martedì 18 febbraio 2014

La questione del velo islamico: una questione ancora aperta




Attorno alla questione del velo infuria un dibattito molto acceso: chi lo indossa vede in esso l'espressione della propria identità religiosa e culturale e, in alcuni casi, politica; chi lo critica lo considera un ritorno al passato, la prova di un islam oscurantista e misogino. Il saggio di Renata Pepicelli (Carocci Editori) affronta questo tema da un punto di vista storico, religioso e sociopolitico in una prospettiva temporale che va dall'alba dell'Islam fino ai giorni nostri.


Abbiamo intervistato per voi Renata Pepicelli, titolare dal 2008 di un assegno di ricerca presso il dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna Alma Mater Studiorum e Dottore di ricerca in “Geopolitica e culture del Mediterraneo” presso il Sum, Istituto Italiano di Scienze Umane / Università Federico II di Napoli.


Ringraziamo tantissimo l'autrice per la sua disponibilità.





Per le donne che lo indossano, portare il velo è una scelta o un'imposizione? Nel primo caso si tratta di una scelta politica, religiosa o culturale?



Per quella che è la mia esperienza di ricerca in Italia, ma anche nei Paesi a maggioranza musulmana della sponda sud del Mediterraneo, in molti casi il velo è una scelta.

Una scelta che può in alcuni casi anche essere condizionata da fattori sociali come, per fare un esempio, dall'idea che sia più semplice trovare marito perchè velate, in quanto il velo mostra un'immagine di donna più morigerata, pia e casta. Ma la scelta è dettata, soprattutto, da un riposizionamento delle donne, all'interno di un discorso religioso, che non avviene più solamente nella sfera privata, ma anche nella sfera pubblica.

Nel corso del '900 abbiamo visto le donne svelarsi soprattutto nelle grandi città, ma non solo; a partire dalla fine del '900, invece, abbiamo un “ritorno” sempre più significativo delle donne che decidono di indossare il velo che copre la testa e, in alcuni casi, assistiamo anche a forme di velo che coprono il volto, come il niqab. Ci sono casi di imposizione o di violenze familiari che impongono alle donne di velarsi, ma nella maggioranza dei casi si tratta di una scelta.

Sicuramente alla base c'è una scelta di carattere religioso: l'idea che l'Islam e il Corano richiedano alle donne un atto di modestia che è quello di non mostrare troppo il proprio corpo. In realtà il velo dovrebbe essere la punta dell'iceberg di una più ampia idea di modestia dei comportamenti femminili per cui l'hijab, che copre la testa, non significa altro che un modo più generale di comportarsi.



Cosa può dirci della condizione femminile nei Paesi delle rivoluzioni?



Sono da poco tornata dal Marocco dove ho fatto ricerca sulla condizione e sull'attivismo femminile dopo le rivolte del 2011-12 e, in particolare, dopo l'approvazione della Costituzione del 2011.

Il Paese è estremamente diviso, con grandi differenze tra le città e le zone rurali; basti pensare che è un Paese con un altissimo tasso di analfabetismo femminile che arriva fino al 60%. E poi abbiamo, invece, eccellenze femminili in diversi campi: nell'istruzione, nell'educazione, nell'imprenditoria, nell'attivismo sui diritti umani.

Sicuramente, negli ultimi dieci anni, il Marocco ha fatto dei grandi passi nel migliorare la legislazione del Paese in materia dei diritti delle donne, a partire dalla Mudawana, che è il nuovo codice della famiglia approvato nel 2004, poi la legge che permette alle donne di passare la nazionalità ai figli fino alla nuova Costituzione che, nell'articolo 19, sostiene una forte apertura verso l'uguaglianza tra uomo e donna. Quindi, da un punto di vista legislativo, dei passi in avanti, almeno in Marocco, sono stati fatti, però tante nuove leggi fanno fatica ad essere recepite dalla popolazione e ci troviamo ancora con una realtà in cui gli uomini e le donne non godono degli stessi diritti e in cui si registrano molti casi di violenza contro le donne. Un altro significativo passo avanti è ad esempio l’abolizione - avvenuta il il 23 gennaio di quest’anno - della norma in base alla quale il responsabile dello stupro di una minorenne poteva evitare il carcere sposandola. Ma, come ricorda anche Amnesty International, restano ancora molti ostacoli da superare. Nel codice penale marocchino la definizione di stupro è molto restrittiva, non si riconosce lo stupro coniugale come reato, e si fa una differenza tra le vittime di stupro sulla base della loro verginità. Va anche ricordato che il codice penale punisce i rapporti sessuali consensuali tra adulti non sposati.
Il Marocco è un Paese dalle fortissime contraddizioni: con grandi spinte al cambiamento sociale e culturale ma anche con spinte che vanno nella direzione opposta.



Ci può accennare al lavoro a fumetti di Takwa Ben Mohamed?



Takwa Ben Mohamed è una ragazza i cui genitori sono dei tunisini, esiliati in Italia vent’anni fa. Il padre era, ed è a tutt’oggi ,un rappresentante del Partito Islamista an-Nahda. Takwa e la sua famiglia lo hanno poi raggiunto qui in Italia quando lei era molto piccola.
E' cresciuta qui, si è formata qui, vivendo in un mondo fatto anche di stereotipi e razzismi. Quindi Takwa, nei suoi fumetti, parla spesso del problema del razzismo verso ragazzi che non sono figli di genitori italiani, come pure parla del velo che lei stessa indossa.



Quali sono le differenze, ma anche i punti in comune, tra le donne arabo-musulmane e le donne occidentali?



Fare qualunque generalizzazione è fuorviante: non siamo delle categorie uniche.

Sia da una parte sia dall'altra incidono moltissimo l'educazione, l'istruzione, il posizionamento religioso, la professione, gli orientamenti e i gusti personali...

Ad esempio ho fatto interviste a molte ragazze ventenni che hanno fatto parte del Movimento del 20 febbraio - quel movimento marocchino che ha cercato di seguire le orme dei giovani rivoluzionari egiziani e tunisini – e le storie che ho raccolto raccontano che molte di loro hanno lasciato i villaggi dei propri genitori per andare a studiare all'università, vivendo da sole in grandi città. Molte di loro sono attiviste per i diritti umani e/o si definiscono di sinistra, marginalizzano la religione alla sfera privata e non indossano il velo. Quindi, sono ragazze molto simili a quelle che studiano nelle nostre università. Ma poi troviamo ragazze che scelgono percorsi di vita diversi, per ragioni economiche, per mancanza di strumenti culturali o perchè fanno della religione una dimensione centrale della propria esistenza.

Trovare affinità o non affinità tra le donne arabo-musulmane e occidentali ci richiede sempre di posizionarle in base alle categorie che ho esposto e in base a queste categorie le donne possono essere molto simili o molto distanti.