Continuiamo ad occuparci di lotta alle mafie e vi proponiamo il libro intitolato Generazione Rosarno di Serena Uccello, per Melampo edizioni.
Si può nascere in una famiglia di 'ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso, di libertà e di rispetto vero? Vive e pulsa in questo libro una scuola superiore in cui vengono abbattuti antichi e nuovi pregiudizi e privilegi, dove non esistono figli di boss né figli di collaboratori o di testimoni di giustizia, dove mille ragazzi e ragazze si ritrovano ogni mattina tutti uguali, senza dover sopportare il peso delle storie personali. Dove una leggerezza gentile e sconosciuta è capace di generare nuova cultura. Una scuola che è un autentico fortino piantato in una periferia geografica e sociale, da cui insegna le opportunità e le promesse del mondo. Si chiama Rosarno ma diventa alla fine simbolo di tutto il Sud.
L'Associazione
per i Diritti umani ha intervistato per voi l'autrice e la ringrazia.
Il libro è
ambientato in Calabria, una terra bellissima e difficile. Quali sono
i tratti della cultura tradizionale in cui affondano le radici della
mentalità mafiosa?
Questa domanda richiede un’analisi di
tipo antropologico che non sono in grado di fare, non ne ho gli
strumenti, né la formazione. Posso però dare una chiave di lettura
di tipo storico e sociale per spiegare perché la ‘ndrangheta è
cresciuta così tanto in questi anni, in una situazione di
sostanziale silenzio. In questo senso la spiegazione è l’isolamento
della Calabria. Isolamento geografico e culturale, appunto. Prendo in
prestito il procuratore Giuseppe Pignatone, già capo della Procura
di Reggio Calabria, oggi capo della procura di Roma: “la
società calabrese è realmente isolata dal resto del paese. Non
esiste la Calabria, ma esistono le Calabrie: la provincia di
Reggio è totalmente diversa da quella di Cosenza o dall’alto
Catanzarese. L’isolamento tra le diverse province e dell’intera
regione è innanzitutto fisico. La rete viaria inadeguata, i
cantieri dell’A3, le carenze della rete ferroviaria, lo
sbarramento fisico dello Stretto amplificano l’isolamento
geografico”. All’isolamento geografico c’è poi da aggiungere
quello informativo. Negli ultimi anni sui giornali di ’ndrangheta
si è scritto, forse poco o forse in modo discontinuo, titoli e
commenti e inchieste. Ma prima? Prima di Duisburg, la strage di
Duisburg, quella in cui, nell’agosto del 2007, furono uccise sei
persone, o prima di più recenti operazioni che hanno portato,
soprattutto in Lombardia e nel nord Italia, all’arresto di
centinaia di persone? Qualche titolo di tanto in tanto e poco
altro. Di fatto ha ragione il procuratore capo di Roma quando parla
di “cono d’ombra” ricordando come “l’agenzia Ansa sia a
Catanzaro, la sede Rai a Cosenza” e che “nessuna testata
nazionale ha una redazione in Calabria”, mentre “il
quotidiano più diffuso, la Gazzetta
del Sud è
un giornale di Messina che pubblica pagine sulla Calabria”.
Quindi non saprei esattamente dire in
quali tratti della cultura tradizione affondi la mentalità mafiosa,
posso però dire che la mentalità mafiosa si nutre dell’isolamento
e dell’assenza di cura da parte dello Stato e in questo isolamento
cresce.
Da dove può o
deve ripartire la cultura della legalità?
Il mio libro è sostanzialmente
ambientato in una scuola. Un scuola sotto molti aspetti speciale
perché è riuscita a compiere la sfida della inclusione. A far
convivere cioè i figli di vittime, con i figli dei boss, con figli
dei collaboratori. A far loro condividere tempo, spazio e sogni. Ecco
la cultura della legalità deve, secondo me, essere meno slogan, meno
pratica convegnistica, e più pedagogia del Bene. Come dice la
ricercatrice Ombretta Ingrascì la pedagogia bianca che si oppone a
quella nera della violenza.
Come si svolge la
lotta alle mafie a Rosarno (e in altri luoghi)?
La
lotta alle mafie è stata a lungo repressione. E l’aspetto
repressivo è e deve restare centrale. In questi anni sono stati
raggiunti risultati importantissimi. Tuttavia i risultati si sono
cominciati a vedere anche su lungo periodo quando accanto alla
repressione c’è la formazione. In questo caso uso le parole della
scrittrice Evelina Santangelo che ho intervistato per il libro: “Non
è un caso, credo, che in Sicilia il momento di maggiore forza della
lotta alla mafia sia stato quando si è creata una saldatura tra il
braccio operativo di chi deve condurre l’attività investigativa e
repressiva e il mondo della formazione. Perché è evidente che
la lotta alla mafia è lotta alla sottocultura mafiosa. E questa
lotta si può condurre solo se c’è collaborazione tra tutte le
forze in campo”.
Quanto sono
importanti le donne nel tramandare il valore della vita ?
Le donne sono fondamentali. Così come
sono loro a tramandare il codice della violenza dai padri ai figli,
sono loro che sempre in nome dei figli possono rompere la catena del
sangue. E in questi ultimi anni in Calabria ma non solo abbiamo avuto
diversi esempi. Penso a Lea Garofalo, ma anche a Maria Concetta
Cacciola, che purtroppo hanno pagato con la vita la loro scelta di
rottura. Ma penso anche a Giusy Pesce che invece è riuscita a
salvare se stessa e i suoi figli scegliendo la strada della
collaborazione.
Questo sono le sue parole che spiegano
più di mille analisi.
“Se
io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino
potrebbe già essere in un carcere minorile, e comunque gli
metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece
dovranno sposare due uomini di ’ndrangheta e saranno costrette
a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per
loro... Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere ma
nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato. Quando
il mio bambino, una volta, ha detto che da grande avrebbe voluto fare
il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che
una pistola gliel’avrebbe regalata lui... Un giorno che io gli
chiesi a mio figlio ‘Che cosa vuoi fare quando sei veramente
grande?’ E lui mi rispose ‘Il carabiniere’, loro lo
aggredirono: ‘Che stai dicendo, scemo, storto!’, tipo loro
hanno questo carattere, parlavano così, con i bambini hanno una
delicatezza particolare”.
Qual è l'operato
dei giudici e delle istituzioni per salvare i giovani che
appartengono a famiglie malavitose?
Anche
in questo caso voglio rispondere raccontando un aneddoto che riporto
nel libro. Un pomeriggio un piccolo gruppo di studenti del liceo
Raffaele Piria di Rosarno sta partecipando a un seminario tenuto da
Michele Prestipino allora procuratore aggiunto a Reggio Calabria,
oggi a Roma. I ragazzi stanno lavorando su un libro, un romanzo La
vita obliqua di Enzo Siciliano. E quel giorno in particolare stanno
discutendo della vendetta, esattamente di qual è la differenza tra
chiedere giustizia invece di vendetta. A un certo punto Prestipino
si rivolge ad un ragazzo in prima fila e dice: “Vieni
Carmelo, tu che pensi?”. Carmelo si avvicina e Prestipino lo tira a
sé allungandogli un braccio sulle spalle. Il movimento
di entrambi è spontaneo. E mi colpisce molto. Mi colpisce perché
Carmelo è Carmelo Bellocco. Anche i Bellocco sono una famiglia
sminuzzata tra morti, latitanti ed ergastolani. Alcuni di questi
arresti portano pure la firma di Prestipino, così la naturalezza
con cui il primo ha accolto il secondo e il secondo si è fatto
accogliere mi appare inedita e mi appare straordinaria. Ho così
compreso che solo l’accoglienza può far passare il messaggio che
non esiste una predestinazione al Male ma che ognuno può riscattare
se stesso. L’accoglienza e anche il sostegno.
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