Siamo
nel 1948, quando la città di Haifa viene occupata dall'esercito
israeliano. La maggior parte della popolazione palestinese è
costretta ad abbandonare le proprie case che saranno abitate da
famiglie ebree. Vent'anni dopo le frontiere verranno aperte, per un
breve periodo, e questo permetterà ad una coppia palestinese di
tornare ad Haifa in quella che, una volta, era la propria
quotidianità, la propria vita.
“Shalom”
ha tanti significati, ma quello principale è “pace”: è “shalom”
è la parola con cui inizia lo spettacolo, per la regia di Patrick
Rossi Gastaldi, che mantiene sul palco una narrazione semplice e
diretta che si fa poetica nello scivolare delle parole quando il
confronto tra uomini e donne - che appartengono a due mondi diversi,
ma provano gli stessi sentimenti - si fa intenso. Sentimenti di
rabbia e di amarezza, di rassegnazione e di tristezza.
La
coppia di ebrei non esita ad accogliere in casa la coppia di
palestinesi, ma presto gli uomini cominciano a discutere sulla
possibilità di scelta: resistere di fronte all'imposizione di
lasciare la propria terra oppure andarsene? Miriam, la donna ebrea,
ha cresciuto Khaldun, il figlio degli altri coniugi, come se fosse
suo. Khaldun non prova alcun affetto per Said e Safiya, i suoi
genitori naturali: è arruolato nell'esercito sionista e li accusa di
essere solo dei codardi. Inoltre, ha un fratello, Khaled, che milita
invece tra i Fedayyn e, un giorno, potrebbe ritrovarsi a combattere
contro di lui.
E' un
gioco di specchi, quello che si viene a creare nell'intreccio dei
personaggi e delle loro vicende in questa pièce di Kanafani, uno dei
più grandi esponenti della letteratura araba contemporanea,
assassinato dai servizi segreti israeliani, insieme a una nipote,
nel 1972.
L'autore ha sempre avvicinato l'attività artistica a
quella politica e fu il primo a parlare di “letteratura della
resistenza”. Con questo suo lavoro lo scrittore palestinese parla
di due diaspore: quella palestinese e quella ebraica. Sì, perchè
Miriam, la donna ebrea, e suo marito sono scampati ad Auschwitz e,
durante la fuga, sono stati costretti ad abbandonare il loro unico
figlio. Madri e padri, uomini e donne che hanno perso tutto, a causa
della violenza e dell'ottusità di altri: hanno perso la propria
terra, la propria casa, i propri cari e anche, in fondo, la propria
identità. Ma è possibile il perdono? E' possibile riconoscersi gli
uni negli altri?
E i
figli della guerra, nati e cresciuti in un clima di sopraffazione e
di odio, perpetuano gli errori...La quarta parete della scenografia
scompare mentre la voce narrante recita: “ Che cos'è la patria?
Sono queste due sedie rimaste per vent'anni in questa stanza, il
tavolo, le rose di stoffa? Khaldun, le nostre illusioni sul suo
conto, essere padre, essere figlio. Che cos'è la patria, me lo
domando ancora...”.