Parla
di cronaca, parla di razzismo, parla di una società intollerante e
maleducata: questo e molto altro nel libro dal titolo I
giorni della vergogna. Gli insulti a Cécile Kyenge, di
Stranieri in Italia, curato dall'editore Gianluca Luciano e dal
giornalista Eugenio Balsamo.
Parolacce,
insulti, scritte sui muri, minacce, soprattutto rivolte al Ministro
Kyenge, ma che colpiscono troppo spesso anche altre persone comuni:
forse l'Italia è un Paese razzista, o forse no, ma i segnali non
sono positivi.
Per
approfondire questo argomento abbiamo rivolto alcune domande a
Eugenio Balsamo che ringraziamo per la sua disponibilità.
Partiamo
dai due punti cardine del libro: dove affondano le radici del
razzismo, in Italia? Ed è possibile difendersi dalle sue forme, più
o meno evidenti?
Io sono tra quelli che ritengono il nostro un Paese non razzista. Muovo
le mie riflessioni dalla storia che, in ogni sua fase, presenta
numerose occasioni di “intreccio” tra culture diverse.
Contaminazioni, in sostanza, che hanno portato alla costruzione del
dna dell'italiano moderno. Le più varie iniziative di integrazione e
sensibilizzazione che partono dal basso (cioè da quella società
civile svincolata da partiti e sindacati) dimostrano che, in fondo,
siamo un Paese in grado di comprendere e apprezzare le diversità.
Con l'importante conferma che, anche in un momento economicamente
difficile come quello attuale, siamo meno interessati da atti di
accusa verso il “diverso che ruba il lavoro” rispetto a tanti
altri Paesi europei.
Credo,
ciononostante, che a essere meno preparato a questa sfida postmoderna
figlia di una globalizzazione rapida sia l'apparato pubblico, ancora
ingabbiato nella difesa di un'identità nazionale che – questo è
il vero dato da accettare – non è la stessa degli anni Settanta e
Ottanta. È sufficiente il ricorso a un esempio banale come quello
dei pasti nelle mense o alla regolazione dei diversi spazi e momenti
di preghiera.
Come
ci si difende? Non sono un fan della repressione, che è comunque
importante in alcune circostanze. Insegnare che il corpus
sociale è necessariamente multiculturale e multietnico è il
principale impegno degli educatori: le scuole, la Chiesa, le caserme,
le società sportive dilettantistiche prima ancora di quelle animate
da professionisti e i consessi rappresentativi. Probabilmente sono
questi ultimi, se ci atteniamo alla cronaca, ad avere bisogno di uno
scossone e di cartellini rossi. Perché un idiota di una curva di
stadio ha un peso, un parlamentare ne ha un altro: il primo urla e
convince se stesso, il secondo riesce a trascinare migliaia di
elettori e militanti.
In
cosa consiste la "guida all'autodifesa"?
Semplicemente,
e utilmente, un riepilogo del concetto di razzismo e delle norme che
l'ordinamento pone a tutela del discriminato. E, sia chiaro, a tutela
di se stesso giacché un Paese che non difende le proprie basi
giuridiche e sociali è un Paese che si arrende all'arroganza e
all'ignoranza. Un modo, dunque, per ricordare che il razzismo non è
e non può essere un'opinione perché era e resta un reato.
Ci
può fare alcuni esempi di cronaca che hanno riguardato il ministro
Kyenge, ma anche persone comuni?
Il
governo Monti ha avuto il suo ministro per l'Integrazione. Era
bianco, romano e cristiano e quindi, mi viene da dire, non meritevole
di attenzioni particolari. Cécile Kyenge, al contrario, ha un
profilo diverso, etnicamente diverso. Il “tornatene in Congo”
avanzato da diversi ambienti di destra, spiega il rifiuto a questo
tocco di modernità azzardato da un governo italiano con notevole
ritardo rispetto alle scelte di altri Paesi occidentali che, già
diversi anni addietro, avevano puntato su esponenti politici di
origine straniera perché ormai ben inseriti nel contesto
socio-politico. È difficile credere che le critiche mosse a Kyenge –
come fa notare senza successo qualche punta di diamante della Lega
nord – siano unicamente relative alle sue proposte. Ricordiamo che
è lo stesso partito delle panchine da sottrarre agli extracomunitari
e delle ordinanze anti kebab. Che i militanti leghisti si incontrino
con quelli di Forza nuova per contestare il ministro è una conferma,
come l'idea del segretario federale del Carroccio di inaugurare una
parentesi di collaborazione con il Front national.
Allora
il “tornatene in Congo” ha lo stesso valore di “venite a
delinquere” che l'italiano medio “offre” quotidianamente
all'asiatico, africano o romeno. Il limite è quello di pensare che
una donna nata in Africa, ancorché laureata e specializzata in
Italia e “dotata” di cittadinanza italiana, possa arrivare a
occupare un posto che, nella logica del “protezionismo etnico”,
andrebbe riservato a un italiano.
Qual
è, in generale, il punto di vista dei nuovi italiani su questo
Paese?
Questo
è, secondo me, il punto più interessante di ogni indagine,
scientifica o giornalistica che sia, che voglia misurare il grado di
razzismo della nostra società. Il lavoro “I
giorni della vergogna”
include il punto di vista di giornalisti stranieri che vivono e
operano in Italia, nessuno dei quali nasconde le difficoltà iniziali
di inserimento nel contesto italiano, sociale e professionale.
Sottolineano, tuttavia, quei limiti spesso evidenti nascosti nelle
norme più varie, che talvolta penalizzano chi il nostro Paese lo
vive al pari di chi vi è nato e cresciuto. Non è certo razzismo, ma
evidente impreparazione dell'apparato pubblico (decisori compresi) ad
approcciarsi a quella nuova linfa che giunge da oltre confine.
Considero “nuovi italiani” non solo le seconde e terze
generazioni di immigrati, ma anche colore che stabilmente, da anni,
vivono in Italia sebbene sprovvisti di cittadinanza. Chiedono
l'opportunità di fare la propria parte, di essere messi in
condizione di dimostrare.
Quello
che i nuovi italiani lamentano è lo scarso coraggio del legislatore.
L'esempio principale è lo ius
soli:
proposto da più parti (anche da Cécile Kyenge) incontra il muro
apparentemente insormontabile dell'identità, del paventato rischio
che tra i bimbi e gli italiani di domani ci siano troppi Ahmed.
Mentre, al tempo stesso, l'Italia si pregia di aver dato a New York
un sindaco “campano”. Credo, tuttavia, che lo scenario di base
stia cambiando, almeno a livello di percezione. Conforta, per
esempio, il parere dei bambini delle elementari che oggi hanno
compagni di banco figli di cinesi, nigeriani, balcanici: è la loro
curiosità a superare le differenze. Ecco perché, ripeto, c'è
bisogno di un lavoro “dal basso”, abituando gli italiani di
domani a sentirsi protagonisti della stessa scena di vita.