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martedì 22 dicembre 2015

Una giornata nell'agenzia di stampa delle donne curde



Kurdistan, a Diyarbakir arrestata una giornalista curda La reporter Beritan Canozer è stata arrestata a Diyarbakir, nel corso di una manifestazione. Fa parte dell'agenzia di stampa JinHa, gestita interamente al femminile



di Martino Seniga (da www.rainews.it)






Turchia, due morti negli scontri a Diyarbakir tra curdi e polizia di Martino Seniga 17 dicembre 2015. E' stata arrestata mentre cercava di svolgere il suo lavoro, raccontare quello che stava accadendo durante la manifestazione per chiedere la fine del coprifuoco nel Sur, la città vecchia di Diyarbakir. Si chiama Beritan Canözer, la giornalista dell'agenzia di stampa JinHa, all’ultimo piano di uno degli edifici più alti di Diyarbakir. Jin in curdo vuol dire donna e qui lavorano solo donne. Le giornaliste sono una decina nella “capitale” e 5 o 6 dislocate in altre città del Kurdstan. Le notizie scritte in curdo, turco e inglese non raccontano solo la lotta quotidiana delle donne e degli uomini curdi in Turchia, Rojava (Siria), Iraq e Iran ma anche le storie di violenza contro le donne che arrivano da tutto il mondo. Qualche volta si trovano anche notizie positive, che raccontano i risultati ottenuti dalle donne nei campi del rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza. Da quando, dopo le elezioni del 6 giugno, è stato interrotto il processo di pace tra il governo turco e i rappresentanti del movimento curdo, la homepage è generalmente riempita dalle notizie dei coprifuoco e degli scontri, che da alcuni mesi caratterizzano la vita quotidiana in molti distretti del Kurdistan turco. L’attenzione delle giornaliste si concentra in particolare sui casi in cui tra le vittime dei conflitti ci sono donne e bambini.




Tra una notizia e l’altra scambio qualche parola con una delle collaboratrici mentre beviamo un caffè curdo nella cucina comune affianco alla redazione. Mi racconta che i proventi del lavoro dell’agenzia vengono ridistribuiti tra tutte le redattrici secondo i loro bisogni. Se una giornalista deve mantenere uno o più bambini o un genitore malato riceve un compenso maggiore di quello che va ad una single che vive con i genitori. Anche le decisioni editoriali vengono prese in modo collegiale, non c’è un direttore anche se una delle giornaliste più anziane è considerata quella con maggiore esperienza. Finisco il caffe curdo, che è sempre lo stesso caffè che i turchi chiamano caffè turco e i greci caffe greco.

lunedì 3 agosto 2015

Le contraddizioni del Kurdistan analizzate da un giovane giornalista







Il mio nome è Kurdistan (Villaggio Macrì Edizioni) è il lavoro del giornalista Lorenzo Giroffi: un diario di viaggio, attraverso luoghi di guerre e controsensi, di confini labili e vite incerte, che diventa testimonianza diretta di un popolo che lotta per il riconoscimento della sua stessa esistenza e che ha dovuto difendersi nei secoli per custodire la propria lingua e cultura.
Paesaggi urbani pervasi dall’odore di petrolio e anonimato; piazze e mercati dove lampeggiano fuochi e aleggia profumo di chai; miscugli di lingue e bandiere che disegnano la storia controversa di chi rivendica allo stesso tempo autonomia e desiderio di protezione.
Nei frammenti di esistenza e di sguardi rubati con la telecamera, tra muri troppo alti e fili spinati che diventano parte integrante del paesaggio, si tenta di ricostruire un territorio impervio, stridente di paradossi e contraddizioni insanabili, dove le umiliazioni storiche hanno rafforzato la voglia di combattere per la propria identità, troppo spesso omessa, sussurrata sottovoce, insegnando ad alcuni a fare della lotta un’esigenza di vita.



Abbiamo rivolto alcune domande a Lorenzo Giroffi che ringraziamo molto.


Una terra, quella del Kurdistan, ricca di contraddizioni. Puoi raccontarci quelle più evidenti?




Le contraddizioni sono tutte di natura politica. Se grossolanamente si mette assieme la gente che si sente curda, allora le tradizioni, il culto della montagna, del fuoco e dei canti possono essere comuni, mentre da un punto di vista dei rappresentanti politici, bene, si scopre un calderone di contraddizioni. Il Kurdistan è sparso in quattro regioni: Iraq, Turchia, Siria ed Iran. L’unica però zona, a parte gli esperimenti propositivi in atto nel Kurdistan siriano (Rojava), che sarebbe però meglio valutare col tempo necessario e non in uno scenario di guerra, che ha un suo parlamento autonomo e che lavora in quanto curdo è in Iraq. Infatti nella capitale del Kurdistan iracheno, ad Erbil, c’è anche il parlamento della regione autonoma curda. Il Pkk, partito curdo dei lavoratori, simbolo di una lunga lotta da parte di tutti i curdi residenti nella regione turca, con tanto di trattative, con il governo di Ankara, ha le sue basi di combattimento a Qandil, che si trova nel Kurdistan iracheno. Si potrebbe pensare dunque ad una sorta di asse tra quest’organizzazione ed i partiti curdi che gestiscono autonomamente l’area. Non è affatto così, a parte per i dissidi di tipo ideologico, anche per le alleanze transnazionali. Infatti le autorità politiche del Kurdistan iracheno hanno rapporti commerciali con la Turchia, che non è invece assolutamente interlocutrice con il Pkk, che si batte per i diritti dei curdi nell’area appunto turca.




Quali sono i punti di forza di questo Paese?




Considerando le differenze ormai connaturate delle quattro aree e che, dopo la prima guerra mondiale, è stata tradita la grande promessa di un unico Stato che potesse riunire le quattro regioni, pensare al Kurdistan in quanto Paese potrebbe risultare addirittura riduttivo. La forza resta il popolo, con tutte le sue lingue ed i suoi moti, che lo hanno portato a resistere, andando oltre le censure e la repressione. Parlare curdo è stato per anni proibito ed a livello istituzionale lo è ancora in Turchia, ma i canti e le poesie sono sempre rimaste un’abitudine. In Siria a molti curdi non veniva riconosciuta alcun tipo d’identità, non solo culturale, ma anche amministrativa: privi di carte d’identità, assistenza sanitaria e diritto all’istruzione. Oggi giorno il Kurdistan siriano (Rojava) sta dimostrando uno dei più discussi esempi di autogoverno. Anche in questo caso quindi il punto di forza è la resistenza.




Che forza ha il Kurdistan nello scenario attuale dell'area mediorientale?




Il Kurdistan in Medioriente oggi può essere l’evidenza del crollo del modello dello stato-nazione, proponendo qualcosa di inclusivo, che possa andare oltre i nazionalismi che abbiamo conosciuto. Il Pkk (partito curdo dei lavoratori) non lotta più per la creazione di uno Stato curdo, perché loro stessi, come mi hanno raccontato durante le interviste del libro, si stanno spendendo per l’unione di tutti i popoli del medioriente, così che questi possano lottare contro modelli oppressivi. Queste dunque le novità e la forza: non un unione di Stati, come l’Europa insegna, ma una vera unione dei popoli.




Quali sono gli elementi importanti dell'identità curda?



La bellezza è tutta nei simboli del fuoco, attorno al quale riunirsi e festeggiare, magari il capodanno o un incontro, e soprattutto la montagna, presente in tutte le fiabe curde, ma anche nei sogni di lotta, in cui imparare la resistenza ed il cambiamento.




Terminiamo con un ricordo di questo "diario di viaggio”...



Il ricordo è legato tutto all’ammirazione per chi fa dell’ideologia un respiro quotidiano. La lotta curda non è solo armata, è fatta soprattutto da studio, dalla voglia di cambiare pure i paradigmi passati con cui è iniziata, riconsiderando ad esempio il ruolo della donna. Andare a Qandil mi ha rivelato come l’addestramento militare ed il suo sacrificio, con tanto di rinunce, come ad esempio ad una libera vita sessuale, sia solo un pezzo di una vita vissuta assieme ad un ideale, che non è solo da discutere, ma appunto da macinare.

 
   


domenica 10 maggio 2015

L'esecuzione di Farzad Kamangar



In memoria dell'esecuzione di Farzad Kamangar (di cui abbiamo già parlato a proposito del romanzo “Lullaby”) vi proponiamo questo intervento che ci ha mandato l'associazione Novel Rights, con cui collaboriamo e che vogliamo ringraziare.


Dear Friends and supporters,


Today we mark the 5th anniversary of Farzad Kamangar's execution.





"How did Farzad move so many people? Was it something in his voice, spreading across the internet and making him one of the most influential Iranian figures of 2010? Did he hypnotize us with his poems? His letters?

Farzad Kamangar couldn’t stop his torturers from breaking his chin and teeth, but he was able to maintain the life within him through imagination and literature. “I won’t let them kill me inside,” was his goal—and he reached it."




Ava Homa
Ava Homa/ Author; Lullaby

I will eventually get out of here. The butterfly that flew away in the night told me my fortune,” Farzad Kamangar wrote in prison, shortly before the Iranian government made the decision to place a noose around his neck.

It was on May 10, 2010—Mother’s Day—that Farzad’s mother heard through the media that her son, who had been told he would be released, was killed.

He had such a tender soul. He loved his students to pieces. Spring was his favorite season. He was born in spring,” his mother says in a video posted on YouTube. But tears stop her from continuing—from telling us that he was executed in his favorite season.

This man who loved spring and his students was charged with moharebeh (enmity with God and the state) and terrorism. It is true. Teaching young children their banned mother tongue terrorizes the Iranian oppressor.

special sale

Farzad Kamangar was tremendously popular, cherished by Kurds and non-Kurds, young and old, men and women. The love others had for him was, ironically, what convinced the authorities to execute him despite his obvious innocence. Popularity terrorizes dictators, who are nourished by hostility and antipathy in their nation.

How did Farzad move so many people? Was it something in his voice, spreading across the internet and making him one of the most influential Iranian figures of 2010? Did he hypnotize us with his poems? His letters?

Farzad Kamangar couldn’t stop his torturers from breaking his chin and teeth, but he was able to maintain the life within him through imagination and literature. “I won’t let them kill me inside,” was his goal—and he reached it.

In one of his letters—hich are still available on the internet—he describes being transported to Sanandaj Prison, Kurdistan. He paints a vivid picture of Kurdistan in the autumn for us through his view—not only from the window of the plane, but also through the window of his imagination. He writes little about his anguish, but instead about his moments of falling in love while listening to the music of legendary singer Abbas Kamandy and of hiking the Awyar Mountain. He is distracted from these memories only when the bitterness of the blood he accidentally swallows threatens to suffocate him.

The prison guard who anxiously checks that Farzad has survived a severe beating doesn’t know, cannot know, that Farzad, in his mind, is dancing at his wedding, waving his chopi—his handkerchief—in the air and shouting, “Cheers! Cheers to all the prisoners’ mothers who are awaiting reunion with their children. Cheers to all the men and women who lost their lives for their ideals.”

That is what has made Farzad Kamangar a legend. He is one of the few people on the planet—like Nelson Mandela, like Leila Zana—who was not broken under torture.

Lullaby / Ava Homa
Farzad Kamangar / Illustration: Tamar Levi

Farzad Kamangar was a teacher devoted to improving the life of village children. He was all too familiar with suffering, both directly in his own life and indirectly through others’ experiences. Farzad knew the pain of Kurds, the pain of ethnocide and linguicide. He was familiar with the widespread poverty in Kurdistan resulting from politicization of the region, with the abuse and violence suffered by women because of the government’s gender policies. For Farzad, the hurt wasn’t just the physical torture he endured—it was the pain of his nation.

His voice, his imagination, his words, his ability to touch the agony of others made Farzad Kamangar an icon representing all political prisoners who have been executed at the hands of the Iranian government. He was and still is a strong inspiration. He continues to live in the heart of all those who admire him. His voice continues to be heard not only through his own writing, but also in the poems and stories he inspired.

Novel Rights has published a short story inspired by Farzad Kamangar’s letters from prison: “Lullaby” offers a glimpse of his powerful reality.










mercoledì 1 aprile 2015

Lullaby: la prigionia del curdo Kamangar e la bellezza della gioventù



Lullaby, della scrittrice Ava Homa, si basa sulla storia vera di Farzad Kamangar. Un insegnante di scuola elementare e avvocato civilista del Kurdistan iraniano arrestato dalle forze di sicurezza nel 2006 e accusato di collaborare con i gruppi di opposizione curdi. Kamagar è stato accusato di essere un mohareb o "nemico di Dio", ma si è rifiutato di confessare, nonostante quattro anni di detenzione e tortura; le sue lettere dalla cella hanno portato le più importanti organizzazioni internazionali, come l'UNICEF, a condannare la sua prigionia.                 




Il lavoro di Ava Homa è apparso in
The Literary Review of Canada, Toronto Quarterly, Windsor Review, il Toronto Star e Rabble
. La sua opera riguarda sempre la resistenza da parte delle donne iraniane moderne. Le storie sono raccontate su scala universale e parlano di sentimenti come l'amore e la passione (anche politica).
Ava Homa è un giornalista, scrive sul giornale
Bas, insegna scrittura creativa e inglese al George Brown College di Toronto. Ava Homa è stata esiliata dal Kurdistan nel 2007 e ha dovuto lasciare la sua famiglia e gli amici.


Ecco, per voi, un brano tratto da Lullaby. Per avere altre notizie sul libro: www.novelrights.com




"La chiamata risuona. Mi dico che gli studenti stanno ancora imparando, in segreto, la storia dei curdi. L'invito alla preghiera echeggia nella prigione di Evin. Mi avvolge di freddo e paura.

Passi! Conosco il suono di quegli stivali pesanti. Io li conosco bene. La mia penna cade dal letto e mi arriccio in una palla, contrazione di paura. Il dolore alla testa e al viso, alle gambe e alla schiena, allo stomaco e alle costole diventa più nitido. Stringermi al cuscino non mi impedisce di tremare. I passi si fermano prima di raggiungere il mio rione. "Mani in alto," penso, e lo dico quasi ad alta voce.

"Mani in alto", dice la vecchia guardia.

So quello che stanno facendo in altre cellule. La benda, lo scatto delle manette e le guardie prendono Ali, con spinte e calci.

Mi tiro su e mi giro e nella mia testa li seguo, come Ali è trascinato al piano di sotto, trascinato giù per le scale e a portata di mano per diciannove interrogatori. Sotto la sua benda, Ali conterà le paia di scarpe in camera: quattro, sei, otto. . . nero, scarpe formali che fanno tutt'uno con il sangue, levigate dal sangue. La fustigazione inizierà subito dopo le maledizioni. Se l'uomo che chiamano "bastardo" è lì, l'interrogatorio durerà più a lungo e sarà molto più doloroso. Ogni curdo conosce la strana voce di quell'uomo, un insolito mix di alto e basso. Nel suo vocabolario, "fottuti selvaggi assassini" significa "curdi." Si dice che il fratello di Mongrel sia stato ucciso in Kurdistan trent'anni fa durante una delle rivolte. Cinque, sei frustate e Ali penserà ai campi di concentramento, alle piramidi, alla Grande Muraglia cinese, ma lui non sentirà più le frustate. Spero.

Il numero di crepe sul muro è 305, oggi. Io di nascosto tiro fuori una penna da sotto il materasso e prendo un po 'di carta, ripiegata quattro volte, dal mio abbigliamento intimo. "Cari studenti," Scrivo, sdraiata sulla mia sinistra su una coperta militare puzzolente. "Tutto quello che ho potuto fare per voi è di insegnare segretamente il nostro alfabeto curdo, la nostra letteratura e la nostra storia. Per favore, ricordateli ai bambini e trasmettete il vostro patrimonio. Cari piccoli, non permettete che questa conoscenza vi rubi la gioia dell'infanzia. Possiate mantenere la gioia dei giovani nella vostra mente per sempre. Può essere l'unico e solo investimento che potrete utilizzare in seguito, quando avrete la necessità di guadagnare del 'pane e burro', cari figli “dominanti” e quando dovrete vincere il peccato di essere il “secondo sesso”, care figlie. Quando raccoglierete i fiori nelle valli per fare corone per i vostri bambini, raccontate loro della purezza e della felicità dell'infanzia. Ricordatevi di non voltare le spalle ai vostri sogni e amori, alla musica, alla poesia e alla magica natura del Kurdistan. State insieme, cantate le canzoni e recitate la poesia come siamo abituati a fare. "


"The call rings out. I tell the students are still learning, in secret, the history of the Kurds. The call to prayer echoes Evin prison. It turns me cold with fear.

Steps! I know the sound of those heavy boots. I know them well. My pen falls out of bed and I curl into a ball, the contraction of fear. The pain in my head and face, legs and back, stomach and ribs become much sharper. Clutching the pillow does not prevent me from shaking. The footsteps stopped before reaching my ward. "Hands up," I think, and almost say it out loud.

"Hands up," says the old guard.

I know what they are doing in other cells. The blindfold, the click of the handcuffs, and the guards take out Ali, pushing and kicking.

I toss and turn, and I follow them in my head as Ali is taken downstairs, dragged nineteen steps to the right, down the stairs and handed nineteen interrogations. Under his blindfold, Ali will count the pairs of shoes in the room, four, six, eight. . . black, formal shoes that are thick with blood, smoothed by the blood. Flogging will begin immediately after the curses. If the man they call "bastard" is there, the questioning will last longer and will be much more painful. Every Kurd knows strange man's voice, an unusual mix of high and low. In his vocabulary, "fucking murdering savages" means "the Kurds." It is said that his brother had been killed in Kurdistan Mongrel thirty years ago during one of the riots. Five, six lashes and Ali will think about the concentration camps, the pyramids, the Great Wall of China, but he no longer feels the flogging. I hope.

The number of cracks on the wall 305 is today. I sneak a pen out from under the mattress and take a bit 'of paper, folded four times, from my underwear. "Dear students," I write, lying on my left side on a blanket military smelly. "All I could do for you is to teach secretly our Kurdish alphabet, our literature and our history. Please, kids, remember your heritage and transmit it. Dear children, do not allow this knowledge to steal from you the joy of childhood. May you keep the joy of the young people in your mind forever. It may be the one and only investment you can use later, when the agony of earning the 'bread and butter' you, my children dominates, and the sin of being 'second sex' you win, my daughters. When you are picking flowers in the valleys to make crowns for your children, tell them about the purity and happiness of childhood. Remember not to turn on the back on your dreams, love, music, poetry and magical nature of Kurdistan. Getting together, sing songs and recite poetry as we usually do."





martedì 3 febbraio 2015

Kobane liberata e il rapimento di Susan Dabbous


Kobane la città siriana al confine con la Turchia occupata in parte e per diverso tempo dai miliziani dello Stato Islamico (IS) + stata liberata. Nel pomeriggio di lunedì 26 gennaio, l’Osservatorio siriano per i diritti umani – organizzazione non governativa pro-ribelli con base a Londra – ha detto che i curdi hanno riconquistato quasi tutta la città si è parlato del 90% di Kobane, anche se è difficile quantificare esattamente quanto territorio sia ancora controllato dallo Stato Islamico.

A causa degli intensi combattimenti e bombardamenti degli ultimi mesi Kobane è diventata una cosiddetta “città fantasma”, dove ormai non vive più nessuno. Riportiamo un paio di immagini del fotografo turco Bulent Kilic – scelto come miglior fotografo di news del 2014 dalla rivista TIME – che ha reso testimonianza della Kobane “liberata” e dei curdi vincitori.




Di seguito la nostra intervista alla giornalista Susan Dabbous sulla sua esperienza di vittima di rapimento in Siria.



Il 3 aprile 2013 Susan Dabbous, giornalista di origini siriane, è stata rapita insieme ad altri tre reporter italiani. Sono stati sequestrati a Ghassanieh, un villaggio cristiano, da parte di un gruppo legato ad al-Qaeda mentre stavano facendo le riprese per preparare un documentario per la RAI.

I giornalisti sono stati dapprima portati in casa-prigione, successivamente Susan è stata trasferita, da sola, in un appartamento con Miriam, moglie di uno jihadista, con cui ha dovuto pregare e ascoltare i discorsi di Bin Laden. Ma la domanda che le veniva posta, in maniera ricorrente, era: “ Qual è la tua morte preferita?”.

Da qui il titolo del libro: Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra, il diario della prigionia di Susan Dabbous, edito da Castelvecchi.





Abbiamo intervistato per voi la giornalista che ringraziamo molto.



Innanzitutto, ci può raccontare brevemente qual è il ricordo più duro legato alla sua prigionia e quali erano i suoi pensieri ricorrenti durante quell'esperienza? Come si è rapportata con i rapitori?

Ho optato per un atteggiamento passivo di sottomissione totale, ma ci tengo molto a precisare che l’islamizzazione è stata una cosa volontaria, sono io che ho chiesto di imparare la preghiera, volevo integrarmi nel loro contesto sociale, condividere i miei giorni con altre donne nel caso in cui ce ne fossero state, uscire da un contesto di prigionia violento e angosciante. Credevo che mi avrebbero tenuto per mesi se non per anni, come accaduto ad altri ostaggi. L’integrazione per me equivaleva alla sopravvivenza.


Recentemente, durante una presentazione del suo libro, lei ha citato la frase di Padre Paolo Dall'Oglio: “Non mancare la propria morte”: ci può spiegare il significato di quella frase e del concetto che esprime?


Tra le frasi che mi hanno colpito di più del libro “Collera e Luce” di Padre Paolo Dall’Oglio c’è questa: “Per me inconsciamente la preoccupazione di non fallire la propria morte è rimasta molto viva e interviene nelle mie scelte. La paura di non morire là dove si dovrebbe, quando si dovrebbe e per le giuste ragioni”. Ho trovato in questa frase molto forte il concetto di sacrificio, cristiano, umano, per il prossimo: là dove la fede non è pregare per la propria salvezza bensì per il miglioramento dell’umanità. Padre Paolo crede così tanto nel dialogo da non ha paura di proporlo ovunque e a chiunque. In Egitto, come in Siria senza dimenticare l’Iraq. Le sue recenti scelte sono state dettate dal coraggio ma anche da una conoscenza più che trentennale del Medio Oriente. Da luglio scorso non si hanno più notizie di lui, chi lo detiene in Siria sa probabilmente chi ha tra le mani. Spero con tutta me stessa che sia trattato con rispetto.

Nel suo libro parla del coraggio del popolo siriano. La guerra civile è una guerra che i civili stanno pagando a un prezzo altissimo: vuole riportare alcune voci di quelle persone? Le loro aspettative, le loro richieste...

In Siria si spera di tornare presto alla normalità. I bambini vogliono tornare a scuola; i padri di famiglia vogliono lavorare, perché il problema del lavoro è assolutamente centrale. Le donne sognano di ritornare nelle proprie case. Sono stanche di vivere la condizione di povertà estrema, di precarietà e di mancanza di dignità. A nessuno piace essere profugo, ma in questo caso specifico si tratta di un popolo con scarsa propensione all’emigrazione. I siriani, anche i più poveri e modesti, posseggono una casa o un pezzetto di terra.

Il 2 aprile scorso è stato cancellato, in Italia, il reato di immigrazione: cosa possono fare l'Italia, ma anche l'Unione Europea in termini di immigrazione? E come tutelare i diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo?

L’Europa potrebbe impegnarsi di più nell’accoglienza dei profughi che arrivano sulle nostre coste sostenendo viaggi disumani, pagando decine di migliaia di euro. Appena arrivati si sentono salvi, dopo poche ore inizia un nuovo calvario, tutto europeo e burocratico, fatto non più di loschi trafficanti e vecchi barconi ma di questure e fogli di rinvio. Bisognerebbe rivedere il regolamento di Dublino che obbliga il richiedente asilo a fare domanda nel primo paese d’arrivo. Un sistema palesemente fallimentare perché nessuno vuole rimanere in Italia, Grecia o Bulgaria, paesi dalle economie fragili incapaci di dare non solo opportunità ma a volte anche l’assistenza di base.

Qual è o quale deve essere il ruolo dei mass-media italiani (e occidentali in genere) nel raccontare ciò che succede in Medioriente? E' possibile fare giornalismo, in tema di politica estera, con precisione e attenzione alla verità?

Credo che la Siria venga raccontata e anche bene, ma è una qualità dell’informazione accessibile solo ai tecnici, a chi sa dove prendere cosa. Tra siti internet, fonti dirette e fughe di notizie da parte di chi vuole colpire questo o quel gruppo in conflitto. Il problema, certo, è come rendere fruibile questa quantità a volte anche mastodontica di notizie. Discernere e tentare di verificare senza mettere a repentaglio la propria vita. È una sfida importante, conosco giornalisti italiani e stranieri che sono entrati e usciti illesi dalla Siria negli ultimi mesi, questo non significa però che non abbiano affrontato enormi rischi. In Italia c’è però un problema di discontinuità, sui temi di politica estera che vengono raccontati a singhiozzo, questo non aiuta affatto la comprensione di fenomeni complessi che ci sono ad esempio dietro i conflitti.


giovedì 7 novembre 2013

Gabriele Del Grande: la situazione in Siria, oggi



Abbiamo intervistato per voi il giornalista reporter Gabriele Del Grande, da poco rientrato dalla Siria, che ci aiuta a capire una situazione complessa e ad approfondire temi poco considerati dalla stampa italiana.



In che periodo sei stato in Siria e per quanto tempo?

Dovrei prima specificare in quale Siria. Perché ne esistono almeno tre tipi. C’è una Siria in mano al regime, una Siria in mano alle forze armate dell’opposizione, e una in mano alle milizie di Al Qaeda. Io ho visitato la seconda. Sono entrato dalla frontiera turca di Kilis e ho trascorso dieci giorni consecutivi ad Aleppo, nel Settembre 2013. Questo è stato il mio quinto ingresso in Siria nell’ultimo anno. Anche le precedenti volte avevo visitato le regioni del nord in mano all’opposizione, sia nella provincia di Aleppo che nella provincia di Idlib.

Qual è la prima cosa da dire nel raccontare la Siria oggi?

Il primo pensiero va alle condizioni davvero drammatiche in cui sono ridotti a vivere i civili. Il secondo pensiero va al progressivo aggravarsi della situazione sul terreno. Le formazioni islamiste più vicine ad Al Qaeda infatti, notoriamente lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante (Isil), hanno dichiarato guerra alle forze moderate dell’Esercito siriano libero nonché alle milizie curde del Pyd, il ramo siriano del Pkk di Ocalan. Il risultato è un clima di guerra civile nel nord, dove il regime è soltanto uno dei nemici, uno dei signori della guerra... Ovviamente il regime è il principale beneficiario di questo fronte interno all’opposizione. E infatti ne sta uscendo rafforzato militarmente, oltre che riabilitato a livello internazionale per aver rispettato l’accordo voluto dai russi sulla distruzione delle armi chimiche. L’opposizione invece ha perso ogni credibilità a livello internazionale, è sempre più divisa e non riesce di fatto a controllare le forze armate sul terreno. Non solo, lo stallo internazionale ha di fatto ridotto in minoranza le forze democratiche dell’Esercito libero, che oggi non sono nemmeno più in grado di evitare episodi efferati come i massacri settari compiuti dalle milizie islamiste lo scorso agosto nei villaggi alawiti della regione costiera, come denunciato da Human Rights Watch.

In che condizioni vivono le persone che sono rimaste nel Paese?

Aleppo è una città sottoposta a bombardamenti aerei da più di un anno. Ogni giorno muoiono civili sotto il fuoco dei cecchini e dell’artiglieria. E la gente rimasta convive con questa situazione. Si sono abituati all’idea di poter morire in qualsiasi momento. La morte è diventato quanto di più banale si possa immaginare. Ciononostante la vita va avanti, è più forte di tutto, ci si sposa, si fanno figli, si aprono le scuole… come ho provato a raccontare nei miei diari da Aleppo.

Si può parlare, secondo te, di “laicità” in relazione alla rivoluzione siriana?

Sicuramente l’insurrezione siriana è stata un fenomeno popolare, spontaneo, di massa, apartitico e areligioso e soprattutto nonviolento, nei primi sei mesi di manifestazioni, dal marzo all’agosto del 2011. In piazza c’erano sunniti e cristiani, alawiti e druzi, arabi e curdi… E le rivendicazioni erano politiche, le parole dette afferivano al vocabolario della giustizia, della lotta, non ai libri sacri. Con la guerra ovviamente molte cose sono cambiate. E di quel movimento civile non restano che le ceneri. Ormai parlano le armi e dicono le parole dei loro finanziatori, che sono prima di tutto le petromonarchie del Golfo. Voglio dire che le principali forze dell’Esercito libero hanno un’agenda islamista, seppure moderata. Voglio dire che la guerra è sempre più una guerra settaria. Voglio dire che la presenza di Al Qaeda è ormai fuori controllo e si è rivolta contro le stesse forze islamiste moderate dell’Esercito libero.

Puoi farci un'analisi della questione migratoria alla luce degli ultimi naufragi e dell'arrivo dei profughi siriani in Italia?

Qualche cifra può aiutare a capire. A fronte di una popolazione di 23 milioni di abitanti, si calcola che in Siria siano fuggiti dalle loro case 7 milioni di persone tra sfollati interni (5milioni) e rifugiati (2milioni) registrati dalle Nazioni Unite nei campi profughi lungo il confine nei paesi limitrofi. Da un anno, siriani e palestinesi siriani hanno iniziato ad imbarcarsi per l’Italia, sulle vecchie rotte del contrabbando libico ed egiziano. Dal nostro paese poi, nella maggior parte dei casi, il loro viaggio continua verso i paesi del nord Europa o in Germania. Da gennaio ne sono arrivati 8.500. Possono sembrare tanti a chi va dicendo che l’Italia non può farsi carico dei mali del mondo. Ma in verità, sono poco più dello 0,1%, uno su mille, rispetto a quei 7 milioni di siriani fuggiti dalle loro case dall’inizio della guerra. Accoglierli dignitosamente sarebbe il minimo che l’Europa potrebbe fare, visto lo stallo totale dell’azione diplomatica dell’UE nel tentare di risolvere la guerra siriana.

Qual il ricordo per te più importante di questa esperienza?

Il ricordo più bello, come in ogni viaggio, sono i legami che restano. Sono i ragazzi del comitato civile di Ashrafiya, ad Aleppo, con i quali ho viaggiato. Li sento spesso su facebook. E questo dà il polso del giornalismo ai tempi dei social network, nel senso che scrivi le storie di amici che poi le leggono in tempo reale su google translate. È grazie a loro se ho fatto un viaggio in mezzo ai civili, senza essere embedded con nessuno esercito. Nessuno di loro era armato, perché credono nella nonviolenza, e hanno mantenuto il loro spirito critico. Sanno che il paese è andato, sanno di avere perso. Eppure, con la determinazione che è soltanto dei visionari e dei folli, hanno deciso di restare. Al rischio di morire per la propria gente, sapendo che la storia forse già domani li tradirà, ma che prima o poi la notte avrà fine, e arriverà la luce del giorno e si scriverà di loro che erano nel giusto.