Esistono da sempre due città, una
legale e l'altra illegale, i cui confini si spostano a seconda delle
epoche storiche e delle necessità economiche contingenti. Spesso gli
abitanti di queste due città si sfiorano, interagiscono,
confliggono. Sulle loro contaminazioni si costruisce il tessuto
sociale. Quasi sempre gli abitanti della città oscura non hanno voce
sui media ufficiali: sono un numero, una statistica o un titolo di
giornale. I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai
confini della legalità, edito da Le Milieu, nasce dalla
necessità di far parlare i protagonisti del disagio e della devianza
che vivono e attraversano le nostre metropoli. Andrea Staid si è
messo in ascolto delle voci della città oscura, senza pregiudizi.
L'associazione per i Diritti Umani ha
rivolto alcune domande ad Andrea Staid e lo ringrazia molto per la
sua disponibilità.
Il suo testo parte dall'assunto che
esistano due città: una legale e un'altra illegale. Da chi è
popolata quella illegale e quali sono i problemi delle persone che la
abitano ?
Negli ultimi anni mi sono
interessato sempre di più agli abitanti che vivono ai margini delle
nostre metropoli e quindi mi sono soffermato sul mondo
dell’illegalità. E' importante indagare in quella
giustapposizione di due mondi, o città, che coesistono ma si
ignorano o meglio si guardano, nonostante la prossimità, da una
distanza insuperabile - la città che si autoproclama legittima e
quella più o meno invisibile dell'illegittimità, dell'immigrazione,
della micro-criminalità, della prostituzione, della
tossicodipendenza. Due città ovviamente, in una posizione
profondamente diversa e asimmetrica ma che se ci pensiamo bene sono
due facce della stessa medaglia, perché la città illegale non fa
altro che rispondere a una domanda creata da quella città
autoproclamatasi legittima e legale. Piccoli esempi per capirci
meglio chi vende droga appartiene alla città illegale, ma chi la
compra? Chi lavora in nero sfruttato fa parte della città illegale,
ma chi gli ordina di lavorare? Ma soprattutto chi compra e consuma i
prodotti da lui lavorati? Chi si prostituisce vive nella città
illegale, ma chi va con le prostitute? La città illegittima è
titolare di un offerta di servizi la cui clientela è costituita in
gran parte da membri della società legittima.
I problemi invece
all’interno della città illegale sono tanti, ovviamente sto
parlando della microcriminalità, le regole nella criminalità
organizzata sono molto differenti, io non le ho studite e quindi
preferisco non parlarne. Nel mondo microcriminale, o anche solamente
dell’illegalità creata dalle norme dello stato, come i migranti
che non riescono ad avere il permesso di soggiorno, i problemi sono
quotidiani, ma possiamo riassumerli tutti nella loro grande
impossibilità di accedere ai diritti che sono garantiti agli
abitanti della città legale, per esempio il diritto all’abitare,
ai servizi sociali, insomma viene negata la possibilità di vivere
una vita dignitosa.
Ci può anticipare il tema centrale del
libro, ovvero il caso di Viale Bligny, a Milano?
Nel
mio libro il palazzo di Viale Bligny 42 viene trattato come un caso
specifico, precisamente nel quinto capitolo ho cercato di creare
una ricostruzione etnografica di un palazzo sicuramente particolare
di Milano quello che dalla stampa viene chiamato ingiustamente il
fortino della droga, un palazzo della vecchia
Milano, situato a pochi isolati dal centro cittadino, nella via che
porta alla famosa Porta Romana e a pochi passi dall'università della
giovane elites italiana, la Bocconi. In questo capitolo ho
analizzato la quotidianità di una realtà meticcia nel cuore di
Milano, ho cercato di farlo senza pregiudizi e attraverso il contatto
diretto con chi vive e attraversa quel luogo. In questo palazzo ho
trascorso un anno per conoscere e intervistare gli abitanti
provenienti da tutto il mondo, stiamo parlando di uno stabile formato
da 220 appartamenti per più di 700 abitanti. Un micro paese, una
comunità che oggi è formata da migranti, anziani inquilini arrivati
dal sud Italia, altri italiani che vogliono vivere spendendo poco in
una zona centrale di Milano e ancora da studenti e artisti. Un
palazzo dove sicuramente ci sono dei problemi ma dove un’associazione
di condomini ha deciso di costruire dal basso percorsi di interazione
tra culture diverse e soprattutto gli abitanti dell’edificio
mondo hanno cominciato a risolvere i problemi
della quotidianità occupandosene in prima persona.
Il suo è uno sguardo antropologico:
quali sono le sue conclusioni sulle città contemporanee? Quali le
esigenze dei cittadini? E gli errori da parte delle istituzioni
(soprattutto in termini di accoglienza e immigrazione)?
E’ difficile con uno
sguardo antropologico trovare delle conclusioni sullo stato delle
città contemporanee perché sono sempre più un coacervo di culture
in movimento. Quello che vedo forse peccando di estremo ottimismo è
che la realtà, anche quella marginale trova soluzioni molto
interessanti per migliorarsi e andare avanti, soluzioni che
ovviamente non fanno notizia sui mass media che continuano
imperterriti a narrarci un presente di crisi, scontri culturali e
impossibilità. Basti pensare a questa narrazione sull’invasione
dei migranti, è un falso, sono tante le donne, gli uomini e i
bambini in arrivo, ma sono numeri che un paese come l’Europa
potrebbe accogliere senza problemi, quello che servirebbe sarebbe una
gestione del “comune” assai differente. Le risorse ci sono, il
problema è che vengono gestite in modo sbagliato e che il primo
pensiero di molti è lucrare sui i migranti, credo che Mafia
capitale sia un’indagine che ci può
insegnare molto.
Non
ho chiaro fino a che punto l’antropologia possa estendere il suo
linguaggio specifico per rappresentare adeguatamente i concetti che
gli osservati hanno sviluppato e che hanno espresso. Probabilmente
l’antropologia può riflettere la visione del mondo delle persone
che studia ma non riesco ad averne l'assoluta certezza. Come scrive
Clifford Geertz già al momento dell'esposizione dei fatti veri e
propri noi stiamo dando spiegazioni; e, quel che è peggio,
spiegazioni di spiegazioni. Per questo ha un senso affermare che la
ricerca antropologica deve procedere secondo un progetto teorico e
conoscitivo, il quale deve a sua volta essere identificabile
attraverso un’impalcatura epistemologica fatta di teorie, concetti,
nozioni, ipotesi e dati, e di un vocabolario sulla base dei quali sia
possibile confrontare e porre in relazione esperienze e
intenzionalità etnografiche ed esistenziali differenti.
L’antropologia deve essere considerata un sapere attraverso cui sia
possibile percepire una visione del mondo che consenta di comprendere
tutti i possibili mondi culturali, di conoscere appunto, senza per
forza riconoscersi.
Come si è svolta la ricerca che ha
portato alla stesura di questo libro?
La mia ricerca è iniziata
nel 2007 e ancora oggi non si è conclusa. Il metodo è quello della
ricerca sul campo, un’osservazione partecipante, un metodo
etnografico che negli anni sto cercando di affinare per trovare un
equilibrio sempre più forte tra intervistato e intervistatore.
Quello che cerco di fare quando faccio ricerca è immedesimarmi il
più possibile cono la vita delle persone che voglio comprendere,
analizzare, studiare, lo faccio passando periodi lunghi sul campo
approfondendo i rapporti con le persone che voglio intervistare e
conoscere. Sto molto attento all’uso di registratori e macchine
fotografiche, capisco che mettono in soggezione e non faccio solo
domande, mi racconto e vivo la quotidianità con i protagonisti delle
miei ricerche. E’ importante però sottolineare che l'antropologo
pur impregnandosi con i modi di fare dell'ambiente in cui si trova
non si trasforma mai in un membro della comunità che studia,
pensarsi un agente neutro o considerarsi sullo stesso piano
dell'intervistato sarebbe un errore grave per il ricercatore, deve
sempre comprendere che è impossibile astrarsi da quella che è la
sua posizione diametralmente differente da chi vive quello che viene
raccontato.
Nella mia ricerca nel
mondo dell’illegalità ho scelto di rivelare subito la mia identità
di osservatore, non mi sono finto cliente o giornalista, da subito
era noto agli osservati quello che stavo facendo, per questo credo
che la mia osservazione partecipante sia diventata nei mesi trascorsi
una specie di action research che ha indotto riflessioni, dibattiti,
discussioni e ha quasi costretto i soggetti osservati a prendere
coscienza delle proprie dinamiche relazionali.