martedì 4 novembre 2014

Meno male che è lunedì: il lavoro dentro e fuori dal carcere




Meno male che è lunedì è il titolo del documentario del giornalista e regista Filippo Vendemmiati, già vincitore del Premio David di Donatello per il suo lavoro filmico sulla storia di Federico Aldrovandi, E' stato morto un ragazzo.

Meno male che è lunedì è stato presentato, con successo, all'ultima edizione del Festival di Roma. Girato nelle stanze del carcere di Bologna della Dozza, in presa diretta racconta la quotidianità dei detenuti che lavorano nella ex palestra dell'istituto di pena, ora trasformata in officina. I racconti intrecciano storie di vita passata con il presente e permette un'interessante riflessione sul valore della dignità e sul tema della giustizia.




Abbiamo intervistato per voi Filippo Vendemmiati che ringraziamo tantissimo per la sua disponibilità.



Ci racconta, brevemente, in cosa consiste il progetto “ L'Officina dei detenuti”?



In estrema sintesi: tre aziende emiliane, leader nel settore degli imballaggi (medicinali, alimentari, sigarette) GD, Ima, Marchesini Group, hanno costituito una società, la F.I.D. (Fare impresa in Dozza) che ha aperto un’officina all’interno del carcere della Dozza di Bologna, nel capannone dove prima c’era una palestra. Dopo un corso di formazione professionale sono stato assunti a tempo indeterminato con contratto metalmeccanico di secondo livello 13 detenuti che lavorano fianco a fianco con una decina di ex operai, altamente specializzati, oggi in pensione, provenienti dalle tre stesse aziende che hanno promosso il progetto. Si lavora secondo il principio dell’isola di montaggio, le lavorazioni sono ad alto contenuto tecnologico. La F.I.D. non fa assistenza, tanto meno beneficienza. Ha un proprio bilancio a cui rispondere e produce utili. Una volta scontata la pena c’è l’impegno a riassumere i detenuti nell’indotto esterno del settore, è già avvenuto in quattro casi. I “detenuti liberati” sono reintegrati da altri che scontano la loro pena nel carcere della Dozza. In genere provengono tutti dal reparto penale, con pene definitive superiori a 5 anni.



Per quanto tempo ha seguito la quotidianità delle persone - libere e non – che vediamo nel film? E che tipo di relazioni si instaurano tra loro?



Siamo stati con troupe e telecamere circa un mese nel carcere della Dozza. 4 settimane non consecutive per lasciare soprattutto a noi il tempo di assorbire e rielaborare emozioni e punti di vista molto potenti e coinvolgenti. Abbiamo tentato in tutti i modi di non essere invasivi, di non far pesare la nostra presenza. E’ stato molto meno difficile del previsto. La realtà dell’officina si è aperta come d’incanto e ci è parsa subito uno spazio di libertà. Il rapporto con tutor e detenuti è stato profondo e senza ostacoli tanto da farmi scattare subito una domanda, forse ambiziosa e presuntuosa, e che sta alla base del film. Mi sono chiesto: è possibile parlare di carcere come un luogo di vita, seppur temporaneamente reclusa, un luogo abitato da persone e non da reclusi? Persone che sognano, che parlano e scherzano tra loro, perché condividono l’appartenenza ad un progetto collettivo che li fa uscire dalle gabbie dell’individualismo in cui la segregazione li rinchiude?



E' stata anche l'occasione di ascoltare le loro storie: cosa sperano per il presente e per il futuro?



Abbiamo parlato a lungo con i detenuti. Nello spogliatoio dell’officina, tra un caffè e una sigaretta durante i minuti di pausa, ci hanno parlato a lungo di loro stessi, ci hanno in alcuni casi consegnato i loro racconti scritti. Questo è avvenuto con grande spontaneità, quasi naturalmente, senza che nessuno di noi glielo abbia mai chiesto direttamente. Ognuno di loro apre una finestra diversa, sarebbe stato un film nel film, o meglio un altro film. Perché in realtà ho scelto di non raccontare in modo approfondito la storia di ogni detenuto. Non mi interessavano i motivi e gli errori che li hanno portati in carcere. Come con grande realismo racconta un operaio: -Se sono qua, qualcosa avranno fatto, ma a me non interessa. Per me in officina sono dei colleghi e basta-. Il film ci racconta della dimensione umana delle persone, del rapporto che cresce attorno al lavoro e in parallelo al manufatto che mani sapienti insieme costruiscono. Qualcuno ha detto che questo film parla più di lavoro come valore che del carcere come luogo chiuso. L’uomo non è solo quello che ha commesso e se in carcere si entra colpevoli, a meno che non si sia vittime di errori giudiziari, si deve uscire innocenti. Questo prescrive la nostra costituzione e l’esempio virtuoso dell’officina dei detenuti indica che è possibile applicarla.



Come avete vissuto l'esperienza della realizzazione del documentario e del festival ?



La sceneggiatura è nata dopo un lungo lavoro di selezione delle tante ore di materiale girato e durante il montaggio. Solo in questa fase mi sono reso conto anche della forza espressiva che un racconto così costruito avrebbe potuto avere. Durante le riprese non tutto era chiaro, avevamo forti emozioni e qualche idea, ma nulla di precostituito. Tutte le scene che compaiono nel film sono state riprese dal vivo, nessuna è stata preparata a tavolino. E quando qualcosa ci è sfuggito perché in quel momento eravamo disattenti o semplicemente altrove. Abbiamo scelto di non rifare, ci avrebbe rimesso la spontaneità del film. Il festival di Roma per noi tutti è stata una grande festa. Avevo personalmente promesso a Roberto, un detenuto oggi in permesso lavorativo esterno, di portarlo sul red-carpet. Non ero stato molto convincente e non mi aveva creduto, ma in fondo allora non ci credevo neppure io. Portarlo al Festival di Roma insieme a Fathim, a Mirko e ad una decina di operai, farli sfilare tutti insieme davanti a decine di fotografi, là dove passano le star del cinema, è stata una gioia indescrivibile. Noi in corteo, fischietti in bocca, dietro allo striscione Meno male è Lunedì, il titolo del film, eravamo lì a dire siamo gli evasi, quelli che evadono dai luoghi comuni per invitare tutti, anche il cinema, ad essere meno evasivo sui temi che attengono ai diritti umani e ai diritti delle persone.



La detenzione può e deve essere riabilitativa?



La risposta è scontata, ma io non voglio incorrere nell’errore di passare per uno esperto di problematiche carcerarie. C’è chi da anni se ne occupa, lavora duramente all’interno degli istituti di pena e si scontra quotidianamente con muri culturali, burocratici e legislativi. Io ho fatto solo un film e ho tentato di raccontare quello che ho visto. Posso solo dire che ho una formazione culturale, che non pretendo sia condivisa, che mi porta ad essere contrario all’ergastolo, alla “pena di morte viva”, sono contrario alle carceri e alle detenzioni speciali. Come diceva il cardinal Carlo Maria Martini una società civile non cerca pene alternative, ma alternative alle pene.


L'Associazione per i Diritti Umani dedica questa intervista a Stefano Cucchi e alla sua famiglia.