giovedì 20 agosto 2015

Dalla “mala” milanese alle frontiere dell'anima


 


Gli appassionati di Massimo Carlotto conosceranno sicuramente Beniamino Rossini, uno dei suoi personaggi più amati. In La terra della mia anima (sempre edito da E/O) lo stesso compagno di avventure dell'Alligatore decide di raccontare la propria esistenza, una vita che attraversa l'immediato dopoguerra - quando inizia a fare lo “spallone” trafficando in sigarette - per arrivare alla guerra civile, passando per la Resistenza.

Beniamino ha un animo nomade, batte le terre d'Italia e d'Europa e si spinge fino al Libano; ma la sua anima viene ancorata nel mare, in quella distesa aperta e infinita che promette libertà eterna. E di libertà ne ha vissuta, il Rossini, una libertà sfrenata fatta di soldi e di femmine. Una libertà spezzata, a periodi, da anni di galera che non hanno fiaccato lo spirito indomito. Una vita appassionata, vissuta ai margini di frontiere fisiche e interiori, ma con princìpi saldi, un'etica criminale che oggi non esiste più e poi un amore, quello per un uomo diventato donna.

Il romanzo, uno dei più intensi di Carlotto, attraversa il Novecento, i momenti più bui del nostro Paese, con riflessioni di stretta attualità, come quella che riguarda le carceri: “Ora le rivolte non esistono più, le nuove carceri e le ristrutturazioni di quelle già esistenti sono state concepite per impedire ogni forma di protesta organizzata. In passato però furono un fenomeno molto diffuso, provocato dalle condizioni di vita inaccettabili nelle prigioni della Repubblica. Se oggi i detenuti hanno a disposizione un water e un lavandino, un fornello da campeggio, una caffettiera e un pentolino, lo si deve solo al sacrificio di quelli che si ribellarono e vennero picchiati, trasferiti e condannati. Sbaglia chi pensa che quel minimo di decenza venne portato nelle carceri da politici o intellettuali illuminati che sono arrivati sempre dopo e con un ritardo imbarazzante” e questo è solo un esempio. Così come può esserlo, oggi, la passione politica di Beniamino che, parlando di un suo mèntore, Enrico il Barbùn, dice: “Era comunista, in Svizzera aveva avuto problemi con la polizia, ma era un nemino dichiarato del partito. Aveva sempre considerato Stalin un dittatore sanguinario e all'inizio fu difficile discutere di politica. Quando parlava male dell'Unione sovietica mi veniva voglia di saltargli addosso”.

Ma il libro commuove per la capacità di scandagliare l'animo umano. Una frase su tutte, da sottolineare e ricordare: “ Voglio tentare di andarmene pervaso da un senso di appartenenza. Forse è una furbizia per sentirmi meno solo, ma il desiderio è sincero e preferisco il cuore in tumulto e la testa piena di sogni alla rassegnazione e all'urgenza del pentimento”.