"...Non si potrà avere un globo pulito se gli uomini sporchi restano impuniti. E' un ideale che agli scettici potrà sembrare utopico, ma è su ideali come questo che la civiltà umana ha finora progredito (per quello che poteva). Morte le ideologie che hanno funestato il Novecento, la realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena dedicare il nostro stato di veglia".
venerdì 14 febbraio 2014
Per conoscere meglio la comunità cinese
Pochi giorni fa è iniziato un nuovo anno per i cinesi e per molte altre popolazioni orientali: l'anno del Cavallo. In occasione di questa festività, abbiamo rivolto alcune domande a Sergio Basso, regista del film Giallo a Milano. Un lavoro pluripremiato che aiuta gli spettatori a conoscere più a fondo una comunità considerata troppo chiusa, ma composta da uomini, donne, bambini, ragazzi che, come tutti, hanno paure e coltivano desideri, vivono la fatica della quotidianità e sognano un futuro più roseo.
Ringraziamo molto Sergio Basso per il tempo che ha voluto dedicarci e per le riflessioni suscitate dal suo intervento che riportiamo di seguito.
Quando e perché è nato questo lavoro?
Ho vissuto in Cina. Tra il 1996 e il 2008, a più riprese.
Assistere alla disinformazione mediatica alla quale la comunità cinese in Italia è sottoposta è desolante.
Altrettanto sconfortante è vedere come la società italiana continua a non raccogliere la sfida stimolante di un avvenire multiculturale, ma si arrocca sui temi vuoti dell’identità e della tradizione.
Io credo che noi non siamo chi sono stati i nostri padri, ma gli incontri che vorremmo fare. Il tempo che spendiamo a dare una definizione statica di noi, è tempo che non usiamo per incontrare l’altro.
“Giallo a Milano” non è un réportage, ma un film. Un’opera che scuota le menti, che solletichi i cervelli ma anche diverta la pancia.
Sono stufo di un approccio ai Cinesi “da entomologo”, come se fossero insetti incapaci di comunicare i propri sentimenti. In TV, ai congressi universitari, alle tavole rotonde municipali…si contattano sempre sociologi, antropologi, sinologi per spiegare chi sono i Cinesi. Non si dà mai ai Cinesi stessi l’opportunità di esprimere le proprie speranze, le proprie paure.
Si ventila la scusa che si tratta di una comunità particolarmente chiusa e che non parla la nostra lingua: forse i Friulani e i Siciliani che arrivavano a Brooklyn a fine Ottocento sapevano l’inglese?
Oltre a 150 ore di girato negli ultimi anni, il film si avvale delle foto in bianco e nero dei primi Cinesi in Italia negli anni Venti, i cosiddetti “pionieri”, e gli “home movies”, in super8 e in mini-DV, delle loro famiglie.
Uno di loro, un collaboratore di giustizia, è raccontato in animazione, per tutelarne l’identità e raccontarne la mirabolante odissea che l’ha portato sino in Italia
Ci può anticipare le storie di alcune persone che ha incontrato?
Posso fare di meglio, rimandare alla piattaforma crossmediale che presenta i personaggi del film, raccontando anche episodi ulteriori, inediti rispetto al documentario, ed è stata creata insieme al Corriere della Sera con lo studio d’animazione La Testuggine:
www.corriere.it/gialloamilano
A che punto è il dialogo tra italiani e cinesi, soprattutto dopo l'episodio di guerriglia che ha visto coinvolti stranieri e Polizia?
Ai lumbard stavano antipatici i terroni perché erano troppo pigri, adesso stanno antipatici i cinesi perché lavorano troppo e puzzano…a nessuno viene il dubbio che il problema siamo noi? È vero che l’afflusso di Cinesi nella zona è aumentato esponenzialmente negli ultimi dieci anni, e la gente ha bisogno di tempo per abituarsi all’Altro; però è anche vero che prima i Cinesi di Paolo Sarpi si sono presi i negozi, e poi il Comune ha cercato di spostarli e ha trasformato una zona di esercizi commerciali in una ZTL, spaccando le gambe ai negozianti, non solo quelli orientali. Come se non bastasse, speculazioni edilizie vorrebbero i Cinesi fuori dai piedi, per far lievitare i costi delle case. Insomma, diciamo che non mancano gli ingredienti per un bel po’ di attrito.
Credo che sotto sotto ci sia un gran misoneismo da parte italiana, cioè siamo terrorizzati dal fatto che il volto dei quartieri ci cambia attorno. Ma è il normale destino di una qualunque città che pulsi, che viva. Le culture si avvicendano.
In altre parole, i Cinesi non vengono da Vega e non hanno tre polmoni. E ti dirò di più, non c’è alcuna comunità: c’è una somma di persone che cercano con maggiore o minore successo di conquistare un equilibrio, una dignità, una felicità, formando una famiglia, credendo nel futuro. Allora la posta in gioco è: ce ne frega qualcosa di queste persone? Perché è molto facile continuare a tenerli a una certa distanza etichettandola come una “comunità”, che suona un po’ come una massa indistinta, compatta, impenetrabile. Invece sono il vicino di casa. Persone. Sentimenti.
Quali sono le sue conclusioni dopo aver intervistato i ragazzi di "seconda generazione"?
La prima generazione forse si è anche un po’ autoghettizzata. Il problema è innegabile, ma è comune di qualunque comunità migrante nella storia dell’umanità. Una delle squadre di calcio di Istanbul si chiama Galatasaray, dal nome di un quartiere della città, vale a dire è il “Serraglio dei Galati”, ed era il “Ghetto” dei mercanti genovesi, la loro testa di ponte in terra ottomana. Ancora, gii Italiani a Brooklyn non bussavano certo alle porte degli irlandesi per una festa di buon vicinato.
E poi vedo raramente ecuatoriani, nigeriani o egiziani uscire alla sera mescolandosi agli italiani. Lo dico con rammarico; lo dico per sottolineare che non è un problema solo cinese. È tipico delle prime generazioni, “fare gruppo”, per capire come sfangarla. Tra l’altro è tipico perché ogni civiltà ha il sacrosanto diritto di divertirsi come vuole, ha le sue feste comandate, i suoi riti di passaggio e di aggregazione.
Credo che il futuro sia in un meticciamento in cui ciascuno perde un po’ della propria identità e assorbe quella del prossimo.
Però c’è un tempo-ritmo in questo meticciamento; non va forzato; le istituzioni potrebbero però catalizzarlo invece di demonizzarlo come una perdita di identità.
Gli studenti universitari italiani che oggi hanno come compagni di corso dei colleghi cinesi, a Economia, Lingue e Letterature Orientali, Ingegneria non potranno essere razzisti a quarant’anni: daranno per scontato che nel loro orizzonte identitario ci siano anche gli italo-cinesi: “xiangjiao”, cioè “banane”, come essi stessi si chiamano, gialli fuori, ma bianchi dentro.
Molti di questi ragazzi hanno un’intraprendenza ed una solarità stupefacenti: penso a Francesco Wu e a Shi Yang, ad esempio.
Qual è (se c'è) il collegamento tra questo film è un altro suo documentario dal titolo "Cine tempestose"?
In comune hanno l’amore per la Cina. “Cine tempestose” potrebbe essere per così dire il prequel di “Giallo a Milano”, si occupa dei primi italiani che andarono a vivere in Cina sotto Mao. Quindi racconta una piccola ondata migratoria al contrario, dall’Italia alla Cina, a partire da fine anni Cinquanta.
Oggi la Cina è sulla bocca di tutti, ogni grande città italiana ha un dipartimento di cinese e partire per l’Asia non sembra più un viaggio impossibile.
Ma fino a pochi anni fa non era così.
Negli anni Cinquanta un gruppo di pionieri si avventurò nell’Impero di Mezzo per decifrarne un po’ di cultura e riportarne la fiammella in Europa.
Perché mai dei ventenni si lanciarono in esperienze di questo tipo in lande allora così distanti ? Cosa li spingeva?
Ogni orientalista nasconde storie pazzesche - e i sinologi italiani non sono da meno.
Jacques Pimpaneau saltò sull’Orient Express per aprire una galleria d’arte contemporanea francese in piena Beijing, finì per innamorarsi dell’Opera di Pechino e ad acquistare dischi ad Hong Kong. Correva l'anno 1958. Oggi è tra i più grandi sinologi di Francia e la sua collezione è esposta permanentemente in un palazzo di Lisbona.
Chi non ha seguito con i figli almeno una puntata della saga animata di Dragon Ball? Il cartone è giapponese, ma affonda le proprie radici in un romanzo cinese, tradotto negli anni Trenta da Arthur Waley, grande sinologo inglese nonché bibliotecario del British Museum. Waley però non andò mai in Cina: i suoi rimasero viaggi solo della mente. Tornò comunque utile ai servizi segreti per decifrare i messaggi dei Giapponesi durante la seconda guerra mondiale.
Proprio così: gran parte degli orientalisti del Novecento furono anche spie per i rispettivi Paesi, una specie di Lawrence d'Arabia...d'Oriente.
Robert van Gulik venne spedito nella Cina fra le due guerre dal governo olandese. Il raggio dei suoi interessi è stupefacente: si occupò di storia dell'arte orientale, di allevamento dei gibboni, di storia della sessualità in Cina e trovò pure il tempo di fare la spia in Egitto. Cultore del teatro delle ombre indonesiano, a Chongqing avreste potuto incrociarlo con una scimmia abbarbicata sulla spalla. Molti lo conoscono però come l'autore dei gialli del giudice Di, divenuti recentemente anche caso cinematografico.
E gli orientalisti italiani? Non sono certo da meno:
Renata Pisu diede a suo fratello Silverio l'idea di sceneggiare l'adattamento per il fumetto de Lo scimmiotto per le matite fatate di Milo Manara; Magda Abbiati mollò Venezia in pieno Sessantotto inseguendo il sogno maoista.
Alessandra Lavagnino si innamorò della Cina perché il padre era il compositore delle musiche del primo documentario italiano sulla Repubblica popolare. Ben prima di Antonioni: il regista era Carlo Lizzani, che dalla Cina portava alla bambina Alessandra giochi e storie che la facevano sognare. Oggi Alessandra Lavagnino è la sinologa di punta dell'Università di Milano.
E così Bertuccioli e sua moglie; Enrica Collotti Pischel, Edoarda Masi e Cristina Pisciotta.
Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta una manciata di Europei ogni anno riusciva ad entrare nella Cina comunista come studente universitario. Vivevano in campus, a stretto contatto con i coetanei cinesi, condividendone la vita di ogni giorno.
Un baule di storie, fotografie, souvenir, romanzi, poesie, per raccontare, attraverso il prisma di un viaggio verso il Far East, un'Italia che non c’è più. O che c'è ancora?
Nella convinzione che ascoltare la loro esperienza possa aiutarci a capire meglio anche la Cina di oggi.
Giallo a Milano ha riscosso molto successo...
“GAM” è uscito nelle sale italiane il 19 febbraio 2010, rimanendo in distribuzione fino a maggio dello stesso anno, in diverse città italiane.
Ha poi proseguito il suo cammino vincendo come Meuilleur film de commande” all’ Annecy Animation Film Festival 2010, “Best documentary director” al
China International Youth Film Festival 2010, Miglior film a carattere educativo e sociale “Cartoons on the bay” 2010, Nomination Globo d’Oro Miglior Documentario 2010, Finalista “Doc/It Professional Award” 2010. È stato presentato al Torino Film Festival 2009, Nyon Film Festival 2010, e all’estero a Oxford, in Ungheria, a Auckland (New Zealand), a Chongqing, a Beijing, a Shanghai, a Guangzhou, fino ad approdare alla messa in onda sulla RAI nel 2011. Altri festival:
2010 Ischia Film Festival
2010 Bolzano 4FF
2010 Bellaria Film Festival
2010 Up (stairs): una Notte sui Tetti, Lingotto, Torino
2010 Divercity Doc
2010 Festival "Histoires d'It. Le Nouveau Documentaire Italien", Parigi
2010 Sulle Tracce del Documentario
2010 Terra di Cinema - Festival de Tremblay-en-France
2010 Terra di Cinema - Festival du Cinéma Italien, Parigi, Istituto Italiano di Cultura
2010 Italia DOC
2010 BIF&ST – Bari International Film&Tv Festival
2010 Il Cinema Italiano Visto da Milano
2009 Filmmaker Doc Film Festival
2009 MI-Cine: Cine Italiano de Milan, Buenos Aires