L'associazione Inmigrazione
ha denunciato, recentemente, in un dossier le allucinanti condizioni
di lavoro dei sikh che vivono nell'agropontino. L'Associazione per i
Diritti Umani ha intervistato per voi Marco Omizzolo che ringrazia
tantissimo per la disponibilità.
Da quanto tempo gli indiani sikh
vivono nell'agro pontino e com'è il loro processo di inserimento
nella società italiana?
La comunità punjabi si è costituita a
partire dalla metà circa degli anni Ottanta. Prima poche decine
persone, tutti giovani uomini impegnati nelle campagne pontine in
attività di puro bracciantato agricolo e in parte nella zootecnia e
nel florovivaismo, oggi è arrivata a contare circa 30mila persone.
Una comunità organizzata, etnicamente connotata, prevalentemente
ancora impegnata nel bracciantato agricolo e con forti legami con le
altre comunità punjabi in Italia e nel resto del mondo. Purtroppo
l'assenza di una adeguata comprensione delle dinamiche relazioni, del
network transnazionale della comunità punjabi pontina, del sistema
occupazionale pontino e gli scarsi servizi sociali dedicati a questo
tema impediscono una relazione costruttiva tra la comunità punjabi e
quella di accoglienza. La segregazione sociale, l'assenza di processi
di crescita sociale ed emancipazione sono la conseguenza diretta dei
processi di tratta internazionale, sfruttamento occupazionale,
caporalato e violazione dei diritti umani che caratterizzano le
attività lavorative dei punjabi pontini.
Molti lavorano nel settore agricolo
come braccianti, ma le condizioni negano alcuni diritti di base...
Con la coop. In Migrazione
(www.inmigrazione.it)
abbiamo denunciato con alcuni dossier assai documentati i sistemi di
reclutamento e impiego dei braccianti indiani. Caporalato,
clientelismo, rincorsa all'assunzione dei lavoratori più socialmente
fragile perché più esposti al ricatto occupazionale determinano,
come anche Medu (Medici per i Diritti Umani) e Amnesty International
hanno messo in luce e denunciato, la violazione sistematica dei
diritti umani e dei diritti dei lavoratori. La violenza che spesso
queste persone subiscono, e con loro le loro famiglie, è tale da
costringerli alla resa, ad accondiscendere il ricatto e la
prepotenza. Abbiamo registrato numerosi casi di lavoratori punjabi
che non hanno percepito lo stipendio per vari mesi nonostante abbiano
lavorato tutti i giorni, anche per 14 ore al giorno, sabato e
domenica compresi, come anche violenze fisiche, aggressioni e rapine
nei loro confronti e minacce. Alcuni lavoratori vengono pagati 3-4
euro l'ora per 12-14 ore di lavoro quotidiano. Il contratto
provinciale prevede circa 9 euro lorde l'ora ma è un miraggio se non
per pochi fortunati. Per non parlare degli infortuni sul lavoro,
degli incidenti stradali che li vedono vittime certe, delle malattie
derivanti dalla loro attività bracciantile e dai relativi ritmi e
condizioni di lavoro. Siamo dinnanzi alla violazione sistematica,
organizzata e rodata dei loro diritti umani a scopo di sfruttamento
lavorativo. Un business redditizio che piega la schiena ai braccianti
indiani e contribuisce a generare milioni di euro di cui si
appropriano sfruttatori e mafiosi.
Ci può confermare che alcuni ricorrono
all'oppio (o altre droghe) per sostenere i ritmi di lavoro nei campi?
Con il dossier “Doparsi per lavorare
come schiavi” è stato denunciato esattamente questo problema.
L'assunzione, variamente tollerata e indotta da alcuni datori di
lavoro (che per inciso spesso pretendono di farsi chiamare padrone
dal lavoratore), di sostanze dopanti come oppio, metanfetamine e
antispastici per reggere le fatiche fisiche e psicologiche derivanti
dal sistema di sfruttamento pontino. Ciò vale in particolare per i
lavoratori più anziani (per evidenti limiti fisici) e per coloro che
hanno un'anzianità migratoria e lavorativa nel bracciantato
piuttosto breve. Purtroppo il fenomeno rischia però di allargarsi
anche ad altre ambiti e di diventare la scala sociale attraverso la
quale generare business economici illegali ma anche importanti per
uscire dal bracciantato e dallo sfruttamento. Per questo, insieme
alla repressione del fenomeno, è importante prevedere servizi
sociali e formativi adeguati, insieme alla ferma condanna e
conseguente superamento dello sfruttamento lavorativo, sempre più
organico al modello d'impresa agricola nazionale e non solo, e delle
varie forme e sistemi di reclutamento internazionali. Abbiamo per
esempio proposto, dopo essere stati auditi dalla Commissione
parlamentare antimafia, di adeguare la legge italiana contro il
caporalato, di escludere le imprese agricole condannate per reati
gravi come la riduzione in schiavitù, dal sistema dei finanziamenti
pubblici, soprattutto europei, e di introdurre infine ancora il reato
di caporalato nel 416bis, ossia nel reato di associazione mafiosa. Il
caso pontino e con esso i casi più noti di Rosarno, Castel Volturno,
Ragusa, Asti consentono di ritenere questa una proposta sensata,
fondata e urgente.
Nel dossier, denunciate che il traffico
– di droga e di persone – è in mano a italiani...
Si tratta di una sorta di associazione
a delinquere composta sia da italiani che da indiani, ognuno con un
proprio ruolo e una sua informale ma chiara gerarchia. La criminalità
è fondata ancora sull'appartenenza etnica o clanica ma è altresì
capace di includere soggetti diversi, compresi gli stranieri, con lo
scopo di rendere possibile il business, che in questo caso riguarda
la tratta internazionale di esseri umani, che abbiamo definito
grigio-nera, lo sfruttamento lavorativo e un corollario di altre
speculazioni non meno importanti (il business dei permessi di
soggiorno, dei rinnovi dei documenti, delle eredità transnazionali e
non solo). Si tratta di un'alleanza da studiare con molta attenzione
e monitorare con altrettanta preparazione metodologica. In questo
senso la rinnovata sensibilità e impegno della Questura di Latina su
questo tema può aiutare nella direzione del contrasto al fenomeno.
Senza però la riformulazione del sistema formale-informale del
mercato del lavoro rischiamo di fallire drammaticamente.
Qual è il vostro operato come
associazione?
Operiamo in varie direzioni. In primis
studiando il fenomeno in modo estremamente professionale, tanto da
essere andati più volte in Punjab per approfondire gli studi,
indagare il contesto di origine, discuterne con i soggetti
responsabili a partire dalle istituzioni locali e docenti
universitari. Poi organizzando iniziative territoriali a partire dal
progetto Bella Farnia, organizzato insieme alla Regione Lazio e
conclusosi purtroppo nel mese di luglio 2015, avente lo scopo di
organizzare lezioni di italiano e consulenza legale gratuita ai
punjabi interessati. Infine ci siamo costituti parte civile nel
processo in corso a Latina, insieme alla Flai-CGIL, contro un
imprenditore agricolo del sud pontino accusato di falsità
documentali. Quest'ultimo, infatti, riceveva da ogni suo lavoratore
punjabi circa 1000 euro in cambio di documenti falsi necessari per il
rinnovo del permesso di soggiorno. Una pratica diffusa che rientra
nel complesso di speculazioni organizzate sulle spalle dei braccianti
indiani pontini.