. Di fatto, i giovani partivano. Ma tutti i miei video e le mie foto, ed anche la mia apparecchiatura, sono rimasti nella mia camera a Tunisi. Ero lì quando c’è stato il naufragio di 250 persone, tra cui molti rifugiati di Choucha. Quando le autorità tunisine hanno dichiarato che il campo di Choucha era stato chiuso e che non esisteva più, mentre noi rifugiati diniegati eravamo ancora lì, l’Unhcr non si è più occupata di noi. Siamo a Choucha dal 2011, ma i documenti che ci sono stati dati dall’Unhcr ci creano problemi se incontriamo la Garde Nationale. Ci ritirano i documenti e ci mettono in prigione.

D : L’Unhcr vi diceva di andare in Libia ?

R : No, non ci dicevano proprio nulla. Ci dicevano solo che non potevamo rimanere lì, e che dovevamo organizzarci per rientrare nei nostri paesi.

D : Hai dei contatti con le persone che sono state deportate in Algeria ?

R: Conosco i somali che sono stati deportati e anche un ragazzo che si chiama T. Lui mi aveva chiamato e mi aveva spiegato che in Algeria i poliziotti li mettono in prigione e dopo sei mesi li portano nel deserto tra l’Algeria e il Niger. Una volta arrivati lì, hanno 15 giorni per lasciare l’Algeria, se non se ne vanno di propria iniziativa e a proprie spese allora vengono deportati. Ma ci sono altre persone che vi possono raccontare meglio di me, due nigeriani che erano a Ben Guerdane. Uno di loro, O., può dirvi quello che succede perché loro due erano stati arrestati dalla polizia tunisina perché non avevano il passaporto e sono stati deportati in Algeria con i somali che erano nella mia stessa cella a Al Wardia. Hanno camminato a lungo, e mentre alcuni dei somali sono morti, loro si sono ritrovati di nuovo in Tunisia. La polizia tunisina li ha presi di nuovo, ma ora penso che siano a Ben Guerdane.

D : Dunque, per ritornare a questo episodio, sappiamo che due persone sono morte, ma in quale modo ?

R : Sono morte di sete nel deserto. Se si va da quelle parti con quelli della Mezzaluna rossa, si può trovare il punto in cui sono morti.

D: Ci sono altre persone, oltre ai somali, che sono morte nel deserto ?

R : Sì, molte. Quello delle deportazioni in Algeria è un sistema in atto da molto tempo, ben prima che io fossi portato in prigione. Prima della guerra, le deportazioni venivano effettuate verso la Libia, ma ora, con i problemi in Libia, deportano verso l’Algeria. Le persone deportate vengono lasciate dalla polizia dalla parti del monte Chaambi, il punto in cui ci sono i salafiti e la polizia che li combatte. Il monte Chaambi è vicino alla città di Kasserine.

D: C’erano dei medici nella prigione?

R: C’era un medico che si occupava delle donne e dei bambini. Se hai qualcosa di grave, ti portano direttamente all’ospedale.

D : E né l’Unhcr né l’Oim sono mai venuti a parlarvi ?

R: Mai. C’erano alcuni giovani che chiamavano continuamente Alessandra dell’Oim, ma quelli dell’Oim dicevano che non avevano soldi e quindi che non potevano aiutarli. Io ho il numero di telefono di Alessandra dell’Oim di Tunisi, sul mio cellulare.

D : E quindi voi eravate in contatto solo con la polizia ? Ma chi era in prigione tra le persone di Choucha?

R : Io avevo i documenti dell’Unhcr, il documento che ci hanno dato a Choucha quando siamo arrivati lì.

D : Che cosa si può fare secondo te per denunciare quello che sta accadendo ?

R : Bisogna denunciare quello che fanno, dire che fanno dei rastrellamenti per la strada, e che, dopo, portano le persone nel deserto e li condannano a morire lì. Questo non è possibile, tutti hanno il diritto a vivere. Ho dato le foto che avevo al giornale “Jeune Afrique”, perché conosco qualcuno che vi lavora e ho domandato di pubblicarle. Ho collaborato con Lorena Lando dell’Oim per cercare di capire come si organizzano le persone che vanno in Libia; ad Alessandra dell’Oim di Tunisi ho raccontato tutti i dettagli dei viaggi verso l’Italia e le morti in mare, e lei mi ha risposto che era troppo complicato.

D : Puoi raccontarci meglio com’è la situazione in prigione ?

R : A volte la polizia era violenta nei nostri confronti. A volte ci davano lo stesso cibo per l’intera giornata, e spesso riso cotto male, oppure fagioli con la carne. Sempre le stesse cose. A mezzogiorno riso e la sera couscous, o viceversa. A volte pasta senza carne. Avevo sempre la mia acqua. Non ci lasciano mangiare, non ci danno il bagnoschiuma o il sapone per la doccia. I bagni sono terribili, non vengono puliti mai e le persone possono prendersi delle malattie.

D : Ma le celle sono diverse nel caso in cui qualcuno paghi ?

R : Le persone che devono essere rimpatriate in settimana pagano i poliziotti per avere condizioni migliori e per poter stare in una cella migliore, come ha fatto, per esempio, il signore del Gambia con cui avete parlato.

D : Queste persone hanno il soldi per poter avere una cella migliore ?

R : Se gli dai dei soldi ti mettono in una cella migliore.

D : Ma sempre nella stessa prigione ?

R: Se hai i soldi puoi andare nelle celle migliori, ma solo per una settimana. Quando acquisti il biglietto d’aereo ti mettono in una di queste celle per due settimane sino al momento della partenza. Le persone che vengono arrestate (per esempio, una persona che aveva una ditta e che quindi aveva un po’ di soldi, o i siriani che hanno un po’ di soldi) possono pagare per avere migliori condizioni di detenzione, e vengono spostate in una caserma vicina.

D : Ma sempre nella stessa struttura?

R: Sempre a Al Wardia, ma non nello stesso edificio. Le celle sono nello stesso complesso, ma in un altro edificio, una caserma. Una parte dell’edificio è per la Garde Nationale, e poi c’è un altro edificio. Inoltre: dal momento che i siriani hanno un po’ di soldi, la polizia aumenta il prezzo e così devono pagare di più, e devono farlo in dollari, non in dinari. Ai siriani gli fanno pagare 300 dollari. Nel periodo in cui sono stato lì ci sono state le seguenti deportazioni: 240 siriani deportati in Algeria e 180 in Turchia; dunque, più di 300 persone in totale – dopo cerco il foglio in cui l’avevo scritto e vi dico esattamente.

Grazie mille e grazie per il tuo aiuto. Cercheremo di fare qualcosa. Comunque, restiamo in contatto.

*** Intervista con D.  (febbraio 2013)

D : Conosci dei rifugiati con lo status che sono stati imprigionati a Wardia ?

R : Sì, certo. C’era anche una persona di Choucha con lo status di rifugiato che, a un certo punto, aveva deciso di andare in Libia per partire per l’Italia perché non c’erano soluzioni per la sua reinstallazione. La barca è stata intercettata dalle autorità italiane e dopo la Garde Nationale ha portato i migranti al porto di Sfax. Poi, questo rifugiato di Choucha, B., è stato messo nella prigione di Al Wardia. D : Quando è successo ? R : Non ricordo con precisione, ma verso marzo o aprile 2014.

D : Sei rimasto in contatto con lui mentre era in prigione ?

R : Sì, ho anche contattato l’Unhcr per chiedergli di aiutarlo, dal momento che era un rifugiato. Ma le persone dell’ufficio dell’Unhcr mi hanno risposto che non potevano fare nulla, dal momento che il mio amico aveva fatto una cosa irregolare (prendere la barca dalla Libia per partire come clandestino) e dunque non potevano aiutarlo. L’Unhcr ci tratta come clandestini, anche se non abbiamo altra scelta che quella di andare in Libia e partire con la barca.

D : E cosa è successo nel suo caso ?

R : Nemmeno l’Oim poteva aiutarlo a lasciare il paese, e allora ha chiesto soldi ai suoi amici e ha comperato il biglietto di ritorno, per poter rientrare nel suo paese. Era un rifugiato e tuttavia l’Unhcr non ha fatto nulla per lui.

D: Conosci altri migranti che sono stati imprigionati a Al Wardia ?

R : Sì, anche dei siriani, perché i miei amici che sono lì in prigione mi hanno detto che ci sono i siriani e anche le loro famiglie. Una volta una donna siriana ha messo su facebook la foto di suo figlio che era anche lui in prigione, poi, verso mezzanotte, è arrivata la polizia e non si sa dove li abbiano portati. Anche noi rifugiati ora abbiamo paura, perché si sa che se si viene fermati dalla polizia e portati a Al Wardia dopo si viene deportati in Algeria. Prima la polizia deportava in Libia, ma ora deporta in Algeria. Qualche giorno fa ero all’ufficio immigrazione di Tunisi e la polizia mi ha chiesto il passaporto; ho mostrato il documento di rifugiato, quello dell’Unhcr, ma mi hanno detto che per la Tunisia quel documento non vale nulla e che potevo gettarlo nella spazzatura. Così, siamo in una situazione di totale insicurezza, possiamo essere arrestati dalla polizia in ogni momento.

Intervista con R., rifugiato eritreo soccorso dalla Garde Nationale tunisina (luglio del 2013)

D : quando sei arrivato in Tunisia?

R: Sono arrivato nel luglio del 2013. Sono partito dalla Libia in barca con altri eritrei, dalla città di Zhwara e poi la nostra imbarcazione dopo qualche ora ha cominciato ad avere dei problemi. Siamo rimasti sette giorni in mare, nessuno è venuto a salvarci. Abbiamo chiamato l’Italia, le autorità italiane ma nessuno è venuto. Il settimo giorno siamo stati salvati dalla Garde Nationale tunisina che ci ha portato a Zarzis.

D : E poi cosa è successo? Quante persone erano con te sulla barca?

R: Eravamo 94 persone, tutti eritrei. Quando siamo arrivati la Garde Nationale ci ha trasferito per qualche ore in un luogo a Zarzis, non mi ricordo dove. E poi, dopo forse un giorno, 60 di noi sono stati trasferiti nella prigione di Ouardia. Q: E gli altri? R: Non so, penso a Medenine. Sì, a Medenine.

D: E perchè ti hanno portato insieme a altri a Ouardia e gli altri in un altro luogo?

R: Non lo so, ci hanno diviso in due gruppi ma non conosco il criterio.

D : Eri già un rifugiato quando sei arrivato in Tunisia?

R: Sì avevo ricevuto lo status di rifugiato in Sudan. E anche altre delle persone sull’imbarcazione erano rifugiati come me.

D : Qunto sei rimasto a Ouardia?

R: Piú o meno un mese. Poi, ho chiamato l’UNHCR dicendo che sono un rifugiato e alla fine, dopo un mese, sono riusciti a liberarmi. Penso che tutti siano stati liberati ma io sono l’unico a essere ancora in Tunisia. Gli altri sono tornati in Libia e alcuni di loro sono adesso in Italia.

D : Che cosa ha fatto la polizia a Zarzis?

R: Mi hanno solo chiesto nome e cognome, tutto qui. E hanno portato le prime 60 persone del gruppo, me incluso, a Ouardia.

D : Quindi adesso hai il certificato di rifugiato rilasciato dall’UNHCR?

R: Sì, guarda, è questo documento. Ma non serve a niente in questo paese. Vivo qui in un quartiere periferico di Tunisi, consapevole che la polizia mi può arrestare in ogni momento. Non hai nessun diritto qui in Tunisia come rifugiato. Quando l’UNHCR mi ha aiutato ad uscire da Ouardia, poi mi hanno detto: è meglio se vai via perchè qui non puoi fare niente. Q: Ti hanno detto di tornare in Libia? R: No, non hanno detto questo. Ma hanno detto che devo costruire la mia vita autonomamente, dal momento che il documento da rifugiato qui non mi dà niente.

domenica 13 settembre 2015

#Stop war not people

#StopWarNotPeople APRIRE LE FRONTIERE, FERMARE LE GUERRE, RESPINGERE I RAZZISTI#refugeeswelcome #milanolibera13 settembre 2015 dalle h.15 PRESIDIO @PIAZZA DUCA d’AOSTA – STAZIONE CENTRALE dalle 14.00 JAM HIPHOP, cucine solidali, mercatini dell’usato e dello scambio, lezioni di italiano in piazza e tanto altro!dalle 19.00 presentazione del nuovo film di ASCANIO CELESTINI, proiezione di ASMARINA.

Nel pomeriggio, l'Associazione per i Diritti umani c'era! Organizzata da "Cantiere": ecco il comunicato e le foto:

Ondate umane si infrangono sui muri della fortezza europa, su quelli fatti d’acqua e guardie costiere, su quelli di eserciti e filo spinato, di gas urticante e polizie, di prigioni per l’identificazione e l’espulsione e respingimenti forzati.Dopo la propaganda a seguito della nascita dell’U.E., che faceva un vanto dell’abolizione delle frontiere interne e della possibilità di libero movimento, tornano improvvisamente in azione anche i check point tra un paese e l’altro, come risposta alla situazione di migliaia di uomini, donne e bambini costretti ad accamparsi su una scogliera al confine tra Italia e Francia, al bordo di un’autostrada tra Francia e Inghilterra o a morire nel cassone di un tir tra Ungheria e Austria.Di fronte all’emergenza umanitaria causata dalle guerre che circondano ormai completamente l’Europa, dalle speculazioni, da una crisi globale che lascia i poveri a litigarsi le briciole mentre l’1% si spartisce la torta, aprire le frontiere non è un’istanza buonista o un gesto caritatatevole, ma un primo e minimo atto dovuto: migranti, profughi e rifugiati scappano dalle guerre scatenate dagli interessi delle lobby di armi e petrolio, dai regimi e dai gruppi fondamentalisti finanziati e spalleggiati dalle “democrazie occidentali”, dalla miseria seminata da vecchi e nuovi colonialismi.Aprire le frontiere perchè non si tratta di un’invasione, ma di una crisi sistemica, dove emigrare rimane l’unica scelta possibile nella ricerca di un futuro e una vita degni. E soprattutto fermare le guerre, fermare le stragi, fermare i crimini contro vita e dignità.Gli stessi assassini che dalle poltrone votano e soffiano sul fuoco delle guerre sono spesso gli stessi che prima stipulano affari con i peggiori dittatori, poi speculano sulla pelle di chi scappa disperato dai propri paesi (con i business del mercato in nero e della gestione mafiosa dei flussi migratori, intascando fondi e appalti e lasciando i rifugiati a vivere in condizioni indegne come succede a Bresso) e sono gli stessi che per difendere questo sistema e racimolare quattro voti diffondono razzismo e guerra tra poveri, servendosi pure degli utili idioti disposti a dar fuoco a un campo rom, assaltare un c.i.e. o pestare un migrante. La Lega, d’altronde, ce lo ha ben mostrato con i decennali rapporti con Afewrki, dittatore dell’Eritrea, cui ha passato armi, con cui fa affari, salvo poi lamentarsi davanti alle migliaia di persone che scappano dalla guerra civile.Gente del genere, che si definisce “fascista del terzo millennio”, ma ignorante e braccio armato degli interessi forti come nel secondo e come sempre, vorrebbe radunarsi da tutta Italia nella Milano Medaglia d’oro alla resistenza, peraltro proprio nei giorni dell’anniversario dell’omicidio di Abba Abdoul Guibre, un ragazzo diciottene italiano originario del Burkina Faso ammazzato al grido di “sporco negro” da tre fascisti nell’onda di queste vergognose retoriche della paura.L’appello è a tutta la Milano solidale, meticcia, antirazzista; la milano che in stazione centrale mostra il suo volto migliore sostenendo i profughi ben prima che le istituzioni si sveglino; che è disgustata dalle immagini di Ventimiglia, di Calais, di Kos, di Budapest; che non è più disposta a tollerare le stragi in Siria, in Libia, in Eritrea, nel Kurdistan turco e siriano e purtroppo in molti altri paesi.L’appello è alla Milano che apre sportelli legali, organizza raccolte di cibo, vestiti e generi di prima necessità, che organizza scuole di lingua e si batte per i diritti e la dignità di tutte e tutti, che accoglie migranti e rifugiati, che respinge i razzisti di ogni natura.RESTIAMO UMANI.













giovedì 10 settembre 2015

Partecipiamo al presidio per dire BASTA alle STRAGI nel MEDITERRANEO !



L'Associazione per i Diritti Umani ha partecipato al presidio che, ogni giovedì, si tiene a Milano, in Piazza della Scala, a partire dalle ore 18.30.

Il presidio, organizzato da MilanoSenzaFrontiere, ha lo scopo di far riflettere su ciò che sta accadendo in Europa e nel mondo; di aprire le coscienze a nuove forme di accoglienza; di far capire ai politici quali sono le conseguenze di leggi e disposizioni errate; di dare dignità ai corpi delle persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo; di stare vicini, anche solo virtualmente, alle famiglie delle vittime e dei dispersi.

Di seguito pubblichiamo alcune fotografie del presidio, fatte dalla nostra associazione, e invitiamo tutti coloro che abitano a Milano a partecipare. Grazie.
 







giovedì 3 settembre 2015

Riflessioni su possibili strumenti di ingresso protetto di richiedenti protezione internazionale sul territorio europeo




a cura del Gruppo di studio Progetto Lampedusa*



A mani nude, senza altra scelta. Passo in rassegna i volti a uno a uno, la piazza universale
delle donne e degli uomini che porto con me verso un altro mondo.
Fratelli miei, non ci hanno vinti. Siamo ancora liberi di solcare il mare”
Luther Blisset, “Q”



L’Unione europea – pur a fronte di grandi dichiarazioni di principi, sacralizzate nella Carta di Nizza e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo – ha fino ad oggi affrontato la questione dell’ingresso sul territorio europeo di migranti e richiedenti protezione internazionale prevalentemente alla stregua di un problema di sicurezza, che si è tradotto in investimenti volti a rafforzare e a controllare la frontiera esterna dell’UE.
Intanto, dal 2000 al settembre 2014
[1] le persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa sono state almeno 22.000; nel solo 2014, sono 3.072 i migranti morti nel Mediterraneo, oltre il doppio rispetto al medesimo periodo del 2013.
Le persone che cercano di attraversare irregolarmente le frontiere europee sono nella maggioranza dei casi uomini, donne e bambini costretti ad abbandonare i loro Paesi in guerra o sottoposti a regimi brutali: provengono dal Corno d’Africa, dall’Africa Centrale, dall’Iraq e dall’Afghanistan, da quel che resta delle Primavere Arabe e, oggi, dalla Siria, Paese ove la guerra ha causato la morte di oltre 190.000 persone.
Sono, nella grande maggioranza dei casi, persone che ai sensi della Convenzione di Ginevra e della Direttiva Qualifiche
[2] avrebbero pieno diritto alla protezione internazionale.
La domanda è
naive, ma viene da sé: perché persone che il nostro sistema riconosce quali soggetti da proteggere rischiano ogni giorno la propria vita per varcare le nostre frontiere?
La risposta si trova nella stessa normativa europea
[3]: i richiedenti asilo possono infatti presentare la loro domanda di protezione solo allorquando si trovino già sul territorio dell’Unione europea.
Il viaggio verso l’Europa è dunque il presupposto necessario per accedere all’asilo, e rimane, paradossalmente, affare dei migranti: e, come già osservato nel 1999, dal Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati (ECRE) durante il Consiglio di Tampere «il miglior sistema europeo di riconoscimento del diritto d’asilo sarebbe comunque ben poca cosa, se alle persone in cerca di rifugio non è data alcuna possibilità di beneficiarne fino a quando non abbiano raggiunto la stessa Europa».
Per fermare, o quantomeno ridurre, la tragedia che avviene nel Mediterraneo da decenni e il traffico di migranti su cui prosperano le organizzazioni criminali sarebbe pertanto necessario e doveroso, come richiesto da tempo da molte ONG, superare l’attuale quadro normativo e riuscire ad approntare soluzioni strutturali – e non già emergenziali – volte a realizzare un meccanismo di tutela per i richiedenti asilo precedente, e non già successivo, agli oramai noti “viaggi della speranza”, che permetta agli stessi un accesso effettivo e sicuro alla protezione internazionale di cui sono riconosciuti titolari.
[4]Gli strumenti giuridici a disposizione delle istituzioni per contrastare tale paradosso esistono, e questo lavoro si propone di analizzarne brevemente le caratteristiche.
Prima di intraprendere la predetta analisi, è opportuno segnalare che, oltre alle gravi carenze relative alla possibilità di ingresso sul territorio europeo, l’azione dell’Unione e degli Stati membri – salvo alcuni casi virtuosi – si è dimostrata sinora insufficiente anche per ciò che riguarda il trattamento che viene riservato a coloro che riescono ad arrivare nel territorio europeo: gli standard di accoglienza non sono adeguati, il c.d. sistema Dublino ha creato una situazione di disuguaglianza sostanziale cui l’Unione non pare interessata a porre rimedio, i migranti sono spesso sottoposti ad una detenzione
de facto e non esiste a livello normativo una strategia unica che garantisca, sostanzialmente, il rispetto e il riconoscimento della dignità di costoro, come singoli e nelle formazioni sociali.
Con l’auspicata introduzione di procedure di ingresso protetto, non si potrà pertanto prescindere anche da un ripensamento, o addirittura un superamento, del sistema Dublino.
Il recente Regolamento UE n. 604/2013 (c.d. Regolamento Dublino III) che ha sostituito, abrogandolo, il Regolamento 343/2003/CE, pur recependo, almeno in parte, le garanzie sancite dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo
[5], non ha modificato nella sostanza le procedure di determinazione dello Stato competente all’esame delle domande di asilo (i cosiddetti “criteri gerarchici”).
Ancora adesso, dunque, il sistema Dublino assegna – nella maggior parte dei casi – la responsabilità di esaminare la richiesta di protezione internazionale (e di farsi carico della successiva accoglienza) allo Stato membro di primo arrivo del migrante, così determinando una forte pressione sui Paesi membri che si trovano ai confini dell’Unione europea.
In molti casi questi Paesi non hanno saputo (o voluto) apprestare condizioni di asilo e accoglienza adeguate, con il risultato che – si veda l’esempio della Grecia, della Bulgaria, ora anche dell’Italia – sempre più numerose sono state le pronunce giurisprudenziali che hanno annoverato questi paesi tra quelli “non sicuri”.
A ciò si aggiunga che, più in generale, gli Stati membri adempiono agli obblighi internazionali relativi alla protezione dei rifugiati con modalità che spesso determinano significative differenze dei sistemi di accoglienza e delle possibilità di integrazione dei migranti.
Questa situazione ha di fatto creato, all’interno dell’Unione, un fenomeno di intensa mobilità – nuovamente irregolare – dei richiedenti asilo, i quali, nel tentativo di presentare domanda di protezione nel Paese in cui effettivamente vorrebbero stabilirsi, si trovano costretti ad attraversare illegalmente i territori degli Stati membri.
Tentando di sfuggire ai controlli di frontiera – molto spesso con l’ausilio di trafficanti, pagati a caro prezzo – gli stessi cercano di evitare di essere identificati e quindi di dover radicare l’
iter per il riconoscimento della protezione in uno Stato membro in cui rischiano di veder violati i propri diritti fondamentali (si veda il caso della Grecia) o che non è in grado di garantire loro le tutele minime previste dalle normative europee, o ancora in cui non sarebbero in grado di trovare un lavoro che consenta loro una vita dignitosa.
In quest’ottica, da un lato, si sarebbero auspicabili procedure di ingresso che consentissero di attribuire priorità, all’interno dei criteri gerarchici, alla volontà del richiedente, con elementi correttivi fondati su legami reali fra il richiedente e lo Stato membro; dall’altro, si dovrebbe raggiungere una completa armonizzazione delle normative nazionali in materia di asilo con meccanismi efficienti volti a garantire solidarietà ed equità tra gli Stati, secondo quanto previsto dall’art. 80 TFUE, insieme ad un piano di azione non più lasciato alla discrezionalità degli Stati, ma fondato sull’obbligatorietà di un intervento europeo, in modo tale da garantire su tutto il territorio dell’Unione i medesimi standard di accoglienza.



Gli strumenti a disposizione dell’Unione Europea e dell’Italia

L’Unione europea e i singoli Stati membri hanno già avuto modo di sperimentare – al di fuori di un quadro normativo organico – modalità di riconoscimento della protezione internazionale che garantiscono in maniera enormemente più efficace la sicurezza fisica dei richiedenti asilo (nonché l’arrivo “ordinato” degli stessi, con conseguente possibilità di approntare più efficaci sistemi di accoglienza).
Si tratta in alcuni casi di strumenti utilizzati sinora soltanto per particolari situazioni di emergenza, in altri casi di modalità di riconoscimento dell’asilo che erano un tempo adottate da singoli Stati membri e che poi – proprio a causa delle politiche europee, per un beffardo fenomeno di eterogenesi dei fini – sono state dismesse.
Tali strumenti sono:
i) le Procedure di Ingresso Protetto (PEP) ii) la prassi dei reinsediamenti, in inglese resettlement, promossa dall’UNHCR, iii ) le operazioni di evacuazione umanitaria, anche dette “corridoi umanitari”; iv) un più pieno utilizzo delle possibilità previste dal sistema dei visti Schengen.
Nei prossimi paragrafi si approfondirà brevemente ciascuno di tali strumenti.



Le procedure di ingresso protetto (PEP)

L’espressione procedure di ingresso protetto (PEP) sta complessivamente ad indicare tutte quelle procedure che permettono allo straniero di richiedere la protezione internazionale ad un potenziale Stato ospite fuori dal territorio di quello Stato e, in caso di riscontro positivo a tale richiesta, di accedervi in tutta sicurezza e legalità.
Le procedure di ingresso protetto hanno dunque l’obiettivo di evitare gli ingressi illegali – e i viaggi nelle mani dei trafficanti ad essi connessi – dei richiedenti asilo nel territorio che dovrebbe, o potrebbe, riconoscere agli stessi la protezione internazionale. Tali procedure permettono altresì agli Stati ospiti di decidere preventivamente e ordinatamente, sulla base delle proprie capacità e possibilità di accoglienza, il numero e il tempo degli arrivi dei richiedenti asilo sul proprio territorio.
I luoghi naturalmente deputati – in assenza di specifici uffici – a raccogliere le richieste di ingresso e di protezione internazionale sono le ambasciate e i consolati presenti nello Stato di provenienza o di transito dei richiedenti asilo, che andrebbero all’uopo preparate e rafforzate; il loro regime giuridico ovvia al problema – posto da alcuni – secondo il quale il richiedente asilo non potrebbe procedere alla richiesta direttamente nel suo Paese, poiché la “fuga” dal pericolo che tale Paese rappresenta per il richiedente asilo è un elemento essenziale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Generalmente, nei casi in cui tale sistema è applicato
[6], le procedure di ingresso protetto sono disciplinate da leggi ordinarie che stabiliscono il ruolo delle ambasciate, il loro rapporto con le commissioni centrali che decidono circa l’accoglibilità della richiesta di protezione internazionale, la possibilità per il richiedente di entrare nel Paese ospite solo una volta ottenuta la protezione internazionale ovvero (come previsto dalla maggioranza delle PEP) anche nel caso in cui la richiesta risulti prima facie accoglibile, con svolgimento delle successive pratiche direttamente nello Stato ospite e con relativo – seppur temporaneo – permesso di soggiorno.
Tale regolamentazione delle PEP si distingue dall’asilo diplomatico vero e proprio che, invece, è un atto meramente politico deciso dalle autorità di uno Stato volta per volta per singoli individui
[7], salvo il caso unico dell’Olanda, che concede l’asilo diplomatico temporaneo anche a gruppi di persone in caso di eccezionale emergenza.



Il resettlement

Con reinsediamento o resettlement si indica quella procedura tramite la quale viene consentito ai richiedenti asilo di trasferirsi da luoghi non sicuri – per esempio, da campi profughi – a Stati che abbiano deciso di accordare agli stessi la protezione internazionale e il conseguente permesso di soggiorno.
Le procedure di
resettlement sinora sono state sempre coordinate dall’UNHCR che stabilisce quali siano le persone che maggiormente necessitano di tale forma di tutela e si coordina con gli Stati che decidono di partecipare a tale programma.
Una importante procedura di
resettlement è stata recentemente attivata dall’UNHCR a favore dei profughi siriani: come si legge in un comunicato dell’Alto Commissariato pubblicato in data 27 giugno 2014, dal 2013 ad oggi 33.837 persone sono state trasferite dalla Siria ed accolte in numerosi Paesi del mondo; con specifico riferimento ai rifugiati siriani, il Paese europeo più virtuoso è stato la Germania, che ha accolto oltre 20.000 persone. L’Italia rimane invece a zero.
Tale strumento sarebbe senza dubbio una soluzione durevole al problema in esame ma al momento è ancora poco utilizzato. Nel 2011 – ultimi dati globali diramati dall’UNHCR – le persone che hanno beneficato della procedura di reinsediamento sono state 61.231 – ovvero soltanto l’1% di coloro che, sempre stando alle stime dell’Alto Commissariato, avrebbero diritto alla protezione internazionale – di cui 42.215 accolte dai soli Stati Uniti. In Europa, lo Stato più virtuoso nel 2011 è stato la Svezia (1.900 reinsediamenti), seguito da Danimarca, Finlandia, Olanda, Regno Unito; l’Italia in quell’anno ha reinsediato sul proprio territorio soltanto 151 persone. L’Unione europea si è dotata di un Programma comune di reinsediamento soltanto nel 2012.



I corridoi umanitari

Il termine “corridoio umanitario” convenzionalmente indica determinate zone che, in caso di conflitto, vengono demilitarizzate e protette da contingenti – normalmente delle Nazioni Unite – per permettere il passaggio di aiuti umanitari a popolazioni che si trovano in situazione di particolare emergenza. Il più vasto uso di corridoi umanitari è stato fatto in passato durante la guerra nei Balcani. I corridoi umanitari possono essere stabiliti anche con il fine di permettere l’evacuazione dei profughi da una zona di guerra o dai campi in cui costoro siano stati costretti a sostare e il loro trasferimento in Stati disposti ad accoglierli, nei quali gli stessi potranno avviare le pratiche per il riconoscimento della protezione internazionale.
Lo strumento è stato normalmente utilizzato sotto l’egida delle Nazioni Unite e ciò a causa della natura eminentemente negoziale dello stesso, che viene attivato in situazioni di eccezionale emergenza e che deve essere avallato – o imposto con la forza – anche dagli Stati o dai gruppi che quell’emergenza l’hanno creata. In linea teorica, in ogni caso, nulla impedisce che l’Unione europea o un singolo Stato possano attivare operazioni del genere senza il necessario – e difficoltoso – intervento dell’ONU, a patto però che l’UE o lo Stato in questione dispongano di un potere negoziale sufficiente per ottenere la creazione di un’area protetta in cui svolgere le operazioni di salvataggio dei profughi.
[8]I corridoi umanitari attivati sinora per l’evacuazione dei profughi hanno avuto alcune caratteristiche peculiari: la durata temporale limitata e precisa, il riferimento ad un particolare gruppo di persone in situazione di eccezionale emergenza (in rilievo vengono dunque le necessità di protezione del gruppo e non dei singoli), la preventiva fissazione di quote di rifugiati da ospitare da parte degli Stati disponibili all’accoglienza degli stessi.
Tali caratteristiche renderebbero lo strumento in questione certamente adatto ad alleviare temporaneamente la pressione ai confini dell’Europa e a permettere la sicurezza di molti migranti che oggi si trovano in procinto di intraprendere il viaggio via mare o via terra: pare però d’altro canto evidente che le operazioni di evacuazione umanitaria, per le citate caratteristiche, non potrebbero essere uno strumento di risoluzione stabile della questione oggetto di esame, che non è legata ad un’emergenza temporanea ma ha assunto negli anni la forma di un fenomeno strutturale del nostro tempo.
Peraltro, la natura negoziale ed emergenziale di tale strumento, e dunque il fatto che il corridoio umanitario si attivi senza precise e prestabilite obbligazioni giuridiche in capo ai soggetti che lo realizzano, lascia alcuni dubbi circa il fatto che con tale modalità si possano garantire al meglio i diritti dei soggetti titolari di protezione internazionale.
Senza dubbio avere operazioni di evacuazione coordinate dalla Unione europea e con norme comuni a tutti gli Stati partecipanti sarebbe un passo in avanti verso l’affidabilità di tale sistema.
Nessuna operazione di evacuazione umanitaria è stata fino questo momento coordinata dall’Unione europea: si segnala però una recente comunicazione della Commissione, che invita le istituzioni europee a lavorare al fine di predisporre dei canali umanitari onde evitare quanto sta accadendo nel Mediterraneo (Com//2013/869); a tale Comunicazione non è però ad oggi seguito alcunché.



Il visto umanitario

Le procedure brevemente illustrate nei paragrafi precedenti rappresentano senza dubbio strumenti di straordinaria rilevanza per offrire una soluzione duratura ed efficace al problema oggetto di esame, ma, al momento, pare del tutto assente la volontà politica di procedere in tale senso.
Un’alternativa di maggiore fattibilità sia giuridica che pratica è offerta dalla stessa normativa europea: si tratta del visto c.d. umanitario che, se utilizzato, potrebbe limitare grandemente gli ingressi illegali – e i viaggi della speranza – in Europa.
La relativa disciplina è contenuta in due regolamenti europei, il Codice delle frontiere
[9] ed il Codice dei visti[10] Schengen. Il primo, all’art. 5, par. 4, lett. c), prevede la possibilità per gli Stati membri di consentire l’ingresso per motivi umanitari anche a cittadini di Paesi terzi che non posseggano i requisiti per l’ingresso alle frontiere esterne previsti dal par. 1 dello stesso articolo. La rappresentanza diplomatica non dovrebbe farsi carico, così, della valutazione (anche sommaria) della domanda di protezione, ma si limiterebbe a rilasciare un visto per motivi umanitari, di durata limitata. La fattispecie è disciplinata all’art. 25 del Codice visti, ove è espressamente prevista la possibilità per gli Stati Membri, in presenza di ragioni di carattere umanitario, di rilasciare un “Visto con validità territoriale limitata” in deroga alle disposizioni dell’art. 5 Reg. 2009/810/CE, il quale consentirebbe al richiedente di viaggiare in sicurezza verso il Paese cui intende chiedere protezione e di farvi ingresso allo scopo, appunto, di presentare la relativa richiesta.
La previsione di tale visto consentirebbe di anticipare le tutele per i richiedenti la protezione internazionale nei Paesi di origine e nei Paesi terzi, secondo i criteri individuati nelle direttive europee che regolano la materia. In una prospettiva più ampia la prerogativa andrebbe estesa ai c.d. profughi ambientali, ai richiedenti protezione umanitaria e alle vittime di tratta. Questi soggetti potrebbero affrontare il viaggio verso l’Europa in sicurezza ed evitare di mettere la propria vita e tutte le proprie speranze nelle mani dei trafficanti.
Quanto già sperimentato in alcuni Paesi – nell’ambito di legislazioni nazionali che prevedevano Procedure di Ingresso Protetto – consente di mettere in luce quali potrebbero essere le criticità più evidenti dell’utilizzo dello strumento in esame ma offre anche alcuni spunti sulle possibili soluzioni.
La presentazione della richiesta di tale visto nei Paesi di origine potrebbe essere resa impossibile agli aventi diritto da parte delle autorità statali responsabili delle persecuzioni o da parte di soggetti terzi che lo Stato non riesce a controllare e dai quali non riesce a difendere i propri cittadini.
Colui che fugge dal proprio Paese per il timore fondato di essere perseguitato dovrebbe perciò più verosimilmente presentare la relativa richiesta in uno Stato terzo, potenzialmente in uno Stato limitrofo.
In uno stadio iniziale dunque, gli uffici consolari addetti al rilascio di tali visti dovrebbero essere potenziati negli Stati limitrofi ai territori di provenienza dei richiedenti protezione, dove la situazione potrebbe divenire ingestibile se, una volta diffusa la notizia di tale possibilità, l’enorme afflusso di persone congestionasse l’attività delle ambasciate esponendo lo stesso personale interno al pericolo di ripercussioni.
Questa criticità potrebbe essere limitata prevedendo più sedi consolari addette al rilascio del visto e, all’interno di ogni sede, maggiore personale. Le procedure dovrebbero essere snelle, limitandosi ad un esame sommario delle situazioni e rimandando agli organi interni allo Stato di destinazione una valutazione più puntuale sulla singola condizione.
Una prospettiva di tal tipo ha speranza di funzionare solo in un panorama europeo e se gli uffici consolari di tutti o di una buona parte degli Stati membri impostassero il lavoro (almeno) in questi termini.
D’altra parte, in attesa che sia modificata la normativa europea rimane, in capo ai singoli Stati, la possibilità di adottare soluzioni che possano intanto rendere più sicuro e legale il viaggio verso l’Europa.
Infine, è necessario menzionare un ulteriore strumento a disposizione degli Stati membri dell’Unione europea, ovvero la Direttiva sulla Protezione Temporanea (Direttiva 2001/55/CE del Consiglio). Tale normativa prevede la possibilità per gli Stati membri di concedere temporaneamente l’ingresso ed il soggiorno sul proprio territorio a gruppi di persone provenienti da aree in estrema emergenza. La normativa italiana ha recepito parzialmente le indicazioni della Direttiva con l’art. 20 del D. Lgs. 286/98, che prevede il riconoscimento di una “protezione temporanea” ed il rilascio di un permesso di soggiorno provvisorio a persone giunte in numero elevato ed in situazione di emergenza, permesso rinnovabile fino a che l’emergenza perdura e non ostativo alla presentazione di una domanda di asilo da parte dei singoli. Da rilevare che la norma in questione è assai generale e la sua applicazione sinora è stata subordinata all’emanazione, di volta in volta, di circolari ministeriali per ogni caso specifico. Questo è successo, per citare il caso più recente, in occasione dell’arrivo di un gran numero di cittadini tunisini all’indomani delle “Primavere arabe” nel 2011.



Lo stato delle cose nell’Unione europea e in Italia

Nonostante la presenza di strumenti giuridici già potenzialmente applicabili, l’Unione europea non ha ancora disposto procedure di ingresso protetto, che potrebbero rappresentare, insieme ad un migliore utilizzo del Codice Schengen, la più efficace soluzione al dramma degli arrivi illegali.
Molteplici sono state le Comunicazioni della Commissione e le Risoluzioni del Parlamento
[11], volte a richiedere l’applicazione, in particolare, delle PEP e del resettlement ma, a livello normativo, i risultati sono stati minimi.
Un primo passo in avanti è costituito, senza dubbio, dal Programma Comune di Reinsediamento dell’Unione europea, approvato il 29 marzo 2012 dal Parlamento dopo tre anni di lavori della Commissione e del Consiglio. Tale programma permetterà la gestione europea delle procedure di
resettlement e consentirà inoltre agli Stati membri coinvolti di ottenere il sostegno fornito dal Fondo Europeo per i rifugiati, ma ancora molto vi è da fare: il programma infatti è stato sinora applicato solo in via sperimentale e senza alcun obbligo per gli Stati Membri di parteciparvi.
Il c.d. Programma di Stoccolma ha inoltre fornito spunti per l’implementazione o la modifica delle normative oggi vigenti in tema di immigrazione, con il fine di garantire una migliore tutela dei diritti fondamentali.
Tali spunti sono stati in parte recepiti dalle nuove Direttive Qualifiche
[12] e Procedure[13] nonché dal nuovo Regolamento Frontex[14].
Nonostante questo, le normative dei singoli Paesi sono assai lontane dall’armonizzazione indicata nel programma: nel territorio dell’Unione non esiste ancora, infatti, uno status uniforme di beneficiario della protezione e neppure un mutuo riconoscimento dei visti per soggiorno umanitario accordati nei singoli Stati e il divario tra obiettivi dichiarati e politiche per la loro concreta attuazione è divenuto sempre più ampio.
Quanto all’Italia – nonostante l’esistenza di strumenti giuridici potenzialmente efficaci, rispetto alle risposte strutturali volte a prevenire gli arrivi illegali, e non già a rimediarvi – la situazione è quantomai arretrata.
Il nostro Paese non è infatti dotato di alcuna normativa che consenta di anticipare, all’estero, le tutele per chi richiede una protezione: l’Italia non ha mai avuto una PEP, né ha mai applicato il combinato disposto degli artt. 5 e 25 del Codice Schengen.
Anche la partecipazione dell’Italia a programmi di
resettlement è stata assai limitata: come poc’anzi esposto, infatti, nel 2011 soltanto 151 persone sono state reinsediate sul territorio italiano e l’Italia non ha ad oggi aderito al programma di resettlement dei profughi siriani promosso dall’UNHCR.
L’ingresso sicuro dei richiedenti asilo in Italia è dunque sinora passato soltanto attraverso operazioni emergenziali di evacuazione umanitaria.
In particolare, l’Italia ha realizzato – tramite le proprie forze armate – operazioni di evacuazione umanitaria nel 1990 a favore degli albanesi, nel 1999 a favore dei kosovari (l’aviazione nei trasferì 5.000 dalla Macedonia all’Italia) e nel 2011 a favore di 108 eritrei e etiopi che si trovavano in Libia: tale ultima operazione umanitaria è di particolare interesse perché avvenuta sulla base di accordi negoziati direttamente dall’Italia e dalla Libia, su pressione del vescovo di Tripoli, e senza l’intermediazione delle Nazioni Unite.
Quanto ai provvedimenti urgenti, nel 1990 fu riconosciuta senza alcun passaggio intermedio la protezione internazionale ad alcune centinaia di albanesi che avevano occupato l’ambasciata italiana a Tirana; nel 1992, poi, fu adottata una normativa
ad hoc (L. 390/1992) – peraltro assai poco utilizzata – che prevedeva una procedura specifica per l’accesso alla protezione internazionale da parte dei profughi provenienti dai Balcani (ma, in ogni caso, non facilitava in alcun modo l’ingresso di costoro nel territorio nazionale).
In tal senso, l’adozione, in Italia di un visto a validità territoriale limitata per fini umanitari, come disciplinato dal Codice Visti UE e dal Codice Frontiere Schengen, potrebbe intanto avviare una prassi positiva e sicura e non trascurabile dagli altri Stati membri e dalle istituzioni europee.

 

 

* L’articolo è tratto da alcuni dei pareri redatti nell’ambito del Progetto Lampedusa. L’attività di collazione e sintesi è a cura di Caterina Bove, Francesca Cucchi, Chiara Pigato, Alice Ravinale. L’elenco dei partecipanti al Progetto è disponibile sul sito della Scuola Superiore dell’Avvocatura (www.scuolasuperioreavvocatura.it/progetto-lampedusa).

[1]  Cfr. Rapporto OIM Fatal Journeys: Tracking Lives lost during Migration, presentato a Ginevra il 29 settembre 2014.

[2]  Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione).

[3]  Art. 3 Direttiva 2005/85/CE del Consiglio, modificata recentemente con Direttiva 2013/32/UE.

[4] Cfr., per tutti,  quanto dichiarato dal Direttore del C.I.R.: «I flussi di chi è costretto a fuggire dalle persecuzioni non si possono fermare, per questo è indispensabile gestirli. La possibilità di richiedere asilo in Italia e nell’Unione Europea a oggi dipende dalla presenza fisica della persona nel territorio di uno Stato Membro. Ma le leggi europee costringono i richiedenti asilo a giungere in Europa in modo illegale, rischiando la vita» (C. Hein intervistato da L. Eduati per l’Huffington Post, 3 ottobre 2013).

[5] Corte Europea dei diritti dell’uomo, sent. M.S.S. c. Belgio e Grecia (21/01/11, ric. 30696/09); Corte di giustizia UE, N.S. e altri (21/12/11, procedimenti riuniti C-411/10 e C-493/10).

[6] In Europa disponevano di Procedure di Ingresso Protetto l’Austria, l’Olanda, la Danimarca e la Svizzera.

[7] Si vedano i recenti casi di Edward Snowden e Julian Assange.

[8] Sinora, la più grande operazione di evacuazione umanitaria è stata quella con cui, nel 1999, circa 90.000 profughi kosovari sono stati trasferiti dalla Macedonia a Stati disponibili all’accoglienza, che hanno altresì contribuito fisicamente allo spostamento dei profughi stessi. L’operazione fu organizzata dall’UNHCR con il supporto di contingenti militari degli stessi Stati che accolsero i profughi.

[9] Regolamento (CE) N. 562/2006 del Parlamento e del Consiglio, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone.

[10] Regolamento (CE) N. 810/2009 del Parlamento e del Consiglio, che istituisce un codice comunitario dei visti.

[11]  Si vedano in particolare Com/2000/0755, 2008/2305(INI), 2013/2827(RSP), Com/2013/869.

[12]  Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione).

[13] Direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione).

[14] Regolamento 656/2014/UE recante norme per la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia Europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea, che ha sostituito il Regolamento 1168/2011/UE, che ha modificato il Regolamento 2007/2004/UE istitutivo dell’Agenzia Europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea.