E' ancora in sala, in questi giorni, a Milano il film LA MIA CLASSE di Daniele Gaglianone, in programmazione presso il Cinema Mexico di Via Savona, 57.
Riportiamo
di seguito un'intervista che abbiamo fatto per voi al regista, poco
dopo la presentazione del film al Festival di Venezia.
Quella classe di stranieri così vera, così reale: il film di Daniele Gaglianone
A due
anni da Ruggine,
Daniele
Gaglianone torna
sui banchi di scuola, in selezione ufficiale alle decima
edizione della sezione “Giornate degli Autori” alla Mostra del
Cinema di Venezia con il film intitolato “La mia classe”.
Mamon,
Bassirou, ShadiShujan, Mahobeboeh, Issa, Mussa e tutti gli altri sono
i protagonisti, ciascuno con il proprio vissuto e con le proprie
aspettative.
Valerio
Mastandrea, unico attore professionista, impersona un insegnante che
prepara una classe di 'veri' stranieri, che hanno bisogno di imparare
l'italiano, per vivere da noi e per ottenere il permesso di
soggiorno. Girato a Roma, il film è diventato un'altra cosa quando,
a poche settimane dall'inizio delle riprese è accaduto ad uno dei
ragazzi un fatto reale e grave, il mancato rinnovo del documento e il
rischio di espulsione.
Abbiamo
intervistato Daniele Gaglianone che ringraziamo tantissimo per la sua
disponibilità.
Come
sono stati scelti i ragazzi che hanno preso parte al film?
Li
abbiamo scelti in classi vere, siamo andati in giro ad assistere a
lezioni vere, reali di insegnanti di italiano per stranieri sia per
attrezzarci meglio al personaggio del professore sia per formare la
classe. Abbiamo frequentato classi di scuole istituzionali e di
associazioni culturali che, attraverso il volontariato, si rivolgono
agli stranieri.
Abbiamo
composto la classe secondo un criterio molto semplice: eravamo in
cerca di persone e non di bandiere. La composizione della classe,
infatti, è squilibrata perchè ci sono, ad esempio, tre curdi e tre
bengalesi: cioè non ci siamo preoccupati di creare un'omogeneità o
di considerare le persone come rappresentanti di etnie e questo
perchè il nostro approccio al film voleva andare al di là degli
stereotipi.
Avete
avuto qualche difficoltà con i ragazzi oppure hanno raccontato con
spontaneità il proprio vissuto?
Il
rapporto tra noi è stato coltivato, siamo entrati in confidenza
piano piano e le cose sono avvenute in maniera abbastanza naturale.
Tra aprile e ottobre abbiamo contattato le persone, spiegato il
progetto e ci siamo conosciuti in modo tale che, nel momento in cui
si doveva lavorare insieme, ci fosse già la sintonia. Poi, come
capita nella vita, ci sono persone con cui ti intendi di più e
quelle con cui c'è bisogno di più tempo.
Quali
sono le richieste o le aspettative espresse dai racconti dei ragazzi?
La
cosa fondamentale che chiedono è molto semplice: quella di essere
considerati degli individui.
Come
il film cerca di dimostrare, la loro condizione li porta davanti a
certe questioni in maniera problematica, come, per esempio, alla
questione del lavoro: qualcuno è disposto a fare lo “schiavo”,
altri no. In fondo, chiedono di poter vivere e non di sopravvivere.
Il
personaggio di Valerio Mastrandrea, il professore, non è solo un
personaggio filmico...
Parlare
del personaggio di Valerio vuol dire parlare anche della struttura
del film. La struttura è, infatti, a più livelli che sono tre: un
livello immanente, che comprende i primi due e che si può intuire
solo alla fine; un primo livello in cui Valerio interpreta un
profesore come attore, e poi c'è il secondo livello in cui Valerio è
lui, una persona. Alla fine, il primo e il secondo si confondono,
soprattutto quando Valerio recita il monologo.
Nel
film ci sono un breve prologo e un breve epilogo, estranei al film
che stiamo girando in classe, che hanno reso il progetto rischioso
perchè si tratta di un film di finzione, ma girato in modo tale che
l'impressione di realtà sia così forte da far dire allo spettatore:
“ E' vero o non è vero?”.
Infatti,
durante le riprese, è accaduto qualcosa che ha fatto cambiare la
direzione...
In
realtà è accaduta prima dell'inizio delle riprese.
Di
fronte all'impossibilità, da parte di alcuni ragazzi, di lavorare al
film ci siamo immaginati che il fatto stesse accadendo in quel
momento.
Il
film è stato pensato cercando di andare oltre quelle formule che
rischiamo di essere ricattatorie per cui tu cogli le persone in
difficoltà, all'inizio, e ti relazioni o con indifferenza oppure
dando aiuto. Qui, invece, per metà film c'è una dimensione ludica
della lezione che porta a far scattare l'empatia con i personaggi,
che non è ricattatoria. Ma quando alla fine ti raccontano il loro
inferno, a quel punto non sono più cose che accadono al “solito
immigrato”, ma accadono a una persona che, nel frattempo, ti è
diventata familiare, a un tuo amico.
Non
si tratta più di una questione che riguarda gli “altri”, ma è
una tua responsabilità perchè quella persona è entrata nella tua
vita.
Quali
riflessioni vorresti che scaturissero da questo lavoro?
Mi
auguro che questo film venga visto da più persone possibile e che
faccia scaturire delle domande diverse. C'è una battuta molto dura
che dice Valerio: “Quello che facciamo non serve a un cazzo”:
ecco, forse se ce lo diciamo, quello che facciamo può servire sul
serio.
Anche
se il peso del passato è importante, i protagonisti sono persone e
questo al di là della loro nazionalità. E sono persone in
difficoltà. Forse vorrei che questo fosse un film sull'integrazione, ma sull'integrazione nostra: siamo noi che ci dobbiamo integrare a una situazione nuova, complicata e difficile.