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martedì 15 dicembre 2015

America latina: i diritti negati. Che cosa fare?



di Mayra Landaverde



In questi giorni di cortei, presidi e riunioni ho notato che tanti compagni si chiedono se davanti a tutte queste tragedie sia davvero utile continuare nella lotta. La lotta contro il razzismo, la corruzione, l'indifferenza ecc.

I risultati sono spesso scarsi o nulli. La stanchezza si fa molto presente fra noi.

Ieri, durante un corso, una partecipante ha chiesto al relatore cosa fare.

Sì, cosa fare? Andare in manifestazione? Realizzare uno striscione? Fare uno sciopero della fame? Incatenarsi davanti a qualche palazzo istituzionale?

Io non credo che nessun attivista o nessun docente abbia una risposta concreta.

E anche a me viene una stanchezza terribile quando vedo al nostro presidio per i nuovi desaparecidos - ogni giovedì - la gente che passa e non si ferma, non ci guarda e tante volte non accetta nemmeno il nostro volantino.

Sono tutti impegnati a faregli acquisti di Natale.

Come potrebbero essere interessati a dei ragazzi che ormai sono morti e sepolti in fondo al Mediterraneo? A chi potrebbe mai interessare la sorte di migliaia di centroamericani dispersi da qualche parte in Messico? Chi vorrebbe mai sapere di tutti i messicani che muoiono abbandonati nel deserto o annegati nel Río Bravo per attraversare la frontiera con gli Stati Uniti?

Non interessa a nessuno. Perché non li vedono. Perché sono numeri, cifre da telegiornale. Statistiche.

Allora, chiedono i compagni. Che cosa fare?

Facciamoglieli vedere. Proprio davanti ai loro occhi. Portiamoli qui nel centro città.

Il 25 aprile scorso , come Rete per i Nuovi Desaparecidos, abbiamo deciso di creare cartelli con le foto dei ragazzi algerini e tunisini dispersi nel Mediterraneo. Poche volte nella mia vita mi sono commossa in questo modo. La gente ha cominciato ad applaudire mentre noi camminavano in silenzio con i cartelli e quei volti appesi al collo , volti di persone di cui non si sa più nulla da anni.

Sono spariti, sono desaparecidos.

Noi li stiamo cercando! Vogliamo sapere dove sono. Non li portiamo per fare qualsiasi cosa.

Li portiamo perché le loro famiglie li cercano ma non possono essere qui. Perché ci hanno affidato questo grandissimo impegno e noi lo abbiamo accettato. Io l'ho accettato perché sono madre e non riesco nemmeno a immaginare la disperazione del non sapere dove sia finito mio figlio.

Che cosa fare chiedono i compagni.

Bene, prendete una di queste foto e cercateli con noi.

Ieri, 14 dicembre 2015, giornata importante a Milano, mentre si ricordava la strage di Piazza Fontana, abbiamo deciso di continuare ancora col nostro presidio, ma non da soli. Ora ci sono anche Torino, Palermo e Roma. E la stanchezza si sente già meno.

Facciamoci contagiare dai movimenti dell'America Latina. Noi siamo stanchi, ormai è da giugno che organizziamo questo presidio.

La carovana di madri centroamericane in cerca dei loro figli e figlie dispersi in Messico lo fanno da 11 anni. Saranno stanche anche loro, certo.

Ma stanno cercando i loro cari e vanno avanti, nessuno le ferma, neanche il governo messicano che ci ha provato in tutti i modi, negando il loro ingresso nel paese. Nessuno le ha fermate. Nemmeno quando trovano i propri figli. Emeteria Martínez cercò per 21 anni sua figlia. E continuò ad accompagnare le altre mamme anche dopo aver trovato la figlia.

Questo movimento ha trovato finora 200 persone e soltanto quest'anno ne sono già stati ritrovati altri quattro.

Ecco cosa fare.

Facciamoci contagiare da loro, dalla loro inesauribile voglia di cambiare il mondo.


martedì 1 dicembre 2015

America latina: i diritti negati



Chi cerca, trova.


di Mayra Landaverde



Da alcuni mesi la Rete Milano Senza Frontiere organizza un presidio in piazza Scala, in centro. Da maggio e fino al 18 dicembre, Giornata Internazionale del Migrante. Arriviamo, allestiamo la piazza con delle foto e delle maschere, con dei cartelli. Poi ognuno di noi prende una foto di uno dei tantissimi ragazzi dispersi nel Mediterraneo e giriamo in circolo. Vi ricorda qualcosa? 



Negli anni della dittatura in Argentina un gruppo di mamme ha deciso di fare la stessa cosa.



Allora era vietato qualsiasi tipo di manifestazione e le persone non potevano sostare davanti alla Plaza de Mayo, per cui la polizia ha chiesto loro di “girare”. Dal 30 aprile 1977 lo fanno, con le foto dei loro figli e nipoti desaparecidos. Vogliono sapere dove sono.



Cosi come le madres, esiste anche un’associazione di nonne: Asociacion Civil Abuelas de Plaza de Mayo e s’incaricano di cercare i bambini che sono stati sequestrati durante la dittatura e restituirli alle loro vere famiglie.



Dal 1977 al 2015 hanno recuperato 118 nipoti.



Sono state candidate al Nobel per la pace in diverse occasioni. Nel 2011 hanno ricevuto il premio Felix Houphouet-Boigny dall’UNESCO per il loro grande lavoro.



Anche noi vogliamo sapere dove sono le migliaia di desaparecidos del Mediterraneo. Lo vogliono sapere le madri tunisine e algerine che ci hanno affidato le foto dei loro cari.
 
 
 




E continueremo a cercarli insieme ai loro parenti.



Dall’altra parte del mondo in Latinoamerica ci sono altre madri che cercano i loro figli dispersi nel loro transito per il Messico. Tutti col sogno di arrivare negli Stati Uniti per avere una vita migliore e un futuro da offrire alle proprie famiglie. Purtroppo sono pochissimi quelli che arrivano alla frontiera nord. Prima devono attraversare tutto il Messico.  



A piedi o sopra il tetto dei treni. Scappando dalla polizia migratoria, dai militari e dai narcotrafficanti. E’ una delle rotte più pericolose che esistano.



Per le donne particolarmente.



Più del 70% delle donne migranti vengono violentate una o più volte durante il viaggio.



Ogni anno entrano clandestinamente in Messico 45,000 donne centroamericane.



La violenza sessuale è considerata “normale” , parte del viaggio, moneta di scambio. Lo si sa, i trafficanti chiedono soldi ma anche sesso in cambio di far passare le frontiere.

Per questo motivo tante donne prima di iniziare il viaggio prendono l’iniezione anti-Messico che non è altro che un anticoncezionale di lunga durata. Il Depo Provera è un contraccettivo ormonale in forma liquida che si somministra tramite iniezione ogni 12 settimane. Ma l’iniezione non le salva sicuramente dalla violenza e dai traumi che può subire una donna vittima dei trafficanti o degli stessi funzionari pubblici come gli agenti della polizia o i militari. Tante altre sono sequestrate e vendute per meno di 300 dollari per finire nella prostituzione. La CNDH ( Comision Nacional de Derechos Humanos) registrò, fra il 2009 e il 2011,più di 20 mila sequestri.Il Movimento Migrante Mesoamericano organizza da 11 anni la Caravana de Madres Centroamericanas de migrantes desaparecidos en su tránsito por México.
Lunedì 30 Novembre parte l’undicesima Carovana Migrante da Tenosique cittadina del sud messicano. Percorreranno più di 4 mila km cercando città per città i loro, i nostri desaparecidos.Dal 2004 la Carovana ha trovato 200 di questi figli. E’ questa la forza che spinge tutte queste madri: la speranza di ritrovare le figlie, i figli. Vivi. Siano madri argentine, tunisine o centroamericane. Tutte li cercano e noi dovremmo cercarli insieme a loro. Smettiamo di essere spettatori silenti.
 
 
Sono loro le madri è vero, ma siamo tutti figli di questo mondo.


venerdì 20 novembre 2015

martedì 24 novembre ore 17.30
 
presso il MUDEC (Museo delle culture di Milano - VIA TORTONA 56)


Dare un calcio alla povertà… in Brasile



Proiezione del documentario “Avenida Maracanà” con l’intervento degli autori.







a cura di Associazione per i Diritti Umani 


Rio de Janeiro. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul Mondiale di calcio e le proteste ad esso legate, le gioie e i dolori di un paese per la propria Nazionale fanno da sfondo alle sofferenze e agli affetti di una famiglia che vive in una favela. L’occhio della macchina da presa documenta quello che accade, lo riprende, lo registra e ce lo mostra, senza filtri, senza parteggiare.
A presentare e commentare il documentario intervengono Stefano Bertolino, Anna Cordioli, Francesco Moroni Spidalieri, filmaker, registi e produttori. Coordina Alessandra Montesanto, vicepresidente dell’Associazione per i diritti umani e critico cinematografico.

martedì 3 novembre 2015

America latina: i diritti negati



LA 72”



di Mayra Landaverde


Situato nel comune di Tenosique, Tabasco, "Il rifugio 72 casa per gli immigrati" dà loro uno spazio che ospita temporaneamente le difficoltà della strada. Qui ci si aspetta il treno “La Bestia” si riposa, si mangia. Si tengono anche delle visite mediche per chi ne abbia bisogno. Qui è un rifugio anche per nascondersi dalla criminalità organizzata.


Ma questo luogo, che dovrebbe essere di passaggio, per molti alla fine diventa una sorta di limbo dove si aspetta: si aspetta il denaro inviato dalle famiglie, si aspetta di trovare un lavoro, si aspetta di guadagnare forze. La vita in "La 72" prende per questa parte di migranti un'atmosfera di una calma domesticità in cui è difficile andarsene, dinamiche in cui questi uomini (la maggior parte degli ospiti sono maschi) ormai si erano abituati. Un vero rifugio dove fanno amicizia, dove mangiano insieme agli altri, dove ognuno si racconta. Ma alla fine tutti partono sempre con la speranza di riuscire ad arrivare dall’altra parte della frontiera e compiere il sogno americano.

* Questa serie di scatti fotografici di OLIVIA VIVANCO ha vinto il terzo posto nel XXXII Concorso di fotografia antropologica “Migrazioni” della Scuola Nazionale di Antropologia e Storia, l’INAH e il Ministero per la cultura e le arti.




 
 
 
 
 




Olivia Vivanco è nata a Città del Messico. Ha un diplomato alla Scuola Nazionale di Arti Plastiche e fotografia dell’UNAM e un Seminario di fotografia contemporanea 2007 svolto nel Centro de la imagen.


Ha esposto il suo lavoro in luoghi come il Museo dell'Università del Chopo, CNDH, ENAH, Centro de la imagen, Festival internazionale della della fotografia latina nel 2006 e nel 2007 a Parigi e nella Sala della fotografia documentaria per i diritti umani, l'infanzia e la gioventù in Colombia. Ha pubblicato in riviste Mexicanisimo, Picnic Bizco Magazine, Spleen Journal, Registro e Voces de Altaïr. Insegna presso l'Università del Claustro di Sor Juana. Ha ottenuto una borsa di studio nel 2010 per promuovere progetti culturali.


martedì 27 ottobre 2015

Carlos Pronzato: un regista militante in Sudamerica



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi il regista Carlos Pronzato: figlio di piemontesi, si è trasferito con la sua famiglia in Argentina. Viaggiatore e documentarista indipendente racconta, con i suoi lavori, l'America latina di oggi, i cambiamenti, le crisi, le conseguenze sulle popolazioni delle scelte economico-politiche del Nord del mondo. 
 
 



Ecco le sue parole. Ringraziamo moltissimo Carlos Pronzato per la sua disponibilità.



Il suo è stato definito un cinema "militante": è corretta questa definizione?

 

Questa definizione è in un certo senso corretta se riferita alla parte più rappresentativa della mia opera cioè la descrizione dei movimenti sociali attuali in costante lotta contro l’oppressione del capitale e degli Stati. Un cinema documentale fatto di interventi sociali e politici a lato dei movimenti insurrezionali in America Latina i cui protagonisti sono in maggioranza i militanti; da questo deriva l’espressione “cinema militante”, un cinema che beve alle fonti ispiratrici degli anni ‘60 ed è un riflesso di questa lotta che si estende fino ai giorni nostri, soprattutto nelle strade. Si può dire che è anche militante da un punto di vista economico giacchè è realizzato con un risorse minime attraverso l’appoggio di enti, organizzazioni e contributi di singole persone; e direi anche che forse è ancora più militante per l'abbandono consapevole di altre possibilità estetiche, diciamo così, di lavorare in un ambiente economicamente più vantaggioso, ma in questo modo il regista si prende un impegno politico con il suo tempo.



La sua è una famiglia di artisti: l'arte dei suoi genitori ha influito sulle scelte per il uo lavoro? L'estetica, gli argomenti, etc...



Certamente! L'influenza è stata totale, innanzitutto nel campo artistico, nella conoscenza e nel mondo dell’estetica alleata sempre alla sua funzione etica e sociale e come possibilità estetica e funzionale. Soprattutto nel campo del teatro, della letteratura e del cinema. In particolare nella questione cinematografica che sviluppo io, sono stati cruciali gli anni delle mie esperienze in molti Paesi dell'America Latina prima di stabilirmi in Brasile e anche l'influenza di uno dei film interpretato da mio padre, Victor Proncet, che è stato anche sceneggiatore e autore del racconto che ha dato origine al film: “I traditori” del regista desapararecido Raymundo Gleizer, regista e film icona del cinema politico di tutto il mondo.



E' vero che il Brasile sta vivendo una fase di crescita economica? E allora perché molti criticano il governo attuale?



Il Brasile ha attraversato un periodo di crescita economica spettacolare negli ultimi anni, ed è riuscito a superare i tempi duri dopo il 2008, ma adesso è entrato in una fase di recessione e nella crisi globale. Questo è un dato fondamentale anche per capire il rifiuto nella popolazione contro le indicazioni del governo del PT e la sua alleanza di mera governabilità con altri partiti (tra cui anche figure storiche della politica brasiliana) e non solo di centro-sinistra. Un governo socialdemocratico che ha saputo distribuire le prestazioni sociali durante i periodi positivi (ma in parallelo a questo è necessario registrare i profitti record delle banche e delle multinazionali presenti nel Paese), ma che si è allontanato dalle sue basi sociali e dai movimenti che gli hanno dato la possibilità di accedere al potere politico, mentre il potere economico resta intoccabile. Le critiche e le grandi mobilitazioni che ci sono ora in Brasile contro il governo sono espressioni di una disputa elettorale che punta al 2018, di contenuto politico molto basso, interpretato dai settori di una élite che ha perso i settori chiave dello Stato per il loro business e che ora sono manipolati da un altro gruppo politico. Nel mese di giugno 2013 ci sono state mobilitazioni molto più potenti ed esplosive nel contenuto socio-politico che puntavano molto oltre al governo di turno, puntavano a un sistema, a un ordine capitalistico che sembra immutabile e continua a distruggere il pianeta, come già successo in varie parti del mondo. Ma quelle manifestazioni di ribellione legittime e autentiche alla ricerca di qualcosa di nuovo continuano ad essere offuscate dalle marce costanti e padronali dal profilo elettorale. Qui si fa riferimento a una “elezione Fla-Flu” (squadre di calcio brasiliane molto popolari), come fosse una disputa calcistica.



In generale, quali sono i rapporti tra l'America latina e il Nordamerica (soprattutto per quanto riguarda l'accoglienza dei migranti) ?



Le relazioni tra l'America Latina e il Nord America, in termini di migrazione, sia obbligatoria che volontaria, sono molte. Entrambe le aree geografiche hanno ricevuto milioni di schiavi dall’ Africa, uomini e donne, che hanno costruito questi Paesi, e al di là dei loro contributi culturali e delle relazioni sociali, il razzismo ha avuto risposte diverse ma tutte terribili fino ad oggi, per la loro dignità. A proposito di gruppi provenienti da altri luoghi, me compreso, come discendente di italiani (padre italiano) e galiziani (madre nipote di galiziani), la loro presenza è stata determinante nella costruzione di un'identità (ancora in formazione) realizzata sulla distruzione dei popoli indigeni di entrambe le regioni. Questo è stato un incendio, letteralmente, ma bisogna prendere in considerazione anche gli aspetti culturali positivi. Qui, nel sud, ci sono tanti che difendono un’unificazione latino-indo-afro, unificando tutte le radici, le origini e le terre in cui vivono, ma ci sono anche altri che si palesano proprio nel campo economico e nel raggio d’azione americano. A seconda della vicinanza geografica agli Stati Uniti, questa influenza sarà maggiore o minore. Per alcuni, questa vicinanza, come ha detto una volta lo scrittore messicano Carlos Fuentes, non è così benefica: “Tanto lontani da Dio e tanto vicini agli Stati Uniti".



Perché ha deciso di raccontare, nei suoi film, le trasformazioni sociali del sudamerica?


Credo di aver risposto a questa domanda sopra quando ho fatto riferimento agli anni in cui sono vissuto in altri Paesi dell'America Latina. A quel tempo non mi dedicavo alle mie occupazioni attuali, ma certamente è stato un periodo di formazione, di osservazione sul campo, fondamentale per il mio processo di sviluppo estetico e penso soprattutto per la ricerca di un’etica che si trasformi in proposta di lavoro e di vita. Queste trasformazioni stanno procedendo con una dinamica esaustiva e col riconoscimento di determinati obiettivi specifici, la scelta di temi specifici da essere affrontati dal genere documentario è una decisione praticamente quotidiana. E soprattutto oggi, quando ogni azione politica è immediatamente postata sul web, il nostro mestiere e professione di documentaristi è affinare gli strumenti di originalità creativa per continuare a costruire narrazioni, esempi di lotta per tutti e soprattutto per coloro che dedicano la loro vita per salvaguardare i diritti inalienabili dell’Umanità, costantemente vilipesi dal capitale e dai suoi portavoce della politica istituzionale.

martedì 20 ottobre 2015

Il Plan Frontera Sur : caccia ai migranti



di Mayra Landaverde
 
 
 


Il 7 luglio 2014 il Governo dello Stato Messicano ha annunciato l’inizio di una campagna in materia di migrazione. Il Plan Frontera Sur.

Secondo le parole del Presidente della Repubblica del Messico, Enrique Pena Nieto, il “ Programma Frontiera sud” ha due obiettivi: il primo e il più importante è di proteggere i migranti centroamericani che transitano per il nostro paese con l’intenzione di arrivare negli Stati Uniti. Il secondo obiettivo è mantenere in ordine la frontiera.


Mantenere in ordine la frontiera? Proteggere i migranti?

Tutt’altro.

Dopo soltanto un anno il PFS ha prodotto circa 107,199 deportazioni verso il Centroamerica.

Nel 2013 i deportati sono stati 77,395.

Il 54% dei migranti ha fra i 18 e i 30 anni. Il 25% restante va dai 30 ai 40 anni. Provengono maggiormente da Guatemala, Honduras e da Il Salvador.

Sono aumentati i crimini commessi contro gli immigrati da parte di criminali comuni, della criminalità organizzata e delle autorità.


La Casa dei migranti (che si chiama “ La 72”) ha documentato e accompagnato decine e decine di persone che denunciano le violenze davanti alla Fiscalía especializada en delitos contra migrantes, organo la cui principale missione è difendere i diritti umani degli immigrati.

Le denunce non sono solo verso la criminalità organizzata ma anche contro istituzioni come l’INM (Istituto Nazionale per la Migrazione).

Finora le denunce non hanno avuto nessuna risposta.


Il PFS ha significato la persecuzione, la repressione e la morte per i migranti. Sempre la Casa per migranti “La 72” ha documentato la scandalosa morte di più di 10 migranti nella regione di Tabasco durante il 2015. Morti in cui sarebbero coinvolte le stesse autorità.

Il Segretario degli Interni afferma che le azioni del governo federale saranno indirizzate a "evitare che gli immigrati mettano a rischio la loro vita utilizzando il treno merci noto come La Bestia; sviluppare strategie specifiche per garantire la sicurezza e la protezione dei migranti; combattere e sradicare i gruppi criminali che violano i loro diritti ".

Tuttavia, si è dimostrato che le azioni del governo messicano violano i diritti umani di chi usa ancora il treno per attraversare il Paese.

E’ importante vedere come nel 2014 le detenzioni sono aumentate del 47% .

27 regioni del Paese hanno avuto un incremento nel numero di detenzioni di migranti, per esempio: Chiapas 46%, nel Tabasco 102%, a Veracruz 40% e in Puebla perfino del 130%.

Il rafforzamento delle frontiere e il controllo della migrazione condotto dall'Istituto Nazionale di Migrazioni [INM] per tutto il Messico (non solo ai valichi di frontiera, ma a bordo di autobus, sulle autostrade, sui treni merci, nelle stazioni, ecc.) hanno aumentato l’insicurezza e la vulnerabilità per i migranti che, nella ricerca di nuove strade (molte a piedi), devono affrontare anche altri tipi di avversità: estorsioni da parte della polizia, detenzione illegale da parte dell'INM, il sequestro, lo stupro e, come detto, gli attacchi della criminalità organizzata che ha trovato un terreno fertile in seguito all'attuazione di tale piano.

Gli avvocati dell'immigrazione, inoltre, hanno osservato numerose violazioni in un giusto processo per i richiedenti asilo in Messico, e pochi immigrati hanno la possibilità di raccontare le loro storie alle autorità così il traffico, i rapimenti e gli stupri restano impuniti.

Miguel Angel Osorio Chong, Segretario degli interni dichiara:

"Quello che stiamo pensando, sono politiche di pubblico interesse. L'identificazione e il controllo che ci permettno di sapere esattamente cosa sta succedendo sul confine meridionale, cosicchè tutti i messicani abbiano la certezza di cosa sta accadendo all'interno del nostro territorio e di ciò che passa e questo lo dobbiamo fare tutti in modo coordinato. "

Certo, in questo ha ragione. Tutte le istituzioni per la prima volta si sono coordinate benissimo per rapire, stuprare rubare e far sparire una quantità di migranti che ogni giorno aumenta.


Congratulazioni al Governo messicano, avete copiato alla perfezione certe politiche migratorie di oltre oceano.


martedì 22 settembre 2015

Una nuova rubrica. America latina: i diritti negati


Care amiche, cari amici



oggi inauguriamo, con molto piacere, una nuova rubrica. Si intitola “America latina: i diritti negati” ed è tenuta da Mayra Landaverde, giornalista, attivista, esperta di America latina. I suoi testi andranno ad approfondire tematiche sui diritti umani relativi a quell'area del mondo, in particolare la relazione tra Messico e Stati Uniti. Gli articoli verranno pubblicati il MARTEDI, ogni due settimane.

L'Associazione per i Diritti Umani ringrazia tantissimo Mayra Landaverde.





America latina: i diritti negati


Di giornalismo si muore

di Mayra Landaverde


Avevo pensato di invitarlo come relatore a un corso che organizza la mia associazione. Mi sembrava uno molto in gamba e particolarmente informato su una delle regioni più complicate e violente del Messico: Veracruz. Da lì ci passa il treno che trasporta i migranti centroamericani nel loro intento di arrivare negli Stati Uniti. In Veracruz si trovano anche Las Patronas, le donne che tutti i giorni preparano del cibo da lanciare sul treno carico di persone affamate che viaggiano da giorni, da mesi. Ruben era fotoreporter. Aveva scattato ultimamente delle foto scomode per il Presidente della Regione Javier Duarte de Ochoa. Non ho fatto in tempo a contattarlo. Lo hanno ucciso a Città del Messico il 2 agosto di quest’anno. Certo, ufficialmente non si sa il motivo, ma lo sappiamo tutti. Lui stesso si era traferito a Città del Messico per paura di essere ammazzato per i suoi scatti che rivelavano lo spreco di soldi del Governo dello Stato di Veracruz. Aveva detto a tutti di essere stato ripetutamente minacciato ed è andato via. Ma loro l’hanno trovato lo stesso. Delle persone sconosciute sono entrati nel suo appartamento e hanno ucciso Ruben insieme a quattro donne che erano in quel momento con lui.

Ma prima di ammazzarlo l’hanno assediato, minacciato, picchiato. Perché non c’era manifestazione sociale cui lui non partecipasse, anche se l’entourage del Gobernador gli aveva detto molto chiaramente che lui non poteva più scattare foto. Gli negavano l’accesso agli eventi oppure lo intimavano di andarsene anche dalle manifestazioni pubbliche.


A giugno del 2014 il Presidente della Regione Veracruz Javier Duarte ha dichiarato pubblicamente : “ Fate i bravi, verranno tempi difficili, faremo un po’ di pulizia e tanti cadranno”. Qualche mese dopo Ruben è stato trovato morto a casa sua.
A partire dal 2000 ,Veracruz registra al meno 36 giornalisti uccisi.

Reporters Without Borders riporta 3 giornalisti uccisi in Messico nel 2014. In quanto a libertà di espressione il paese si trova al 148 posto in una lista di 180 paesi.

L’anno scorso durante una manifestazione per i 43 studenti scomparsi di Ayotzinapa, 14 giornalisti sono stati brutalmente pestati dalla polizia e tolti da macchine fotografiche.


Il 4 settembre 2015 in pieno centro di Città del Messico in una via pubblica 3 giornalisti dell’Agenzia SubVersiones sono stati minacciati di morte a causa dei loro reportage troppo scomodi per il Governo del Presidente Pena Nieto.

Il Messico vive una gravissima situazione di censura da anni per questo 500 scrittori, artisti e giornalisti di tutto il mondo (alcuni di loro: Christiane Amanpour, Francisco Goldman, Paul Auster, Noam Chomsky, Salman Rushdie, Gael García Bernal, Diego Luna, Guillermo del Toro, Denise Dresser, Juan Villoro y Sergio Aguayo) hanno scritto al Presidente della Repubblica chiedendo di garantire la libertà di espressione nel paese e la piena sicurezza fisica e psicologica dei giornalisti.


Il paese è in guerra, e non ho paura a scriverlo, perché è così. Stanno ammazzando la gente che non fa altro che il proprio lavoro denunciando la grande ingiustizia e miseria che sta vivendo il mio paese.

E il Governo messicano non fa e non farà nulla, anzi continuerà con la repressione.

Tan solo pochi giorni fa è stata pubblicata la notizia della morte di una giornalista, si, mentre io scrivevo queste righe lei è stata sequestrata torturata e assassinata nel suo domicilio, beh, era una giornalista.

E in Messico di giornalismo si muore.


venerdì 22 maggio 2015

25 anni di mondo dagli schermi di Milano


di Ivana Trevisani, da 25 anni con piacere fedele al Festival


 

Il “Festival del Cinema Africano d'Asia e America Latina” anche quest'anno si è riaffacciato agli schermi milanesi e si è presentato con un compleanno speciale, venticinque anni, un quarto di secolo, di vita sua e di quella del pubblico che con affetto lo ha seguito lungo tutto questo periodo e ancora lo segue.

Non a caso il termine Vita, perchè di questo si tratta e ogni anno puntualmente si ripete: incrocio di vite, delle organizzatrici e degli organizzatori, delle persone sedute davanti allo schermo o davanti alle registe ai registi negli incontri aperti, e quelle restituite dallo schermo, più o meno lontane nello spazio e a volte nel tempo, ma riconsegnate nel presente dal loro dipanarsi nelle trame di film, lunghi o corti, e documentari.

Già dall'apertura si poteva intuire la scelta, anche per quest'anno, di condurci nella storia delle quotidianità, argomento poco visitato, anzi spesso ignorato dall'informazione formale. Ha aperto il festival il lungometraggio “Taxi Teheran” dell'iraniano Jafar Panahi, Orso d'oro all'ultima Berlinale; il regista che non può lasciare il suo Paese per vent'anni a causa del suo impegno di dissenso politico, diventando lo stesso taxista- personaggio del film, riesce attraverso i variegati passeggeri che si susseguono e dei loro squarci di storie comuni, a darci conto delle storture di un regime soffocante.

Immagini inattese della Tunisia, nel quotidiano pressochè sconosciuto in cui non sono i fantasmi del terrorismo ad agitare le vite, quanto problemi ordinari, ma non meno difficili da reggere, sono state offerte da “Le challat de Tunis” della regista Kaouther Ben Hania, che con sarcasmo e ironia, attraverso la ricostruzione della vicenda dell'aggressore seriale “lametta” (challat, appunto) restituisce i conflitti di genere nella società tunisina. Immagini inattese sono state date anche dal regista Lofti Achour, che con il cortometraggio “Père” affronta il tema della paternità, vera o presunta, una questione difficile da affrontare e gestire non solo nella cultura e società arabe, del resto.    



Restando nel vicino scenario di un'altra delle rivoluzioni che nella primavera del 2011 hanno scosso parte del mondo arabo mediorientale, il giovanissimo cineasta egiziano Yasser Shafie grazie al suo corto ma incisivo “The dream of a scene (Il sogno di una scena)”, rende con uno sguardo maschile di apprezzabile sensibilità, il forte radicamento - più culturale che religioso nel mondo arabo - come un nodo più stretto del nodo dei capelli femminili e del loro significato profondo nelle stesse donne. E non è tuttavia mancato il richiamo all'ironia che anima la cultura egiziana, affidato ai tredici minuti del cortometraggio del cairota Khaled Khella “130 km to Heaven (A 130 km dal paradiso), che riesce con umorismo solo velatamente amaro a sbugiardare l'abbaglio di stili di vita dorata veicolato da certo turismo occidentale.

Passage à niveau (Passaggio a livello)ci sposta poco più in là, sia geograficamente che tematicamente: l'algerino Anis Djaad infatti ci cala nel dramma della perdita di un lavoro più che trentennale e accomuna i due personaggi del cortometraggio nella scala socioeconomica, come ultimo e penultimo.

Restando nella stessa area geografica, ancora grandi traversie che sfiorano e a volte intrecciano la tragedia, in piccole comuni storie di vita nella realtà sia rurale che urbana del Marocco odierno: ce le hanno presentate la regista Tala Hadid con il suo The narrow frame of midnight (La cornice stretta della mezzanotte)che affrontando un dramma dilagante nel paese, patito da molte adolescenti, riesce ad incuneare nel racconto la connivenza e la responsabilità di deprecabili trafficanti europei. E “L'homme au chien (L'uomo con il cane)del regista Kamal Lazraq che mostra la crudeltà umana alimentata dal degrado sociale di ghetti ai margini nientemeno che della capitale Casablanca.

Ci spostiamo in una dimensione geografica molto lontana, nel Sudafrica del cortometraggio “Lazy Susan (Vassoio girevole)di Stephen Abbott, ma in una dimensione di difficoltà umana tra l'arroganza di un cliente e un meschino furto degli spiccioli di mance quotidiane. Sempre nel sud dell'Africa, in Angola, il cortometraggio “Excuse Me I Disappear (Scusatemi se sparisco)di Michael Mac Garry, già nel titolo anticipa la cifra di assurdità della non esistenza di un anonimo spazzino comunale, che scompare nell'anonimia e sperequazione socio economica del quartiere irreale in cui il lavoro lo porta ogni giorno.

I dodici minuti di “Discipline (Disciplina) dello svizzero-egiziano Christophe M. Saber, riportandoci appena oltre il nostro confine verso nord, rendono con straordinaria efficacia la babele non solo linguistica nel microcosmo svizzero di un supermercato, dove le incomprensioni linguistico-culturali generano fraintendimenti che alimentano una rissa dall'evoluzione esponenziale.

The Monk (Il monaco)del birmano The Maw Naing, sembra spostarci in una dimensione quasi irreale di ascetismo, ma le vicende umane oltre che spirituali del monastero nel cuore della foresta birmana e l'inatteso, breve incontro con la realtà urbana, lo rendono più concreto.

E per concludere, lasciandoci aperti al proseguo delle vite, i film hanno mostrato l'irrisolto di tragedie, troppo spesso archiviate o mal-trattate dal sistema mediatico, restando ferite non riemarginate e pronte a riaprirsi, seppure in forme diverse, attraverso l'intero mondo: dalla Haiti di “Meurtre à Pacot (Omicidio a Pacot)di Raoul Peck che scavando nelle macerie e nei sentimenti dei personaggi, ci rammenta di come le catastrofi ambientali, il terremoto nella fattispecie, colpiscano non solo nel momento dello scoppio, ma si insinuino tra le crepe dei muri e delle vite che vi si aggirano, mettendo a nudo i risvolti peggiori delle persone. Alle zone dell'Africa subsahariana già attraversate da sanguinosi conflitti interni ormai dimenticati dall'attenzione mediatica, in cui il cortometraggio “Umudugudu! Rwanda 20 ans après Umudugudu! Rwanda 20 anni dopo)dell'italiano Giordano Cossu ci conduce nell'esplorazione delle situazioni latenti e non concluse di un paese uscito dalla tragedia ma non dal rischio del suo riesplodere. O il lungometraggio del burkinabé Sékou Traoré “L'oeil du cyclone (L'occhio del ciclone), presentato in prima europea, che ci ricorda le bombe ad orologeria degli ex bambini soldato, diventati adulti mai recuperati dal danno del condizionamento che hanno subìto. Per arrivare, infine, purtroppo ancora nel presente, con le dolorose immagini delle “Letters from Al Yarmouk (Lettere da Al Yarmouk)del palestinese Rashid Masharawi, che ci accompgnano “oltre il disumano” ,come affermato lo scorso aprile dall'UNHCR, in quel tragico quotidiano della situazione tutt'ora aperta nel campo profughi palestinese dell'omonimo quartiere di Damasco, assediato da fame, da bombe e dalla morte ancor prima che dai criminali di Daesh.

L'augurio quindi che possiamo fare e farci, in questo significativo compleanno, è che il Festival Cinema Africano d'Asia e America Latina di Milano, possa continuare a regalarci per molti altri compleanni, oltre al valore artistico delle opere scelte, anche quello del suo impegno politico nel restituirci, come anche quest'anno ha fatto, un quotidiano che va oltre confini, muri, barriere geografiche, culturali o mentali e rende simile e vicina, in questo difficile passaggio della storia, tutta la comune umanità.

giovedì 30 aprile 2015

Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina





Nell'anno e nei giorni in cui l'Esposizione universale viene inaugurata a Milano, parte in città anche la 25ma edizione del Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina che si terrà dal 4 al 10 maggio in vari luoghi e spazi. Non potevano, quindi, mancare il contest fotografico dal titolo “ Il cibo più buono del mondo” e tanti altri riferimenti all'alimentazione, ma il programma della manifestazione guarda, come sempre, ad altri diritti (spesso negati) e alle condizioni di vita (o di sopravvivenza) dei popoli del sud del mondo.

Si parono le danze, il 4 maggio presso l'Auditorium San Fedele – alle 20.30, con la proiezione di Taxi Theran, il film vincitore dell'Orso d'Oro all'ultima edizione della Berlinare per poi proseguire con lungometraggi, corti e documentari che provengono, ad esempio, dalla Tunisia ( Le challat de Tunis di Kauter Ben hania, Pére di Lofti Achour), dal Marocco (L'homme au chien di Kamal Lazraq, The narrow frame of midnight di Tala Hadid), dal Perù (El sueno de Sonia di Diego Sarmiento), dal Burkina Faso (Oulinine Imdanate di Michel K. Zongo). E poi il ritorno di Raul Peck con Meurtre àu Pacot e Rachid Masharawi con Letters from Al Yarmouk.

Ma questo è solo un assaggio...Numerosi gli eventi collaterali come lo Spazio scuola con le proiezioni mattutine dedicate agli alunni delle scuole medie inferiori e superiori e gli incontri alla Casa del pane (casello di Porta Venezia) con autori, registi, esperti. Oltre alle sezioni competitive, inoltre, il festival propone la sezione Flash con anteprime e film evento;  Films that Feed, sezione realizzata in collaborazione con Acra-Ccs e dedicata ai temi dell'Expo 2015; la sezione Il Razzismo è una brutta storia in collaborazione con laFeltrinelli;
Africa Classics, 6 titoli capolavori del cinema africano restaurati dal 
World Cinema Project di Martin Scorsese, in collaborazione con Mudec - Museo delle Culture.




L'Associazione per i Diritti Umani parteciperà al festival e condurrà la presentazione della campagna #MAIPIUCIE con il regista del documantario Limbo, Matteo Calore.

L'incontro si svolgerà sabato 9 maggio, alle ore 15, presso la Casa del pane.





 

 

sabato 31 maggio 2014

24° Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina


di Ivana Trevisani

Ringraziamo tantissimo Ivana Trevisani per questo suo contributo.




Ancora una volta, anche quest'anno, la qualità della filmografia proposta dal 24° Festival Africano d'Asia e America Latina (che si è svolto a Milano dal 6 al 12 maggio 2014) ha potuto offrirci il dono di avvicinamento al vero.

Il vero della vita che il linguaggio cinematografico, se di qualità, nella sua libertà di restituzione è in grado di dire più di ogni analisi, dissertazione, speculazione, oltre ogni dilagante opinionismo.

I film proposti, sia nella cifra della fiction che del documentario, sono riusciti a dar conto del vero del vivere, proponendoci il quotidiano semplice di persone semplici, che senza eroismi ma eroicamente riescono a superare difficoltà piccole o grandi, intoppi o tragedie.

La quotidianità è il registro adottato dal siriano Mohamed Malas per restituire il dramma della guerra fratricida che sta dilaniando il suo Paese. Non è l' enfasi dell'abituale voyerismo occidentale centrato sul sangue, le ferite, i corpi morti e gli scheletri dei palazzi bombardati a renderci il dolore della guerra. A restituircelo è piuttosto ciò che ogni singola persona vive, palesato con misura, senza facile retorica dai volti e dalle lacrime dei ragazzi di una casa- cortile. La casa e il cortile dove si svolge il quotidiano dei dodici ragazzi e della padrona di casa, a cui l'eco della tragedia che si sta consumando e della sua progressiva recrudescenza giunge, giorno dopo giorno, evocata e mai espressa a reportage, dai suoni del fuori, fragore di bombe ed esplosioni, e dalle parole di chi da fuori ritorna o chiama al cellulare. Un fuori non lontano, il centro stesso di Damasco in cui è situata la casa cortile di “Ladder to Damascus”(“Scala per Damasco”) girato clandestinamente dal regista nel suo Paese.

La quotidianità tuttavia non sempre e non necessariamente deve essere segnata dal negativo, anche in situazioni di vita difficili, è il messaggio affidato dagli autori al collettivo “Stripelife – Gaza in a Day” (“Stripelife-Gaza in un giorno”). La scelta di mostrare una giornata di vita a Gaza nelle sue sfaccettature di “normalità”: giochi di ragazzi, lavoro, relazioni, ha consentito agli autori di aggirare le consuete restituzioni dell'area in cifra esclusivamente tragica, per dar conto di una capacità del vivere che permane e riesce a portare una popolazione e ogni suo singolo, oltre una situazione che pure resta drammatica, senza lasciarsene sopraffare.

Ma il quotidiano torna a farsi duro nella vita dell'interprete di “Om Amira” (“La mamma di Amira”), dell'egiziano Naji Esmail, l'infaticabile venditrice di patate fritte in una viuzza del Cairo, nei pressi della più famosa piazza Tahir. La sopportazione della durezza, della fatica, del rischio di donna sola nella notte cairota dietro il suo fornello di friggitrice, è resa possibile solo dal desiderio di salvezza della propria figlia. Ogni goccia di sudore, ogni piccolo guadagno della madre, destinati all'operazione della figlia cardiopatica, al di là di ogni esito possibile.

La forza di donna è messa al centro anche da Mario Rizzi nel suo documentario “Al intithar” (“L'attesa”), storia di ordinaria quotidianità di Eklas, vedova, madre di quattro figli, confinata nel campo per profughi siriani di Zaatari nel deserto giordano. Anche qui, mettendosi alle spalle di una vita difficile e dall'orizzonte chiuso, la protagonista riesce, giorno dopo giorno, ad affrontare e superare le difficoltà economiche e psicologiche della condizione di attesa sospesa del campo, per sé e i figli e mantenendoli in una relazione di reciproco sostegno, per proteggere il nucleo residuo di una famiglia distrutta.

La potenza femminile ancestrale è celebrata dal corto “Margelle” (“Il bordo del pozzo”) del marocchino Omar Mouldoira, dipanata dalla trasmissione del mito alle relazioni dell'oggi. nella breve ma intensa storia di un comune triangolo familiare, madre figlio padre. Ma il film, come dichiarato dallo stesso regista. vuole anche coraggiosamente proiettare un cono di luce sulla paura, pure ancestrale, che di tale potenza ha l'uomo arabo.

Anche i due cortometraggi tunisini “Les soulières de l'Aid” (“Le scarpe della festa”) di Anis Lassoued e “Zakaria”, di Leila Bouzid, ugualmente trattano delle difficoltà, delle reciproche incomprensioni nei rapporti genitori figli figlie, ad ogni latitudine, nella Tunisia d'origine come nella Francia dell'approdo migratorio.

Ma se per la figlia dell'immigrato “Zakaria”, il gruppo dei coetanei riesce a condizionarne la libertà di scelta e allontanarla, senza una motivazione realmente maturata in sé, dalla famiglia, in un altro cortometraggio firmato da Carine May e Hakim Zouhani, “La virée à Paname” (“Un giro in centro”) le difficoltà nelle relazioni familiari e con i compagni di quartiere, non fermano il giovane aspirante scrittore. Le pressioni non arrestano il cammino dell'adolescente che cerca il riscatto all'emarginazione, in una ricerca di sé che si rivela non corrispondergli, ma che ha voluto comunque tentare di esplorare.

Ancora la possibilità di lettura semplice ed immediata della realtà algerina a cinquant'anni dall'indipendenza si può trovare in “Ouine Algeria” (“Dov'è l'Algeria?”), documentario dell'algerino Lemnaouer Ahmine, e più precisamente negli incontri, qua e là nel Paese, dell'autore con pochi “esperti” e più persone comuni e familiari ritrovati. Lo stesso regista nell'incontro con il pubblico del Festival ha dichiarato come nessun analista politico o intellettuale sarebbe riuscito a spiegare in un fulmineo lucido flash, esposto da un familiare intervistato, un Algerino qualsiasi, la questione “islamismo di stato o secolarismo”, che pare inquietare più l'occidente che l'Algeria. Un cittadino comune, ma certo credente e di fervente pratica segnalata dal vistoso “callo della preghiera” in mezzo alla fronte, che dichiara la convinzione argomentata della necessaria separazione tra Stato e religione.

Ouandiè e Sosa, uniche concessioni a figure emblematiche, servono agli autori di “Une feuille dans le vent” (“Una foglia nel vento”) del camerunese Jean-Marie Teno e “Mercedes Sosa, la voz de Latinoamérica” (“Mercedes Sosa, la voce dell'America Latina”) dell'argentino Rodrigo H. Vila, per riaffermare la necessità di mantenere viva la memoria. Ernestine, figlia dell'attivista politico camerunese Ernest Ouandiè, assassinato in circostanze poco chiare e mai conosciuto da Ernestine, nell'intensa lunga intervista confessione afferma “La prima morte è quella vera, la seconda è il silenzio”, alludendo all'oblio calato sulla storia del padre e momenti oscuri archiviati della storia del Paese.

L'invito a non dimenticare è pure rinnovato ad ogni passaggio della biografia di Mercedes Sosa, non solo voce, ma presenza forte e significativa nella vita politica latinoamericana, restituita in un commovente inreccio di vita pubblica e familiare, a ricordo della storia di Mercedes e di quella dell'Argentina anche nei giorni più bui della dittatura.

Restare nel presente senza cancellare il passato e non facendosi soverchiare dal futuro, è il messaggio del visionario “Bastardo” del tunisino Nejib Belkadhi, vincitore del festival. Nessuna antenna GSM, che forse porta ricchezza economica, può rendere piena la vita, l'unica antenna che consente il vero ancoraggio a se' è la consapevolezza piena di dove siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, sapere chi vogliamo diventare.