Violazione
dei diritti umani: con questa accusa l’Italia è stata condannata
dalla Corte Europea di Strasburgo, insieme alla Grecia, per una serie
di respingimenti indiscriminati alla frontiera nei confronti di
numerosi migranti sbarcati in tre porti dell’Adriatico. E’ la
terza condanna che subisce l’Italia, nel giro di appena tre anni, a
livello europeo. La prima, nel febbraio del 2012, sempre da parte
della Corte di Strasburgo e sempre per respingimenti avvenuti nel
2009, questa volta direttamente in mare, in ossequio alla “linea
dura” contro l’emigrazione decisa dal governo Berlusconi. La
seconda, nel marzo successivo, da parte del Consiglio d’Europa, per
la vicenda dei 63 profughi lasciati morire di sete e d’inedia su un
gommone abbandonato alla deriva per quindici giorni, nell’aprile
del 2011. Ora arriva questa terzo, pesante verdetto, proprio mentre è
in corso in tutta Europa, sotto la guida italiana, la contestatissima
Mos Maiorum, l’operazione di polizia volta a individuare, fermare e
schedare quanti più migranti possibile.
La
Corte ha pronunciato la sentenza il 21 ottobre. Vittime del sopruso
sono 35 profughi: 32 afghani, 2 sudanesi e un eritreo, giunti con un
ferry di linea ad Ancona, Venezia e Bari. Era il 2009, uno degli anni
più bui della “politica dei respingimenti” voluta con forza
soprattutto dall’allora ministro dell’intero leghista Roberto
Maroni, con disposizioni capestro per tutte le forze di polizia e la
stessa Marina Militare. Non a caso si tratta di tre episodi distinti
ma del tutto simili: il più grave ad Ancona, dove è stato bloccato
il gruppo più numeroso di rifugiati, tutti afghani. Intercettati
alla frontiera al momento dello sbarco, i migranti – ad Ancona come
a Venezia e a Bari – sono stati fermati, identificati e affidati al
comandante della nave, con l’incarico di riportarli in Grecia, a
Patrasso, e consegnarli alla polizia ellenica. Tutto in un arco di
tempo brevissimo, senza esaminare le loro storie e senza che fosse
data a nessuno la possibilità di appellarsi al diritto di asilo.
Senza, anzi, che fosse loro almeno spiegato cosa stesse accadendo. Ad
alcuni, tutti afghani, ad esempio, ad Ancona gli agenti hanno
consegnato delle brochures nelle quali, in effetti, venivano elencati
i diritti dei migranti, solo che erano scritte in arabo, una lingua
che nessuno di loro conosceva. C’è da chiedersi perché non siano
stati usati opuscoli in inglese. Soltanto un imperdonabile errore?
Sembra una farsa ma, purtroppo, è un dramma consumato sulla vita di
decine di persone.
Sta
di fatto che quei richiedenti asilo non hanno potuto rendersi conto
di nulla: si sono ritrovati di nuovo sul ferry con cui erano
arrivati, sotto chiave in una cabina, senza neanche poterne
capire il perché. Trattamenti sostanzialmente analoghi hanno
ricevuto gli altri profughi, a Venezia e a Bari. Trattamenti che la
Corte di Strasburgo, dopo cinque anni di istruttoria, ha considerato
una forma di espulsione collettiva indiscriminata, in contrasto con
le norme del diritto di asilo. In particolare, i giudici ritengono
che siano stati violati tre articoli della Convenzione Europea a
salvaguardia dei diritti dell’Uomo: il numero 3 (“Nessuno
può essere sottoposto a torture né a
pena
o trattamenti inumani o degradanti”);
il 13 (“Ogni
persona i cui diritti e le cui libertà siano stati violati ha
diritto a un ricorso effettivo davanti a una istanza nazionale, anche
quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono)
nell’esercizio
delle loro funzioni ufficiali”),
e il numero 4 del quarto protocollo (“Le
espulsioni collettive di stranieri sono vietate”).
L’Italia
si è giustificata asserendo di essersi solo attenuta alle norme del
trattato di Dublino per cui i rifugiati vanno presi in carico dal
primo Stato dell’Unione Europea dove arrivano e al quale rivolgono
la richiesta di aiuto. In questo caso, la Grecia. La Corte ha però
eccepito che il trattato di Dublino non poteva essere applicato a
causa della difficile situazione che attraversava la Grecia e, in
particolare, per il trattamento che veniva riservato nel paese ai
migranti. Atene – dicono infatti i giudici – non era nella
posizione di garantire il diritto d’asilo e l’Italia non poteva
non saperlo. Era più che noto, insomma, che la Grecia era sconvolta
in quei mesi da duri contrasti politici e si respirava un diffuso
senso di ostilità e risentimento nei confronti dei numerosi
stranieri che erano riusciti in qualche modo a varcare le frontiere:
ben 146.337 nell’arco del solo 2008. Eloquenti i rapporti del
Commissariato dell’Onu (Unhcr), che aveva denunciato numerosi
arresti arbitrari di gruppo, contro gli immigrati, da parte della
polizia, e pessime condizioni di vita nei centri di raccolta, spesso
privi di qualsiasi forma o servizio di assistenza. Senza contare la
prospettiva di espulsione e rimpatrio forzato nei paesi d’origine
dove, essendo fuggiti da clandestini, quei profughi rischiavano di
subire carcerazioni pesantissime, forse persino la tortura e la
morte. Vale la pena ricordare che non per niente, in quello stesso
periodo, diversi tribunali tedeschi bloccarono la “restituzione”
all’Italia di profughi giunti in Germania dalla Grecia passando per
la nostra penisola, nel timore che poi Roma li consegnasse alle
autorità elleniche.
L’Italia
non ha avuto questi stessi scrupoli. Così, una volta rispediti
indietro e arrivati a Patrasso, tutti quei 35 profughi respinti da
Ancona, Venezia e Bari sono stati fermati e rinchiusi in un campo di
smistamento e poi rilasciati solo alla condizione di andarsene dalla
Grecia entro 30 giorni. Le loro strade, a quel punto, si sono divise.
Molti, dopo altre traversie, hanno avuto modo di arrivare in vari
Stati europei. Uno è approdato di nuovo in Italia. Ma uno è dovuto
ritornare in Afghanistan.
Il
procedimento che ha portato a ricostruire questa vicenda e poi alla
condanna è stato lungo e complicato. Il caso è stato subito
sollevato dall’Unhcr, da Amnesty e da Aire Centre (Centro per i
diritti individuali in Europa), ma non è stato facile rintracciare
le vittime, disperse ormai per ogni dove, per poter impostare la
procedura legale. “Anche perché la polizia greca – denuncia
Fulvio Vassallo Paleologo, dell’Associazione giuristi per i diritti
degli immigrati (Asgi) – nell’estate del 2009, alcuni mesi dopo
il ricorso, ha sgomberato violentemente il campo di Patrasso,
distrutto documenti e beni personali ed eseguito numerose
deportazioni”. A ritrovare e a ricucire almeno parte delle singole
storie, rendendo così possibile il ricorso alla Corte di Strasburgo,
è stato il lavoro assiduo, spesso rischioso, di associazioni e
volontari coordinati da Alessandra Sciurba e dagli avvocati Ballerini
di Genova e Mandro di Venezia. Grazie a loro, dopo mesi di ricerca,
sono stati rintracciati quattro di quei 35 profughi, tutti afghani,
tutti respinti da Ancona e tutti finiti in varie parti d’Europa,
dopo l’espulsione dalla Grecia. Raccolta in un articolo di
Alessandra Sciurba, la loro voce è diventata la struttura portante
del dossier fatto pervenire a Strasburgo. E la Corte, ora, ne ha
confermato la denuncia: nei loro confronti è stato perpetrato un
sopruso.
E’
una sentenza importante. Dovrebbe segnare una svolta. O quanto meno
suonare come un monito per la politica europea sull’immigrazione.
Eppure la Grecia, malgrado la condanna appena ricevuta – come fa
notare Fulvio Vassallo Paleologo – pare stia per eseguire un altro
respingimento collettivo dall’isola di Simi, nel Dodecaneso, verso
la costa turca, distante poche miglia di mare fortemente presidiato
dalla Guardia Costiera. L’Italia non è da meno: proprio in questi
giorni si sono registrati almeno altri due casi di respingimento: un
piccolo gruppo di siriani sbarcati all’aeroporto di Crotone e una
signora, sempre siriana, arrivata all’aeroporto di Fiumicino da
Istanbul insieme al marito, residente già da tempo in Europa. La
“giustificazione” della polizia di frontiera è stata che quei
migranti avevano documenti falsi. E’ vero. Lo hanno ammesso gli
stessi interessati, specificando però che erano stati costretti a
usare documenti falsificati per poter uscire dalla Siria travolta
dalla guerra di tutti contro tutti che dura da anni. Ma nessuno ha
preso in considerazione la loro “storia” nel contesto degli
avvenimenti tragici che si stanno verificando: ci si è limitati
all’identificazione anagrafica e alla constatazione materiale del
“falso”. Nessun peso è stato dato neanche al fatto che la donna
arrivata da Istanbul è malata di cancro e non può essere dunque
respinta, se non altro per ragioni umanitarie.
Italia
e Grecia, come avverte la stessa Corte di Strasburgo, hanno ora tre
mesi di tempo per impugnare eventualmente la sentenza, ricorrendo in
appello davanti alla Gran Camera. Ecco il punto, allora: si tratta di
vedere, adesso, se lo Stato italiano intende contestare il verdetto o
ne farà invece davvero un punto di svolta, accettando le condanna e
facendone tesoro per impostare un rapporto diverso con la tragedia
dei profughi che premono dal Sud del mondo verso la Fortezza Europa.
Stando agli episodi di Crotone e di Fiumicino, però, le premesse non
sono incoraggianti. Ed è indicativo che questa nuova condanna sia
passata pressoché inosservata: la stampa ne ha parlato poco o
niente, la “politica” ancora di meno. Quasi si volesse far finta
di non vedere per poter continuare ad avere mano libera nei
respingimenti.