Dopo l'anteprima nazionale al festival del Cinema africano, d'Asia e America latina di Milano, è
uscito nelle sale cinematografiche italiane il 29 agosto scorso e la
data di programmazione non aiuta l'affluenza di pubblico, ma è un
film da tenere presente: stiamo parlando di Infanzia
clandestina del
regista Benjamin Avila che, in questa sua opera prima, racconta in
parte una vicenda autobiografica per estendere la narrazione alla
vita in Argentina tra il 1976 e il 1983, ovvero gli anni dell'ultima
dittatura militare.
La
storia è ambientata nel 1979: dopo la morte del presidente Juan
Pèron, il Paese è governato dai militari. Dopo molti anni di esilio
- i genitori del dodicenne Juan - Cristina e Horacio, insieme allo
zio Beto - decidono di fare ritorno in Argentina per ricongiungersi
al gruppo rivoluzionario dei Montoneros. Nessuno deve sapere del loro
rientro in patria e lo stesso Juan è costretto a cambiare la propria
identità: a cambiare il nome in Ernesto (come Che Guevara), a
cambiare accento, a cambiare abitudini.
Non
è serena la vita di un bambino diventato adulto troppo in fretta, ma
Juan/Ernesto mantiene la capacità di fantasticare, di vivere una
quotidianità che sembri normale e di proteggere i propri cari fino a
quando un evento inaspettato quanto dirompente sconvolgerà il suo
equilibrio e quello della sua famiglia: l'amore per la bella Maria
farà provare
a Juan emozioni forti e l'illusione di una fuga lontano
dalla paura e dalla clandestinità.
A
differenza di altre pellicole sui temi dei desaparecidos e delle
dittature sudamericane, il lavoro di Avila entra, con delicatezza ma
anche senso critico, nelle pieghe dei giorni di chi ha scelto,
all'epoca, la strada della lotta politica anche a rischio della
propria esistenza e di quella dei propri familiari. E questo consegna
al pubblico un importante spunto di riflessione. Ma la bellezza del
film è anche data dal fatto che gli sceneggiatori - lo stesso
regista insieme a Marcelo Müller
- abbiano
deciso di lasciare fuori campo la violenza, rendendo le scene più
forti attraverso disegni (che omaggiano Tarantino) di sangue, di
spari, di morti per dare, invece, maggior spazio alle relazioni tra i
componenti del nucleo familiare e dei compagni attivisti. I genitori
di Juan si amano molto; il ragazzino è molto attento alla sua
sorellina di pochi mesi; lo zio Beto è una figura carismatica, punto
di riferimento per tutti, giovani e adulti; e poi la nonna...che,
come molti, non comprende la scelta di Cristina e Horacio, ma la
rispetta, seppur dolorosamente.
Una
colonna sonora ricercata, l'uso del rallenty in alcune scene, la
cinepresa spesso ad altezza di bambino, rendono sullo schermo
l'atmosfera di quel periodo duro, contraddittorio, spaventoso, ma il
film - senza tralasciare la drammaticità degli eventi e, forse,
anche la loro attualità - non trascura nemmeno la speranza, quella
speranza che può essere veicolata solo dai ricordi e dall'amore di
chi è rimasto in vita.