di Veronica Tedeschi
Trovare
notizie chiare su quello che sta succedendo in Burundi in questi
ultimi mesi è abbastanza difficile, la guerra che sta vivendo questa
popolazione sta passando in secondo piano, almeno nel giornalismo
italiano.
Questo
non significa che sia una guerra “meno importante” o con “meno
morti”: da aprile 2015, quando sono scoppiate le violenze tra il
governo e gli oppositori per la candidatura ad un terzo mandato del
Presidente Pierre Nkurunziza, sono morte circa duecento
persone.
Duecento
persone che rappresentano un popolo che non ha nessuna intenzione di
mollare, che non vuole sottostare al comando di un Presidente
completamente disinteressato al benessere della sua popolazione,
colpita per il 66% da denutrizione e caratterizzata da un tasso di
povertà altissimo.
“Lunedì
mattina abbiamo assistito quasi 60 feriti arrivati al pronto soccorso
in un breve lasso di tempo” spiega
Richard Veerman, responsabile dei progetti Medici Senza Frontiere in
Burundi. “Abbiamo
aperto una seconda sala operatoria ed eseguito cinque interventi
chirurgici d’emergenza nelle ore immediatamente successive. Ci
impegniamo a portare cure mediche di qualità alle persone, senza
distinzioni di razza, religione o orientamento politico”.
Per
la prima volta la guerra in Burundi non riguarda solo le differenze
etniche ma è legata soprattutto ad una lotta di potere. Nel maggio
scorso ci fu un colpo di Stato, fallito, che vide i responsabili
arrestati poco dopo. Nonostante questo, le manifestazioni e le morti
sono continuate, tra il 3 e il 4 ottobre sono morte 15 persone negli
scontri a Bukumbura tra la polizia e alcuni giovani che si opponevano
al terzo mandato di Nkurunziza. Il 13 ottobre, almeno 7 persone sono
morte per colpi di granata e arma da fuoco e ancora, altre 3 persone
hanno perso la vita lo scorso 27 ottobre, giorno in cui il Presidente
ottenne un terzo mandato. La violenza è ormai norma nel paese,
dilaniato da una crisi politica di livelli eccezionali che ha
costretto 200mila burundesi a lasciare il paese.
In
quest’ottica si può leggere la creazione di una nuova polizia
antisommossa, istituita
il mese scorso e chiamata ad intervenire in caso di rivolte; secondo
alcune fonti di stampa, sarebbe composta da 300 uomini, tra tiratori
scelti e ufficiali al comando. La polizia da sola non regge più il
peso di queste manifestazioni che, ormai, continuano da ben 8 mesi e
che non cesseranno facilmente.
Il
7 novembre è scaduto l’ultimatum di cinque giorni dato dal
Presidente ai suoi oppositori per consegnare le armi spontaneamente
in cambio di un’amnistia.
Questo
invito di Nkurunziza non è stato accolto, infatti, nella notte tra
il 7 e l’8 novembre altre 9 persone sono state uccise in un bar a
Bukumbura.
Il
9 novembre è iniziata l’operazione di disarmo avviata dalla
polizia in quartieri controllati dall’opposizione, il giorno stesso
durante tali eventi sono morte altre 2 persone.
La
situazione in Burundi peggiora progressivamente senza che la comunità
internazionale riesca (o voglia) fermare la spirale di violenza che
sta travolgendo questo paese.
Ricordiamo,
inoltre, che nei prossimi mesi anche le popolazioni di Rwanda e
Repubblica Democratica del Congo saranno chiamate alle urne, nella
speranza che le conseguenze della guerra in Burundi non invadano
anche gli altri Stati africani.
Il
Burundi è un paese
fragile e il
modo in cui questa crisi verrà risolta avrà sicuramente
ripercussioni sia sulla popolazione che sulle conquiste politiche
future. Il tutto potrebbe concludersi con soluzioni militari molto
pericolose, non solo per il Burundi ma per tutta la regione.