mercoledì 9 dicembre 2015

Generazione Rosarno: dalla violenza alla legalità



Continuiamo ad occuparci di lotta alle mafie e vi proponiamo il libro intitolato Generazione Rosarno di Serena Uccello, per Melampo edizioni.




Si può nascere in una famiglia di 'ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso, di libertà e di rispetto vero? Vive e pulsa in questo libro una scuola superiore in cui vengono abbattuti antichi e nuovi pregiudizi e privilegi, dove non esistono figli di boss né figli di collaboratori o di testimoni di giustizia, dove mille ragazzi e ragazze si ritrovano ogni mattina tutti uguali, senza dover sopportare il peso delle storie personali. Dove una leggerezza gentile e sconosciuta è capace di generare nuova cultura. Una scuola che è un autentico fortino piantato in una periferia geografica e sociale, da cui insegna le opportunità e le promesse del mondo. Si chiama Rosarno ma diventa alla fine simbolo di tutto il Sud.






L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi l'autrice e la ringrazia.



Il libro è ambientato in Calabria, una terra bellissima e difficile. Quali sono i tratti della cultura tradizionale in cui affondano le radici della mentalità mafiosa?


Questa domanda richiede un’analisi di tipo antropologico che non sono in grado di fare, non ne ho gli strumenti, né la formazione. Posso però dare una chiave di lettura di tipo storico e sociale per spiegare perché la ‘ndrangheta è cresciuta così tanto in questi anni, in una situazione di sostanziale silenzio. In questo senso la spiegazione è l’isolamento della Calabria. Isolamento geografico e culturale, appunto. Prendo in prestito il procuratore Giuseppe Pignatone, già capo della Procura di Reggio Calabria, oggi capo della procura di Roma: “la società calabrese è realmente isolata dal resto del paese. Non esiste la Calabria, ma esistono le Ca­labrie: la provincia di Reggio è totalmente diversa da quella di Cosenza o dall’alto Catanzarese. L’isolamento tra le diverse province e dell’intera regione è innanzitutto fisico. La rete via­ria inadeguata, i cantieri dell’A3, le carenze della rete ferrovia­ria, lo sbarramento fisico dello Stretto amplificano l’isolamento geografico”. All’isolamento geografico c’è poi da aggiungere quello informativo. Negli ultimi anni sui giornali di ’ndran­gheta si è scritto, forse poco o forse in modo discontinuo, titoli e commenti e inchieste. Ma prima? Prima di Duisburg, la strage di Duisburg, quella in cui, nell’agosto del 2007, furono uccise sei persone, o prima di più recenti ope­razioni che hanno portato, soprattutto in Lombardia e nel nord Italia, all’arresto di centinaia di persone? Qualche titolo di tan­to in tanto e poco altro. Di fatto ha ragione il procuratore capo di Roma quando parla di “cono d’ombra” ricordando come “l’agenzia Ansa sia a Catanzaro, la sede Rai a Cosenza” e che “nessuna testata nazionale ha una redazione in Calabria”, men­tre “il quotidiano più diffuso, la Gazzetta del Sud è un giornale di Messina che pubblica pagine sulla Calabria”.

Quindi non saprei esattamente dire in quali tratti della cultura tradizione affondi la mentalità mafiosa, posso però dire che la mentalità mafiosa si nutre dell’isolamento e dell’assenza di cura da parte dello Stato e in questo isolamento cresce.



Da dove può o deve ripartire la cultura della legalità?


Il mio libro è sostanzialmente ambientato in una scuola. Un scuola sotto molti aspetti speciale perché è riuscita a compiere la sfida della inclusione. A far convivere cioè i figli di vittime, con i figli dei boss, con figli dei collaboratori. A far loro condividere tempo, spazio e sogni. Ecco la cultura della legalità deve, secondo me, essere meno slogan, meno pratica convegnistica, e più pedagogia del Bene. Come dice la ricercatrice Ombretta Ingrascì la pedagogia bianca che si oppone a quella nera della violenza.


Come si svolge la lotta alle mafie a Rosarno (e in altri luoghi)?


La lotta alle mafie è stata a lungo repressione. E l’aspetto repressivo è e deve restare centrale. In questi anni sono stati raggiunti risultati importantissimi. Tuttavia i risultati si sono cominciati a vedere anche su lungo periodo quando accanto alla repressione c’è la formazione. In questo caso uso le parole della scrittrice Evelina Santangelo che ho intervistato per il libro: “Non è un caso, credo, che in Sicilia il momento di maggiore forza della lotta alla mafia sia stato quando si è creata una saldatura tra il braccio operativo di chi deve condurre l’attività investigativa e repressiva e il mon­do della formazione. Perché è evidente che la lotta alla mafia è lotta alla sottocultura mafiosa. E questa lotta si può condurre solo se c’è collaborazione tra tutte le forze in campo”.



Quanto sono importanti le donne nel tramandare il valore della vita ?


Le donne sono fondamentali. Così come sono loro a tramandare il codice della violenza dai padri ai figli, sono loro che sempre in nome dei figli possono rompere la catena del sangue. E in questi ultimi anni in Calabria ma non solo abbiamo avuto diversi esempi. Penso a Lea Garofalo, ma anche a Maria Concetta Cacciola, che purtroppo hanno pagato con la vita la loro scelta di rottura. Ma penso anche a Giusy Pesce che invece è riuscita a salvare se stessa e i suoi figli scegliendo la strada della collaborazione.

Questo sono le sue parole che spiegano più di mille analisi.

Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere mino­rile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomi­ni di ’ndrangheta e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro... Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato. Quando il mio bambino, una volta, ha detto che da grande avrebbe voluto fare il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel’avrebbe regalata lui... Un giorno che io gli chiesi a mio figlio ‘Che cosa vuoi fare quando sei veramente grande?’ E lui mi rispose ‘Il carabi­niere’, loro lo aggredirono: ‘Che stai dicendo, scemo, stor­to!’, tipo loro hanno questo carattere, parlavano così, con i bambini hanno una delicatezza particolare”.



Qual è l'operato dei giudici e delle istituzioni per salvare i giovani che appartengono a famiglie malavitose?


Anche in questo caso voglio rispondere raccontando un aneddoto che riporto nel libro. Un pomeriggio un piccolo gruppo di studenti del liceo Raffaele Piria di Rosarno sta partecipando a un seminario tenuto da Michele Prestipino allora procuratore aggiunto a Reggio Calabria, oggi a Roma. I ragazzi stanno lavorando su un libro, un romanzo La vita obliqua di Enzo Siciliano. E quel giorno in particolare stanno discutendo della vendetta, esattamente di qual è la differenza tra chiedere giustizia invece di vendetta. A un certo punto Prestipino si rivolge ad un ragazzo in prima fila e dice: “Vieni Carmelo, tu che pensi?”. Carmelo si avvicina e Prestipino lo tira a sé allungandogli un braccio sulle spalle. Il movimento di entrambi è spontaneo. E mi colpisce molto. Mi colpisce perché Carmelo è Carmelo Bellocco. Anche i Bellocco sono una famiglia sminuzzata tra morti, latitanti ed ergastolani. Alcuni di questi arresti portano pure la firma di Prestipino, così la na­turalezza con cui il primo ha accolto il secondo e il secondo si è fatto accogliere mi appare inedita e mi appare straordinaria. Ho così compreso che solo l’accoglienza può far passare il messaggio che non esiste una predestinazione al Male ma che ognuno può riscattare se stesso. L’accoglienza e anche il sostegno.





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