sabato 24 ottobre 2015

I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità: la città oscura che non ha voce


Esistono da sempre due città, una legale e l'altra illegale, i cui confini si spostano a seconda delle epoche storiche e delle necessità economiche contingenti. Spesso gli abitanti di queste due città si sfiorano, interagiscono, confliggono. Sulle loro contaminazioni si costruisce il tessuto sociale. Quasi sempre gli abitanti della città oscura non hanno voce sui media ufficiali: sono un numero, una statistica o un titolo di giornale. I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, edito da Le Milieu, nasce dalla necessità di far parlare i protagonisti del disagio e della devianza che vivono e attraversano le nostre metropoli. Andrea Staid si è messo in ascolto delle voci della città oscura, senza pregiudizi.



L'associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande ad Andrea Staid e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.


 
 
 
 

Il suo testo parte dall'assunto che esistano due città: una legale e un'altra illegale. Da chi è popolata quella illegale e quali sono i problemi delle persone che la abitano ?



Negli ultimi anni mi sono interessato sempre di più agli abitanti che vivono ai margini delle nostre metropoli e quindi mi sono soffermato sul mondo dell’illegalità. E' importante indagare in quella giustapposizione di due mondi, o città, che coesistono ma si ignorano o meglio si guardano, nonostante la prossimità, da una distanza insuperabile - la città che si autoproclama legittima e quella più o meno invisibile dell'illegittimità, dell'immigrazione, della micro-criminalità, della prostituzione, della tossicodipendenza. Due città ovviamente, in una posizione profondamente diversa e asimmetrica ma che se ci pensiamo bene sono due facce della stessa medaglia, perché la città illegale non fa altro che rispondere a una domanda creata da quella città autoproclamatasi legittima e legale. Piccoli esempi per capirci meglio chi vende droga appartiene alla città illegale, ma chi la compra? Chi lavora in nero sfruttato fa parte della città illegale, ma chi gli ordina di lavorare? Ma soprattutto chi compra e consuma i prodotti da lui lavorati? Chi si prostituisce vive nella città illegale, ma chi va con le prostitute? La città illegittima è titolare di un offerta di servizi la cui clientela è costituita in gran parte da membri della società legittima.

I problemi invece all’interno della città illegale sono tanti, ovviamente sto parlando della microcriminalità, le regole nella criminalità organizzata sono molto differenti, io non le ho studite e quindi preferisco non parlarne. Nel mondo microcriminale, o anche solamente dell’illegalità creata dalle norme dello stato, come i migranti che non riescono ad avere il permesso di soggiorno, i problemi sono quotidiani, ma possiamo riassumerli tutti nella loro grande impossibilità di accedere ai diritti che sono garantiti agli abitanti della città legale, per esempio il diritto all’abitare, ai servizi sociali, insomma viene negata la possibilità di vivere una vita dignitosa.

 

Ci può anticipare il tema centrale del libro, ovvero il caso di Viale Bligny, a Milano?


Nel mio libro il palazzo di Viale Bligny 42 viene trattato come un caso specifico, precisamente nel quinto capitolo ho cercato di creare una ricostruzione etnografica di un palazzo sicuramente particolare di Milano quello che dalla stampa viene chiamato ingiustamente il fortino della droga, un palazzo della vecchia Milano, situato a pochi isolati dal centro cittadino, nella via che porta alla famosa Porta Romana e a pochi passi dall'università della giovane elites italiana, la Bocconi. In questo capitolo ho analizzato la quotidianità di una realtà meticcia nel cuore di Milano, ho cercato di farlo senza pregiudizi e attraverso il contatto diretto con chi vive e attraversa quel luogo. In questo palazzo ho trascorso un anno per conoscere e intervistare gli abitanti provenienti da tutto il mondo, stiamo parlando di uno stabile formato da 220 appartamenti per più di 700 abitanti. Un micro paese, una comunità che oggi è formata da migranti, anziani inquilini arrivati dal sud Italia, altri italiani che vogliono vivere spendendo poco in una zona centrale di Milano e ancora da studenti e artisti. Un palazzo dove sicuramente ci sono dei problemi ma dove un’associazione di condomini ha deciso di costruire dal basso percorsi di interazione tra culture diverse e soprattutto gli abitanti dell’edificio mondo hanno cominciato a risolvere i problemi della quotidianità occupandosene in prima persona.


Il suo è uno sguardo antropologico: quali sono le sue conclusioni sulle città contemporanee? Quali le esigenze dei cittadini? E gli errori da parte delle istituzioni (soprattutto in termini di accoglienza e immigrazione)?


E’ difficile con uno sguardo antropologico trovare delle conclusioni sullo stato delle città contemporanee perché sono sempre più un coacervo di culture in movimento. Quello che vedo forse peccando di estremo ottimismo è che la realtà, anche quella marginale trova soluzioni molto interessanti per migliorarsi e andare avanti, soluzioni che ovviamente non fanno notizia sui mass media che continuano imperterriti a narrarci un presente di crisi, scontri culturali e impossibilità. Basti pensare a questa narrazione sull’invasione dei migranti, è un falso, sono tante le donne, gli uomini e i bambini in arrivo, ma sono numeri che un paese come l’Europa potrebbe accogliere senza problemi, quello che servirebbe sarebbe una gestione del “comune” assai differente. Le risorse ci sono, il problema è che vengono gestite in modo sbagliato e che il primo pensiero di molti è lucrare sui i migranti, credo che Mafia capitale sia un’indagine che ci può insegnare molto.


Non ho chiaro fino a che punto l’antropologia possa estendere il suo linguaggio specifico per rappresentare adeguatamente i concetti che gli osservati hanno sviluppato e che hanno espresso. Probabilmente l’antropologia può riflettere la visione del mondo delle persone che studia ma non riesco ad averne l'assoluta certezza. Come scrive Clifford Geertz già al momento dell'esposizione dei fatti veri e propri noi stiamo dando spiegazioni; e, quel che è peggio, spiegazioni di spiegazioni. Per questo ha un senso affermare che la ricerca antropologica deve procedere secondo un progetto teorico e conoscitivo, il quale deve a sua volta essere identificabile attraverso un’impalcatura epistemologica fatta di teorie, concetti, nozioni, ipotesi e dati, e di un vocabolario sulla base dei quali sia possibile confrontare e porre in relazione esperienze e intenzionalità etnografiche ed esistenziali differenti. L’antropologia deve essere considerata un sapere attraverso cui sia possibile percepire una visione del mondo che consenta di comprendere tutti i possibili mondi culturali, di conoscere appunto, senza per forza riconoscersi.


Come si è svolta la ricerca che ha portato alla stesura di questo libro?


 
La mia ricerca è iniziata nel 2007 e ancora oggi non si è conclusa. Il metodo è quello della ricerca sul campo, un’osservazione partecipante, un metodo etnografico che negli anni sto cercando di affinare per trovare un equilibrio sempre più forte tra intervistato e intervistatore. Quello che cerco di fare quando faccio ricerca è immedesimarmi il più possibile cono la vita delle persone che voglio comprendere, analizzare, studiare, lo faccio passando periodi lunghi sul campo approfondendo i rapporti con le persone che voglio intervistare e conoscere. Sto molto attento all’uso di registratori e macchine fotografiche, capisco che mettono in soggezione e non faccio solo domande, mi racconto e vivo la quotidianità con i protagonisti delle miei ricerche. E’ importante però sottolineare che l'antropologo pur impregnandosi con i modi di fare dell'ambiente in cui si trova non si trasforma mai in un membro della comunità che studia, pensarsi un agente neutro o considerarsi sullo stesso piano dell'intervistato sarebbe un errore grave per il ricercatore, deve sempre comprendere che è impossibile astrarsi da quella che è la sua posizione diametralmente differente da chi vive quello che viene raccontato.

Nella mia ricerca nel mondo dell’illegalità ho scelto di rivelare subito la mia identità di osservatore, non mi sono finto cliente o giornalista, da subito era noto agli osservati quello che stavo facendo, per questo credo che la mia osservazione partecipante sia diventata nei mesi trascorsi una specie di action research che ha indotto riflessioni, dibattiti, discussioni e ha quasi costretto i soggetti osservati a prendere coscienza delle proprie dinamiche relazionali.