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giovedì 7 gennaio 2016

Nuovo sito

Carissimi lettori,
 
è online il nuovo sito:

 
 
 
Seguiteci, ogni giorno, ci siamo sempre !!!
 
E, se vi va, fate passaparola!
 
Grazie.

martedì 5 gennaio 2016

Il nuovo sito per voi !

Carissime, carissimi

stiamo risolvendo i piccoli problemi tecnici che sopraggiungono sempre e che non dipendono da noi...quando si tratta di tecnologia...

Tra poche ore sarà possibile per TUTTI VOI consultare il nuovo sito www.peridirittiumani.com dal pc, tablet e cellulari !!!


Abbiate un po' di pazienza e troverete il regalo!!!

Grazie, dall'Associazione per i Diritti umani


 

mercoledì 30 dicembre 2015

L'Associazione 21 luglio e la chiusura del Best House ROM

L’Associazione 21 luglio esprime profonda soddisfazione per la chiusura, nella Capitale, del Best House Rom, la struttura senza finestre, da due anni oggetto di numerose denunce dell’Associazione, dove negli ultimi mesi 135 persone, di cui oltre la metà minori, vivevano in condizioni drammatiche, al di sotto degli standard minimi di tutela dei diritti umani.
«A Roma è iniziato un processo irreversibile: non soltanto dal 2012 si è impedito la costruzione di nuovi “campi rom”, ma si inizia finalmente a mettere i sigilli su questi ghetti e luoghi di discriminazione istituzionale, che rappresentano un’anomalia italiana nel contesto europeo», afferma il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla.
La chiusura del Best House Rom, situato in via Visso, nella periferia est della Capitale, è stata predisposta dal Comune di Roma in seguito a una “interdittiva antimafia” nei confronti della Cooperativa Inopera, l’ente gestore della struttura che nel 2014, come documentato dal rapporto dell’Associazione 21 luglioCentri di raccolta S.p.a.”, è costata 2,8 milioni di euro, di cui quasi 2,6 milioni affidati senza bando pubblico alla stessa Cooperativa Inopera. Alle famiglie che vivevano nella struttura è stata offerta una sistemazione alternativa da loro giudicata adeguata, come hanno potuto constatare rappresentanti dell'Associazione 21 luglio che in questi giorni hanno seguito la vicenda sul posto.
Nato nel 2012, il Best House Rom si è consolidato tra dicembre 2013 e marzo 2014 in seguito al collocamento nella struttura di 137 persone provenienti dallo smantellamento del “villaggio attrezzato” della Cesarina e di altre 64 sgomberate da alcuni insediamenti informali.
L’Associazione 21 luglio, per prima, ha denunciato le condizioni di vita drammatiche all’interno del centro. Nel report “Senza Luce”, pubblicato a marzo 2014, l’Associazione ha puntato i riflettori sulle condizioni strutturali del Best House Rom, caratterizzato da stanze anguste, prive di finestre e punti di areazione naturale; sulla sua incompatibilità con i requisiti previsti dalla normativa regionale che regola il funzionamento di strutture di accoglienza; e sugli altissimi costi della sua gestione, a fronte di stanziamenti nulli per l’inclusione sociale degli uomini, delle donne e dei bambini rom residenti.
Alle numerose denunce dell’Associazione 21 luglio sul Best House Rom, sono seguite l’apertura di un’istruttoria sul centro da parte dell’Autorità Anticorruzione, dopo un esposto presentato dall’area legale dell’Associazione lo scorso febbraio, e varie visite ispettive con rappresentanti delle istituzioni locali, nazionali e internazionali: con il consigliere di Roma Capitale Riccardo Magi, con la Commissione Diritti Umani del Senato, con il presidente del Comitato Europeo dei Diritti Sociali Luis Quimena Quesada, con una delegazione della Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI).
La chiusura del Best House Rom va così ad aggiungersi a due importanti battaglie che hanno visto, nei mesi scorsi, l’Associazione 21 luglio in prima linea contro la costruzione di due nuovi “campi per soli rom” nella Capitale: il nuovo “villaggio attrezzato” della Cesarina, che nelle intenzioni dell’allora Assessore alle Politiche Sociali Rita Cutini avrebbe dovuto sostituire quello raso al suolo a dicembre 2013, e il nuovo “villaggio attrezzato” La Barbuta, che sarebbe dovuto essere realizzato dalla multinazionale Leroy Merlin in base a un progetto su cui, come emerso dalle intercettazioni su Mafia Capitale, aveva messo gli occhi anche il cosiddetto “ras delle cooperative” Salvatore Buzzi.
Entrambi i progetti furono bloccati in seguito al lancio di due campagne di mail bombing e mobilitazione on line (“#DiscriminareCosta” e “Leroy Merlin, un campo rom è un ghetto: non costruirlo!”) sul sito dell’Associazione 21 luglio. Lo scorso maggio, per di più, era stato il Tribunale di Roma, con una sentenza storica, in seguito a un’azione legale promossa da Associazione 21 luglio e Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, a riconoscere per la prima volta in Italia e in Europa il carattere discriminatorio dei “campi rom”, con specifico riferimento al “villaggio attrezzato” La Barbuta.
«La chiusura del Best House Rom, sebbene non sia stata accompagnata dall’individuazione di soluzioni che favoriscano l’inclusione sociale delle comunità rom, rappresenta comunque un punto di svolta cruciale per Roma: nella Capitale non si costruiscono più nuovi “campi” e si è iniziato a mettere la parola fine ai ghetti esistenti – conclude il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla -. Oggi è evidentemente cominciato un percorso dal quale non sarà più possibile tornare indietro: il sistema campi va definitivamente superato e l’inclusione sociale dei rom deve far parte dell’agenda politica della nuova Amministrazione che sarà guidata a governare la città». 
 
PER APPROFONDIRE:
 

domenica 27 dicembre 2015

Lotta concreta alle mafie: le parole del Comitato Addio Pizzo


Addiopizzo è un movimento aperto, fluido, dinamico, che agisce dal basso e si fa portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. È formato da tutte le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze, i commercianti e i consumatori che si riconoscono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.

Addiopizzo è anche un’associazione di volontariato espressamente apartitica e volutamente “monotematica”, il cui campo d’azione specifico, all’interno di un più ampio fronte antimafia, è la promozione di un’economia virtuosa e libera dalla mafia attraverso lo strumento del “consumo critico Addiopizzo”.

L'Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande ai membri del Comitato Addio Pizzo.

Risponde, per voi, Pico Di Trapani. Ringraziamo moltissimo il Comitato Addio pizzo.


 


Un comitato, il vostro, costituito da studenti: potete parlarci delle vostre competenze, dei motivi che vi hanno spinto e di come siete organizzati?

Siamo un gruppo di cittadini palermitani di età varia, abbiamo tutti intorno ai venti, trenta, quarant'anni e ci siamo ritrovati nel tempo a costruire un percorso dentro l'associazione convenendo sulla necessità di creare a Palermo, la nostra città, una rete che permettesse in ultima istanza ai commercianti e imprenditori vessati dal racket delle estorsioni mafiose, di denunciare in tutta sicurezza le violenze subite da Cosa nostra. Proveniamo da percorsi personali differenti, ma siamo uniti dall'adesione a principi comuni che si riassumono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Tutto nacque casualmente così, nel 2004, dal primo nucleo storico della futura associazione, che decise di condividere quella comunicazione con la città di Palermo affiggendo dappertutto, per le strade del centro storico, centinaia di adesivi che riportavano quel messaggio. Poi nel tempo i volontari sono aumentati e ci siamo potuti strutturare meglio, pianificando azioni che vanno nella stessa direzione e che ad oggi convergono su un'opera di sensibilizzazione nei confronti della cittadinanza e del mondo delle scuole, una comunicazione costante sul tema del racket e di ciò che concerne la lotta alla mafia, l'organizzazione di eventi e la promozione di una lista di consumo critico antiracket - consultabile sul nostro sito internte e tramite App - l'assistenza processuale e psicologica alle vittime del pizzo, etc.

Perchè l'estorsione è la “madre di tutti i crimini”?

Quando sosteniamo questo, riportiamo e quindi condividiamo l'idea espressa nel 1991 da Libero Grassi, che diceva al proposito: “L’estorsione è la madre di tutti i crimini perché è funzionale a stabilire, consolidare ed estendere il governo sul territorio rappresentato da una strada, una piazza o un quartiere. Il pizzo è manifestazione della signoria territoriale di Cosa nostra sulla città di Palermo. Con il pizzo la mafia si fa Stato”. Il pizzo, pur costituendo un'emergenza sociale ed essendo ancora oggi fortemente radicato come prassi criminale, non è per Cosa nostra e non ha mai costituito una fonte di reddito così alta, in rapporto al totale delle sue entrate. Ciononostante, è da sempre praticata dalle organizzazioni mafiose come strumento di affermazione del proprio potere e di riconoscimento della propria superiorità da parte della comunità locale vessata, che invece di unirsi e reagire accetta questa supremazia imposta con la violenza. Sta in questo il vulnus culturale su cui intendiamo agire, invitando gli altri palermitani e siciliani a riconoscere in noi stessi per primi i responsabili di questo potere mafioso nella nostra regione, e a reagire insieme di conseguenza.

Come si svolgono le vostre iniziative antiracket rivolte alle scuole?

Dal 2005 i nostri volontari incontrano studenti di ogni età, nella certezza che la scuola, bene comune prioritario, è laboratorio privilegiato per la lotta alla criminalità mafiosa e alla mentalità che ne sta alla base. Le scuole, luogo di incontro di culture differenti, possono e debbono educare il cittadino in un’ottica cosmopolita, quella di una società interculturale, finalmente libera. Gli incontri con gli studenti si svolgono nelle rispettive scuole o nella sede a noi affidata, un bene confiscato alla mafia, per questo stesso luogo di forte impatto simbolico. A fianco di docenti, studenti, genitori e dirigenti scolastici, che ringraziamo sentitamente, Addiopizzo in questi anni ha non solo inciso nella formazione di questi studenti, ma segnato, secondo noi, un momento unico e significativo nella storia della nostra città con le diverse iniziative e progetti di sensibilizzazione elaborati e attuati ogni anno, a dimostrazione di quanto la scuola possa essere determinante nel formare le coscienze dei giovani.

Quali appoggi e quali ostacoli avete incontrato durante il vostro lavoro?

Gli ostacoli maggiori provengono dal tentativo che portiamo avanti, di provare a scardinare la mentalità di chi è rassegnato all’idea che nulla possa cambiare e per tale approccio assume atteggiamenti di indifferenza, nella migliore delle ipotesi, o di acquiescenza nella peggiore, a fenomeni dai quali oggi ci si può davvero liberare. Ma si tratta di un lavoro per il quale bisogna ancora tanto faticare. Si tratta di sfide e ostacoli prettamente culturali. Non a caso la maggior parte degli operatori economici che hanno denunciato e che si sono avvalsi del nostro ausilio appartengono a generazioni di giovani - trentenni, quarantenni e cinquantenni che hanno forti resistenze culturali rispetto a fenomeni come quello delle estorsioni. Noi vogliamo sostanzialmente restituire normalità alla nostra terra, facendo in modo che chi resiste alle pressioni mafiose e clientelari possa proseguire il proprio lavoro senza ripercussioni sulla propria incolumità e sull’attività economica che esercita. La presenza mafiosa nell’economia siciliana è ancora forte. Il pizzo imposto ai commercianti, oltre a rappresentare la negazione di libertà importanti, come quella di impresa, è anche un pesante macigno che incide sulla possibilità dello sviluppo dell’economia isolana, distorcendone le regole del mercato e della libera concorrenza. Ma, oggi, esistono molti esempi positivi di riscatto che possono permettere di sperare in un futuro diverso, libero dalla criminalità organizzata e dai suoi disastrosi effetti. L'appoggio su cui contiamo proviene da questa rete che da anni, ognuno per la propria parte, stiamo contribuendo a tessere insieme.

sabato 26 dicembre 2015

Se in Danimarca tramonta l'Europa



di Adriano Prosperi (da La Republica)




UN pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni.
Non del tutto inedito, tuttavia. Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi. Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del ‘900 questi morti sono rappresentanti con una infografica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen. La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro? La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia. È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese.
Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti. Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso.
Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore. Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo.
Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.
Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

 

domenica 20 dicembre 2015

Regalo di Natale? Regalate cultura e diritti !

Volete fare o farvi un regalo di Natale ( o da mettere nella calza della befana)? Ecco per voi il nostro libro che raccoglie tutte le interviste realizzate in due anni di attività!


 
 
MOSAIKON – Voci e immagini per i Diritti Umani


L'Associazione per i Diritti Umani è felice di comunicare l'uscita di “MOSAIKON – Voci e immagini per i Diritti Umani”, di Arcipelago edizioni, un libro in cui sono raccolte le interviste realizzate per il sito www.peridirittiumani.com, durante i nostri primi due anni di attività.
L'intento è quello di proporre un testo - cartaceo e fruibile - ricco di notizie e approfondimenti che permette di muoversi nella geopolitica, all'interno dei nuovi assetti sociali e religiosi, tra le vite quotidiane di uomini, donne e bambini per rimanere aggiornati sulla Storia contemporanea e sui temi di attualità. Crediamo, per questo, che il testo possa essere utilizzato anche a scopi didattici, come punto di partenza per ulteriori approfondimenti.

Per l'acquisto della vostra copia:

potete effettuare il pagamento di euro 12,50 tramite Paypall (in alto a destra sul sito) con carta di credito o bonifico.

Poi inviate una mail all'indirizzo peridirittiumani@gmail.com con i dati e l'indirizzo esatto compreso di CAP e provvederemo a inviarvela subito per posta.
 
 

Migrazioni: dall'attualità alla graphic novel

Presso il museo Mudec di Milano, l'Associazione per i Diritti umani ha approfondito il tema delle migrazioni con gli interventi di Edda Pando (attivista e membro di Todo Cambia), Veronica Tedeschi (giurista) e Monica Macchi che ha illustrato il contenuto della graphic novel intitolata "Se ti chiami Mohamed".
Informazioni utili da fonti attendibili, approfondimento sui termini corretti da usare, definizioni giuridiche in tema di migrazioni e molto altro...nel video dell'incontro che, speriamo, possa essere utile anche a scopo didattico.


Tutti i video degli incontri pubblici organizzati da noi, sono disponibili sul canale Youtube dell'Associazione per i Diritti Umani e sul canale di Alessandra Montesanto.


Ecco a voi il video!



venerdì 18 dicembre 2015

"Transito": un approfondimento, un'analisi sul tema della richiesta di asilo...in un utile pamphlet






“Transito” è la parola chiave di questo piccolo ma prezioso volume che esce proprio mentre sono in atto in tutta Europa dei cambiamenti profondi che riguardano il diritto d’asilo e il diritto dell'immigrazione; cambiamenti che, in ultima analisi, riguardano le società europee nel loro complesso dal momento che ciò a cui stiamo assistendo non è una crisi temporanea,ma un cambiamento strutturale che obbliga l’Europa a modificarela sua politica in materia di asilo. Possiamo quindi dire che è il diritto d’asilo in Europa a essere in transito, ma verso dove? Le risposte finora fornite dalla politica dei singoli stati, ma anche dall’Unione, non sono incoraggianti. Come, con le debite differenze di contesto, avvenne negli anni trenta, i profughi di oggi vagano per l’Europa mentre molti Stati, feroci od ottusi, li respingono e li rimpallano da una frontiera all’altra; per i profughi di oggi la legge non sembra esistere, oppure esiste soltanto per disconoscerli. Gli autori:Annapaola Ammirati, Caterina Bove,Anna Brambilla, Nicole Garbin,Loredana Leo, Valeria Marengoni,Noris Morandi, Giulia Reccardini,Gianfranco Schiavone.


Scaricabile GRATUITAMENTE in formato Kindle! http://www.amazon.it/dp/B018W3D1I4/ref=cm_sw_r_fa_dp_Tr.Awb1GYXYP9

sabato 12 dicembre 2015

Giornata d'azione globale: contro il razzismo, per i diritti delle e dei migranti, rifugiati e sfollati e per ricordare la strage di Piazza Fontana

Giornata d'azione globale: contro il razzismo, per i diritti delle e dei migranti, rifugiati e sfollati


Ecco a voi le foto della manifestazione a cui ha partecipato l'Associazione per i Diritti umani ...manifestiamo anche per ricordare la strage di Piazza Fontana, a Milano.


Grazie a tutti i partecipanti e agli organizzatori!












Stay human, Africa: il terrorismo in Mali


di Veronica Tedeschi
 

Il 20 novembre, ad una settimana esatta dopo la strage di Parigi, alcuni uomini armati hanno fatto irruzione all’Hotel Radisson blu di Bamako, la capitale del Mali. L’albergo è il più famoso della città e da sempre è frequentato da diplomatici e uomini d’affari occidentali; al momento dell’attacco l’hotel era pieno per il 90% della sua accoglienza totale, con circa 140 clienti e 30 dipendenti.

Dopo un assedio di otto ore, le forze di sicurezza maliane e internazionali sono intervenute per liberare i cento ostaggi; il bilancio è di 22 persone morte, compresi gli assalitori.

La rivendicazione dell’attacco è stata fatta dal gruppo Mourabitoun, affiliato ad Al Quaeda e che si sarebbe recentemente unito all’Isis.

Il presidente Boubacar Keïta, ha condannato “Nella maniera più ferma possibile, questo atto barbaro che non ha niente a che vedere con la religione”. Il presidente francese, Francois Hollande, ha dichiarato: “Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà al Mali, un Paese amico” e ha invitato i francesi a Bamako a raggiungere l'ambasciata e a mettersi al sicuro, e tutti i cittadini francesi nei Paesi a rischio ad adottare precauzioni. 




Il Mali, purtroppo non è nuovo ad attacchi del genere, nonostante non se ne senta parlare in Occidente; in passato gli attacchi degli estremisti islamici erano concentrati nel nord del Paese ma a partire dal 2015 si sono diffusi anche al centro e poi al sud, fino ad arrivare al confine con la Costa d’Avorio e il Burkina Faso.

Nel mese di marzo Bamako è stata ancora una volta la protagonista di un attentato in un ristorante nel quale sono morte cinque persone.

Il 10 giugno scorso, uomini armati hanno attaccato le forze di sicurezza a Misseni, città al confine con la Costa d’Avorio e, infine, ad agosto è stata attaccata la città di Sévaré, nella regione di Mopti, a nordest di Bamako.

Solo nel 2015 gli attentati in Mali sono, quindi, stati quattro ma le violenze nell’ex colonia francese sono cominciate già nel 2013 quando i soldati tuareg sono tornati nel nord del Paese dopo la guerra in Libia, creando un movimento nazionale con lo scopo di combattere il governo di Bamako e conquistare l’indipendenza della regione settentrionale dell’Azawad. Questo conflitto ha portato ad un colpo di Stato e, infine, alla proclamazione dell’indipendenza dell’Azawad nell’aprile del 2012.

Il susseguirsi di violenze ha causato l’intervento delle truppe francesi e africane.

Ad oggi, in Mali, sono quindi presenti truppe francesi, malesi, internazionali e tedesche. Il 25 novembre, infatti, anche la Germania ha annunciato l’invio di 650 soldati a sostegno della missione francese in Mali.
 
 




Nel mirino dell’interesse internazionale è ora presente l’ex colonia francese, ma vedere nell’aumento degli attacchi terroristici in Mali solo un altro pezzo del puzzle del terrorismo islamico sarebbe un errore. L’aumento di gruppi nel Paese è soprattutto il prodotto di condizioni storiche locali e non di un’ideologia imposta dall’esterno. Il terreno è fertile in Mali, come nel resto dell’Africa, per il reclutamento di chi vuole la violenza.

Gli stati africani, già alla prese con la povertà e gli esperimenti di democrazia, non dispongono dell’arsenale e delle competenze in materia di sicurezza per opporre la resistenza necessaria a tentativi di condizionamento.


Dopo l’11 settembre americano e il 13 novembre francese nessuno è al sicuro dal terrorismo?

Forse sì, ma ci sono molti motivi per dubitarne.  La vulnerabilità di un Paese varia in base al livello di sviluppo dello stesso, al suo grado di organizzazione e reattività dei servizi di intelligence.

Per comprende meglio questo concetto, basta pensare alla situazione della Somalia, la quale non riesce a stare a galla di fronte alla minaccia del gruppo jihadista Al Shabab; stiamo parlando di uno stato fallito a causa della lunga guerra civile che l’ha invaso per anni, di uno stato corrotto e non in grado di proteggere la sua popolazione.

La situazione in Mali non può essere paragonata a quella somala ma entrambi questi stati hanno alla base molta debolezza e necessità di aiuti esterni tanto da rendere i rispettivi governi vulnerabili a violenze e attacchi esterni.


 

mercoledì 9 dicembre 2015

Generazione Rosarno: dalla violenza alla legalità



Continuiamo ad occuparci di lotta alle mafie e vi proponiamo il libro intitolato Generazione Rosarno di Serena Uccello, per Melampo edizioni.




Si può nascere in una famiglia di 'ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso, di libertà e di rispetto vero? Vive e pulsa in questo libro una scuola superiore in cui vengono abbattuti antichi e nuovi pregiudizi e privilegi, dove non esistono figli di boss né figli di collaboratori o di testimoni di giustizia, dove mille ragazzi e ragazze si ritrovano ogni mattina tutti uguali, senza dover sopportare il peso delle storie personali. Dove una leggerezza gentile e sconosciuta è capace di generare nuova cultura. Una scuola che è un autentico fortino piantato in una periferia geografica e sociale, da cui insegna le opportunità e le promesse del mondo. Si chiama Rosarno ma diventa alla fine simbolo di tutto il Sud.






L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi l'autrice e la ringrazia.



Il libro è ambientato in Calabria, una terra bellissima e difficile. Quali sono i tratti della cultura tradizionale in cui affondano le radici della mentalità mafiosa?


Questa domanda richiede un’analisi di tipo antropologico che non sono in grado di fare, non ne ho gli strumenti, né la formazione. Posso però dare una chiave di lettura di tipo storico e sociale per spiegare perché la ‘ndrangheta è cresciuta così tanto in questi anni, in una situazione di sostanziale silenzio. In questo senso la spiegazione è l’isolamento della Calabria. Isolamento geografico e culturale, appunto. Prendo in prestito il procuratore Giuseppe Pignatone, già capo della Procura di Reggio Calabria, oggi capo della procura di Roma: “la società calabrese è realmente isolata dal resto del paese. Non esiste la Calabria, ma esistono le Ca­labrie: la provincia di Reggio è totalmente diversa da quella di Cosenza o dall’alto Catanzarese. L’isolamento tra le diverse province e dell’intera regione è innanzitutto fisico. La rete via­ria inadeguata, i cantieri dell’A3, le carenze della rete ferrovia­ria, lo sbarramento fisico dello Stretto amplificano l’isolamento geografico”. All’isolamento geografico c’è poi da aggiungere quello informativo. Negli ultimi anni sui giornali di ’ndran­gheta si è scritto, forse poco o forse in modo discontinuo, titoli e commenti e inchieste. Ma prima? Prima di Duisburg, la strage di Duisburg, quella in cui, nell’agosto del 2007, furono uccise sei persone, o prima di più recenti ope­razioni che hanno portato, soprattutto in Lombardia e nel nord Italia, all’arresto di centinaia di persone? Qualche titolo di tan­to in tanto e poco altro. Di fatto ha ragione il procuratore capo di Roma quando parla di “cono d’ombra” ricordando come “l’agenzia Ansa sia a Catanzaro, la sede Rai a Cosenza” e che “nessuna testata nazionale ha una redazione in Calabria”, men­tre “il quotidiano più diffuso, la Gazzetta del Sud è un giornale di Messina che pubblica pagine sulla Calabria”.

Quindi non saprei esattamente dire in quali tratti della cultura tradizione affondi la mentalità mafiosa, posso però dire che la mentalità mafiosa si nutre dell’isolamento e dell’assenza di cura da parte dello Stato e in questo isolamento cresce.



Da dove può o deve ripartire la cultura della legalità?


Il mio libro è sostanzialmente ambientato in una scuola. Un scuola sotto molti aspetti speciale perché è riuscita a compiere la sfida della inclusione. A far convivere cioè i figli di vittime, con i figli dei boss, con figli dei collaboratori. A far loro condividere tempo, spazio e sogni. Ecco la cultura della legalità deve, secondo me, essere meno slogan, meno pratica convegnistica, e più pedagogia del Bene. Come dice la ricercatrice Ombretta Ingrascì la pedagogia bianca che si oppone a quella nera della violenza.


Come si svolge la lotta alle mafie a Rosarno (e in altri luoghi)?


La lotta alle mafie è stata a lungo repressione. E l’aspetto repressivo è e deve restare centrale. In questi anni sono stati raggiunti risultati importantissimi. Tuttavia i risultati si sono cominciati a vedere anche su lungo periodo quando accanto alla repressione c’è la formazione. In questo caso uso le parole della scrittrice Evelina Santangelo che ho intervistato per il libro: “Non è un caso, credo, che in Sicilia il momento di maggiore forza della lotta alla mafia sia stato quando si è creata una saldatura tra il braccio operativo di chi deve condurre l’attività investigativa e repressiva e il mon­do della formazione. Perché è evidente che la lotta alla mafia è lotta alla sottocultura mafiosa. E questa lotta si può condurre solo se c’è collaborazione tra tutte le forze in campo”.



Quanto sono importanti le donne nel tramandare il valore della vita ?


Le donne sono fondamentali. Così come sono loro a tramandare il codice della violenza dai padri ai figli, sono loro che sempre in nome dei figli possono rompere la catena del sangue. E in questi ultimi anni in Calabria ma non solo abbiamo avuto diversi esempi. Penso a Lea Garofalo, ma anche a Maria Concetta Cacciola, che purtroppo hanno pagato con la vita la loro scelta di rottura. Ma penso anche a Giusy Pesce che invece è riuscita a salvare se stessa e i suoi figli scegliendo la strada della collaborazione.

Questo sono le sue parole che spiegano più di mille analisi.

Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere mino­rile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomi­ni di ’ndrangheta e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro... Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato. Quando il mio bambino, una volta, ha detto che da grande avrebbe voluto fare il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel’avrebbe regalata lui... Un giorno che io gli chiesi a mio figlio ‘Che cosa vuoi fare quando sei veramente grande?’ E lui mi rispose ‘Il carabi­niere’, loro lo aggredirono: ‘Che stai dicendo, scemo, stor­to!’, tipo loro hanno questo carattere, parlavano così, con i bambini hanno una delicatezza particolare”.



Qual è l'operato dei giudici e delle istituzioni per salvare i giovani che appartengono a famiglie malavitose?


Anche in questo caso voglio rispondere raccontando un aneddoto che riporto nel libro. Un pomeriggio un piccolo gruppo di studenti del liceo Raffaele Piria di Rosarno sta partecipando a un seminario tenuto da Michele Prestipino allora procuratore aggiunto a Reggio Calabria, oggi a Roma. I ragazzi stanno lavorando su un libro, un romanzo La vita obliqua di Enzo Siciliano. E quel giorno in particolare stanno discutendo della vendetta, esattamente di qual è la differenza tra chiedere giustizia invece di vendetta. A un certo punto Prestipino si rivolge ad un ragazzo in prima fila e dice: “Vieni Carmelo, tu che pensi?”. Carmelo si avvicina e Prestipino lo tira a sé allungandogli un braccio sulle spalle. Il movimento di entrambi è spontaneo. E mi colpisce molto. Mi colpisce perché Carmelo è Carmelo Bellocco. Anche i Bellocco sono una famiglia sminuzzata tra morti, latitanti ed ergastolani. Alcuni di questi arresti portano pure la firma di Prestipino, così la na­turalezza con cui il primo ha accolto il secondo e il secondo si è fatto accogliere mi appare inedita e mi appare straordinaria. Ho così compreso che solo l’accoglienza può far passare il messaggio che non esiste una predestinazione al Male ma che ognuno può riscattare se stesso. L’accoglienza e anche il sostegno.





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martedì 8 dicembre 2015

Nicole, 4 ori contro i pregiudizi



«Adoro la vita, mi piace vincere»

Il record ai Mondiali per atleti down in Sudafrica: «Lo dedico a mia nonna»


di Elena Tebano (dal Corriere della sera.it)




Avvolta nel tricolore sul podio più alto dei Mondiali, in Sudafrica, Nicole Orlando ha alzato gli occhi al cielo e ha iniziato a piangere. Lacrime di gioia e commozione. «Stava pensando alla nonna, che è morta l’anno scorso e avrebbe dovuto accompagnarla nella trasferta africana», racconta la madre, Roberta Becchia. «Però c’era il nonno, che ho convinto io a venire perché all’inizio non voleva: sono molto fiera di lui» ribatte Nicole, 22 anni. Di lei, che la settimana scorsa si è portata a casa 4 ori (100 metri, salto in lungo, triathlon, con record del mondo, staffetta 4 per 100) e un argento (nei 200) è orgoglioso il premier Matteo Renzi: ieri l’ha ringraziata su Facebook per «aver reso onore all’Italia» insieme agli altri atleti della Federazione Italiana Sport Disabilità Intellettiva Relazionale, che in tutto hanno conquistato 27 titoli nell’atletica leggera e 5 nel tennis tavolo. Nicole ha la sindrome di Down e tra le sue vittorie c’è anche quella di abbattere un bel po’ di pregiudizi. «Sono contenta: mi piace vincere le medaglie» dice al telefono da Biella, dove vive, in una pausa tra l’allenamento di nuoto e quello di atletica. Guarda al prossimo traguardo: «Mi devo preparare alle Olimpiadi di luglio, a Firenze».

 



Nicole Orlando, 22 anni, si commuove sul podio dopo aver vinto la sua prima medaglia d’oro ai Mondiali del Sudafrica. Nicole fa parte della Nazionale degli atleti con disabilità intellettive o relazionale (foto Mauro Ficerai)



E aggiunge con tutta la sincerità del mondo che sì, a Bloemfontein in Sudafrica «mi aspettavo di vincere». «Io l’avevo avvertita: guarda che ci sono le messicane che sono molto forti, sarà dura — dice la madre Roberta —. Mi ha risposto di non preoccuparmi. Lei è così, molto determinata: il suo allenatore assicura che se tutti i suoi sportivi avessero la stessa concentrazione, vincerebbero molto di più. Lo spirito agonistico non le manca: suo fratello e sua sorella non le hanno mai fatto passare niente e lei ha sempre cercato di competere». Lo sport l’ha bevuto con il latte: il padre Giovanni ha giocato a calcio in serie C, la madre a pallacanestro, sempre in serie C. Il resto lo ha fatto una famiglia che si è rifiutata di guardare alla disabilità come alla fine di tutto. «Ci avevano detto che i ragazzi Down hanno i legamenti laschi e quindi sono lenti e pigri. Per stimolarla, l’abbiamo portata in piscina che aveva appena un anno. Quando ha iniziato a camminare è stata la volta della ginnastica artistica». Nicole ha avuto un’allenatrice d’eccezione: Anna Miglietta, 71 anni, ex atleta e poi coach della nazionale di ritmica.

«Era stata la mia insegnante di educazione fisica: sapevo che era molto severa e che le sue regole erano le stesse per tutti. Se Nicole provava ad arrampicarsi sulla spalliera le correva dietro. Ha imparato subito, e grazie ai suoi legamenti laschi era la più brava a fare le spaccate» ricorda la madre. Nicole è entrata nel gruppo dei normodotati: «Era il modo migliore per aiutarla a maturare — racconta Miglietta —. Non facevo fatica a insegnarle: aveva questa voglia enorme di riuscire, gli occhi grandi sempre spalancati a cercare di capire tutto». E un’energia incontenibile come la sua voglia di vivere: dalla ginnastica è passata al nuoto e all’atletica. La settimana scorsa i Mondiali. «E adesso Nicole parteciperà al musical che mettiamo in scena venerdì con i ragazzi della palestra». È ispirato alla serie tv Glee. Nicole ha già imparato a memoria le battute: «Perché mi dite così? Perché sono diversa? In che senso diversa? — recita precisa al telefono —. Non posso anche esser stupida, cicciona, prima donna o lesbica? O devo essere sempre solo quella con la sindrome di Down?». Oggi, intanto è una campionessa della Nazionale.


domenica 6 dicembre 2015

Abolire la guerra unica speranza per l'umanità: il discorso di Gino Strada alla cerimonia dei Nobel alternativi




«Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili.

A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette "mine giocattolo", piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po', fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l'aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.

Mi è occorso del tempo per accettare l'idea che una "strategia di guerra" possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del "paese nemico". Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.

Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo "il nemico"? Chi paga il prezzo della guerra?

Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più "conflitti rilevanti" che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.

Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l'entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.

Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l'inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso.

L'origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d'ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.

In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell'oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l'esperienza di Emergency.

Ogni volta, nei vari conflitti nell'ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l'uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l'idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco.

In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all'indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all'istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell'ONU:
"Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole"
.

Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948.
"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti" e il "riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo"
.

70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all'istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All'inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi.

La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.

Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4000 civili in vari paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case.

In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia - nella maggior parte dei casi - portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l'uso della violenza.

Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto
Manifesto di Russell-Einstein: "Metteremo fine al genere umano o l'umanità saprà rinunciare alla guerra?"
. È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?

Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro.

Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l'umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell'apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani:
"L'orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana"
.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell'immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.
L'abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione.

Possiamo chiamarla "utopia", visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.

Molti anni fa anche l'abolizione della schiavitù sembrava "utopistica". Nel XVII secolo, "possedere degli schiavi" era ritenuto "normale", fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l'idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell'utopia è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un'altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.

Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l'idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell'umanità.

Ricevere il Premio Right Livelihood Award, il "Nobel alternativo", incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l'abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future».-- Gino Strada ha pronunciato questo discorso a Stoccolma (Svezia) lunedì 30 novembre, durante la cerimonia di consegna dei Right Livelihood Awards, i "premi Nobel alternativi". Un importante riconoscimento per il lavoro di Emergency contro la ‪guerra‬ e a favore delle vittime, un premio di cui siamo tutti molto orgogliosi e che ci spinge a fare sempre di più, ogni giorno, per raggiungere il nostro obiettivo: un mondo senza guerre in cui non ci sia più bisogno di noi.

 


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venerdì 4 dicembre 2015

Giornata internazionale per le persone disabili

"La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità è un punto di riferimento
fondamentale per la tutela dei loro diritti verso una piena inclusione e partecipazione nella società. Troppe barriere sono ancora di ostacolo alla piena fruizione dei diritti di cittadinanza da parte di chi è portatore di una disabilità, sia essa fisica, mentale o relazionale": queste le parole del Presidente Sergio Mattarella in occasione, oggi, della Giornata Internazionale per le persone con disabilità; un tema, questo, che a noi è molto caro e di cui ci siamo occupati più volte (vedi articoli e interviste pubblicate nei mesi scorsi).
Secondo una recente indagine dell'Istat, nel nostro Paese vivono oltre tre milioni di persone gravemente disabili: solo 1,1 milione di loro percepisce l'indennità di accompagnamento, uno su cinque è inserito nel mondo del lavoro, meno di sette su 100 riceve un aiuto domestico.
Il Presidente ha aggiunto: " E' compito della società nel suo insieme, delle istituzioni, dei corpi intermedi, delle famiglie, dei singoli abbattere questi muri e far crollare le barriere, fisiche e culturali, che impediscono una piena partecipazione alla vita della società. la diversità, delle scelte e delle abilità, è un patrimonio comune. la vita di tutti ne uscirà arricchita": parole importanti, che ci chiamano in causa direttamente perché, sempre come ha ricordato Mattarella, " la capacità di rispondere ai bisogni delle persone con disabilità è il metro attraverso cui si misura la nostra convivenza civile".

 

Nigeria: la lotta al terrorismo causa un elevato numero di morti



L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha chiesto al governo nigeriano maggiore trasparenza e protezione per la popolazione civile nella lotta al terrorismo. La lotta alle milizie di Boko Haram nella Nigeria nordorientale avviene nel riserbo più assoluto. Nelle regioni del conflitto non sono ammessi né giornalisti né aiuti umanitari per la popolazione civile rimasta.

Secondo i dati forniti dall'aviazione militare nigeriana, tra settembre e ottobre 2015 l'aviazione militare ha compiuto 1.488 raid aerei contro presunte postazioni di Boko Haram. Secondo l'APM è più che realistico presumere che durante i bombardamenti vi siano state anche vittime civili. Poiché l'esercito nigeriano finora non ha mai comunicato il numero dei morti conseguente alle sue azioni, l'APM presume che il numero dei morti civili causati dal conflitto con Boko Haram sia molto più alto di quanto ufficialmente dichiarato.

Secondo i dati dell'Indice globale sul terrorismo pubblicati ieri 17 novembre dall'Institute for Economics and Peace, nel 2015 la Nigeria ha avuto 6.644 morti per attacchi terroristici. Nel 2014 i morti per terrorismo erano stati 7.512. Solo ieri 17 novembre un attentato di Boko Haram nella città di Yola (stato federale di Adamawa) ha causato altri 32 morti. Per riportare un'immagine realistica del terrore causato da Boko Haram bisogna però tenere conto anche della sanguinosa lotta anti-terrorismo condotta dalle forze istituzionali e dalle milizie alleate. Infatti, in Nigeria la popolazione civile ormai teme la violenza dell'esercito tanto quanto la violenza cieca di Boko Haram.

Circa 2,5 milioni di persone, cristiani quanto musulmani, sono in fuga dal terrore e dal contro-terrore che insanguinano il paese. 2,15 milioni di persone sono profughi interni che sono riusciti a trovare rifugio presso amici e parenti, ma la situazione dei profughi è catastrofica. La corruzione diffusa fa sparire buona parte degli aiuti umanitari promessi ai profughi. L'APM chiede quindi che la comunità internazionale esiga maggiore trasparenza nella gestione degli aiuti umanitari e contemporaneamente che vengano garantiti gli aiuti necessari affinché la popolazione vittima della violenza possa ricostruirsi una vita. Senza reali aiuti umanitari, senza lotta alla corruzione, alla povertà e all'abuso di potere non vi potrà essere una pace stabile e duratura nel paese africano già scosso da disastri ambientali e conseguenze del cambiamento climatico.

Boko Haram si è ufficialmente associato allo Stato Islamico nel marzo 2015 e ha proclamato la "provincia africana occidentale dello Stato islamico".





Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150413it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150217it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/141201it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140926it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140912it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140716it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140304it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140213it.html | www.gfbv.it/3dossier/africa/nigeria-it.html
in www: www.economicsandpeace.org | it.wikipedia.org/wiki/Delta_del_Niger | http://it.wikipedia.org/wiki/Nigeria

giovedì 3 dicembre 2015

“So Dukhalma – Quello che mi fa soffrire”, il nuovo rapporto dell’Associazione 21 luglio sul disagio interiore dei minori e delle famiglie rom

Come vivono i minori rom all’interno di un ghetto, isolati dal centro abitato e senza spazi per giocare ed esprimere la propria personalità? Quali disagi provocano la povertà, la discriminazione della società e la mancanza totale di stimoli e riconoscimenti all’interno del proprio contesto abitativo?
Sono questi gli interrogativi alla base di “So Dukhalma – Quello che mi fa soffrire, il nuovo rapporto dell’Associazione 21 luglio sul disagio interiore dei minori e delle famiglie rom residenti negli insediamenti istituzionali che verrà presentato giovedì 10 dicembre alle ore 17.30, presso l’aula V della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università la Sapienza di Roma (città universitaria), in Piazzale Aldo Moro, 5.
La ricerca ha sviluppato un’indagine su un campione di minori tra gli 8 e i 15 anni che vivono nel “villaggio della solidarietà” di Castel Romano, comparando dati e osservazioni con le famiglie rom che vivono in abitazioni convenzionali.
 
Interverranno alla presentazione del rapporto:
 
Carlo STASOLLA, presidente dell’Associazione 21 luglio
Natale LOSI, antropologo-medico e direttore della Scuola Quadriennale di Psicoterapia Etno Sistemico Narrativa di Roma
Angela TULLIO CATALDO, autrice della ricerca, Associazione 21 luglio
 
Ai partecipanti sarà distribuita copia gratuita del reportage fotografico ispirato alla ricerca, “So Dukhalma –Quello che mi fa soffrire“.
La ricerca è stata realizzata con il sostegno della Fondazione Bernard Van Leer.
L’autrice del testo, Angela Tullio Cataldo, ha condotto la ricerca con il supporto di Luca Facchinelli, Cristiana Ingigneri, Emiliana Iacomini e sotto la supervisione scientifica di Natale Losi, direttore della Scuola Quadriennale di Psicoterapia Etno Sistemico Narrativa di Roma.
Le fotografie del reportage sono state scattate da
Stefano Sbrulli, photoreporter e digital designer, presso il “villaggio della solidarietà” Castel Romano e presso le famiglie rom residenti in abitazioni private a Roma.