lunedì 24 novembre 2014

Profughi: nuova condanna all'Italia per i respingimenti


Violazione dei diritti umani: con questa accusa l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea di Strasburgo, insieme alla Grecia, per una serie di respingimenti indiscriminati alla frontiera nei confronti di numerosi migranti sbarcati in tre porti dell’Adriatico. E’ la terza condanna che subisce l’Italia, nel giro di appena tre anni, a livello europeo. La prima, nel febbraio del 2012, sempre da parte della Corte di Strasburgo e sempre per respingimenti avvenuti nel 2009, questa volta direttamente in mare, in ossequio alla “linea dura” contro l’emigrazione decisa dal governo Berlusconi. La seconda, nel marzo successivo, da parte del Consiglio d’Europa, per la vicenda dei 63 profughi lasciati morire di sete e d’inedia su un gommone abbandonato alla deriva per quindici giorni, nell’aprile del 2011. Ora arriva questa terzo, pesante verdetto, proprio mentre è in corso in tutta Europa, sotto la guida italiana, la contestatissima Mos Maiorum, l’operazione di polizia volta a individuare, fermare e schedare quanti più migranti possibile.

La Corte ha pronunciato la sentenza il 21 ottobre. Vittime del sopruso sono 35 profughi: 32 afghani, 2 sudanesi e un eritreo, giunti con un ferry di linea ad Ancona, Venezia e Bari. Era il 2009, uno degli anni più bui della “politica dei respingimenti” voluta con forza soprattutto dall’allora ministro dell’intero leghista Roberto Maroni, con disposizioni capestro per tutte le forze di polizia e la stessa Marina Militare. Non a caso si tratta di tre episodi distinti ma del tutto simili: il più grave ad Ancona, dove è stato bloccato il gruppo più numeroso di rifugiati, tutti afghani. Intercettati alla frontiera al momento dello sbarco, i migranti – ad Ancona come a Venezia e a Bari – sono stati fermati, identificati e affidati al comandante della nave, con l’incarico di riportarli in Grecia, a Patrasso, e consegnarli alla polizia ellenica. Tutto in un arco di tempo brevissimo, senza esaminare le loro storie e senza che fosse data a nessuno la possibilità di appellarsi al diritto di asilo. Senza, anzi, che fosse loro almeno spiegato cosa stesse accadendo. Ad alcuni, tutti afghani, ad esempio, ad Ancona gli agenti hanno consegnato delle brochures nelle quali, in effetti, venivano elencati i diritti dei migranti, solo che erano scritte in arabo, una lingua che nessuno di loro conosceva. C’è da chiedersi perché non siano stati usati opuscoli in inglese. Soltanto un imperdonabile errore? Sembra una farsa ma, purtroppo, è un dramma consumato sulla vita di decine di persone.

Sta di fatto che quei richiedenti asilo non hanno potuto rendersi conto di nulla: si sono ritrovati di nuovo sul ferry con cui erano arrivati, sotto chiave  in una cabina, senza neanche poterne capire il perché. Trattamenti sostanzialmente analoghi hanno ricevuto gli altri profughi, a Venezia e a Bari. Trattamenti che la Corte di Strasburgo, dopo cinque anni di istruttoria, ha considerato una forma di espulsione collettiva indiscriminata, in contrasto con le norme del diritto di asilo. In particolare, i giudici ritengono che siano stati violati tre articoli della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo: il numero 3 (“Nessuno può essere sottoposto a torture né a pena o trattamenti inumani o degradanti”); il 13 (“Ogni persona i cui diritti e le cui libertà siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo davanti a una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono) nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”), e il numero 4 del quarto protocollo (“Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”).

L’Italia si è giustificata asserendo di essersi solo attenuta alle norme del trattato di Dublino per cui i rifugiati vanno presi in carico dal primo Stato dell’Unione Europea dove arrivano e al quale rivolgono la richiesta di aiuto. In questo caso, la Grecia. La Corte ha però eccepito che il trattato di Dublino non poteva essere applicato a causa della difficile situazione che attraversava la Grecia e, in particolare, per il trattamento che veniva riservato nel paese ai migranti. Atene – dicono infatti i giudici – non era nella posizione di garantire il diritto d’asilo e l’Italia non poteva non saperlo. Era più che noto, insomma, che la Grecia era sconvolta in quei mesi da duri contrasti politici e si respirava un diffuso senso di ostilità e risentimento nei confronti dei numerosi stranieri che erano riusciti in qualche modo a varcare le frontiere: ben 146.337 nell’arco del solo 2008. Eloquenti i rapporti del Commissariato dell’Onu (Unhcr), che aveva denunciato numerosi arresti arbitrari di gruppo, contro gli immigrati, da parte della polizia, e pessime condizioni di vita nei centri di raccolta, spesso privi di qualsiasi forma o servizio di assistenza. Senza contare la prospettiva di espulsione e rimpatrio forzato nei paesi d’origine dove, essendo fuggiti da clandestini, quei profughi rischiavano di subire carcerazioni pesantissime, forse persino la tortura e la morte. Vale la pena ricordare che non per niente, in quello stesso periodo, diversi tribunali tedeschi bloccarono la “restituzione” all’Italia di profughi giunti in Germania dalla Grecia passando per la nostra penisola, nel timore che poi Roma li consegnasse alle autorità elleniche.

L’Italia non ha avuto questi stessi scrupoli. Così, una volta rispediti indietro e arrivati a Patrasso, tutti quei 35 profughi respinti da Ancona, Venezia e Bari sono stati fermati e rinchiusi in un campo di smistamento e poi rilasciati solo alla condizione di andarsene dalla Grecia entro 30 giorni. Le loro strade, a quel punto, si sono divise. Molti, dopo altre traversie, hanno avuto modo di arrivare in vari Stati europei. Uno è approdato di nuovo in Italia. Ma uno è dovuto ritornare in Afghanistan.

Il procedimento che ha portato a ricostruire questa vicenda e poi alla condanna è stato lungo e complicato. Il caso è stato subito sollevato dall’Unhcr, da Amnesty e da Aire Centre (Centro per i diritti individuali in Europa), ma non è stato facile rintracciare le vittime, disperse ormai per ogni dove, per poter impostare la procedura legale. “Anche perché la polizia greca – denuncia Fulvio Vassallo Paleologo, dell’Associazione giuristi per i diritti degli immigrati (Asgi) – nell’estate del 2009, alcuni mesi dopo il ricorso, ha sgomberato violentemente il campo di Patrasso, distrutto documenti e beni personali ed eseguito numerose deportazioni”. A ritrovare e a ricucire almeno parte delle singole storie, rendendo così possibile il ricorso alla Corte di Strasburgo, è stato il lavoro assiduo, spesso rischioso, di associazioni e volontari coordinati da Alessandra Sciurba e dagli avvocati Ballerini di Genova e Mandro di Venezia. Grazie a loro, dopo mesi di ricerca, sono stati rintracciati quattro di quei 35 profughi, tutti afghani, tutti respinti da Ancona e tutti finiti in varie parti d’Europa, dopo l’espulsione dalla Grecia. Raccolta in un articolo di Alessandra Sciurba, la loro voce è diventata la struttura portante del dossier fatto pervenire a Strasburgo. E la Corte, ora, ne ha confermato la denuncia: nei loro confronti è stato perpetrato un sopruso.

E’ una sentenza importante. Dovrebbe segnare una svolta. O quanto meno suonare come un monito per la politica europea sull’immigrazione. Eppure la Grecia, malgrado la condanna appena ricevuta – come fa notare Fulvio Vassallo Paleologo – pare stia per eseguire un altro respingimento collettivo dall’isola di Simi, nel Dodecaneso, verso la costa turca, distante poche miglia di mare fortemente presidiato dalla Guardia Costiera. L’Italia non è da meno: proprio in questi giorni si sono registrati almeno altri due casi di respingimento: un piccolo gruppo di siriani sbarcati all’aeroporto di Crotone e una signora, sempre siriana, arrivata all’aeroporto di Fiumicino da Istanbul insieme al marito, residente già da tempo in Europa. La “giustificazione” della polizia di frontiera è stata che quei migranti avevano documenti falsi. E’ vero. Lo hanno ammesso gli stessi interessati, specificando però che erano stati costretti a usare documenti falsificati per poter uscire dalla Siria travolta dalla guerra di tutti contro tutti che dura da anni. Ma nessuno ha preso in considerazione la loro “storia” nel contesto degli avvenimenti tragici che si stanno verificando: ci si è limitati all’identificazione anagrafica e alla constatazione materiale del “falso”. Nessun peso è stato dato neanche al fatto che la donna arrivata da Istanbul è malata di cancro e non può essere dunque respinta, se non altro per ragioni umanitarie.

Italia e Grecia, come avverte la stessa Corte di Strasburgo, hanno ora tre mesi di tempo per impugnare eventualmente la sentenza, ricorrendo in appello davanti alla Gran Camera. Ecco il punto, allora: si tratta di vedere, adesso, se lo Stato italiano intende contestare il verdetto o ne farà invece davvero un punto di svolta, accettando le condanna e facendone tesoro per impostare un rapporto diverso con la tragedia dei profughi che premono dal Sud del mondo verso la Fortezza Europa. Stando agli episodi di Crotone e di Fiumicino, però, le premesse non sono incoraggianti. Ed è indicativo che questa nuova condanna sia passata pressoché inosservata: la stampa ne ha parlato poco o niente, la “politica” ancora di meno. Quasi si volesse far finta di non vedere per poter continuare ad avere mano libera nei respingimenti.