giovedì 18 dicembre 2014

Crimini contro l'ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri







Da poco uscito per le edizioni Il Melangolo, il saggio Crimini contro l'ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri, di Donatella Di Cesare, tra politica e reportage filosofico, è un viaggio in un centro di identificazione e espulsione, quell'Ade invisibile e nascosto dove vengono relegate le scorie umane della globalizzazione. Ma il viaggio diventa occasione per riflettere sui campi per gli stranieri, sulla retorica ambigua dell' accoglienza. Dove finisce la protezione umanitaria e dove comincia il controllo poliziesco?
Il neorazzismo è la convinzione che ciascuno debba vivere nel proprio paese, la reazione alla mobilità degli esseri umani, la pretesa di bandire gli indesiderabili. Mentre mette allo scoperto il dispositivo dell'immigrazione, l'autrice indica gli effetti perversi di una politica che fa appello alla paura e si interroga sui pericoli di una democrazia che non conosce il valore della coabitazione.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato la Prof.ssa Di Cesare. La ringraziamo molto per questo suo intervento.





Lei parla, nel saggio, di “retorica ambigua dell'accoglienza”: ci può spiegare a cosa si riferisce?



Mi riferisco a quel linguaggio apparentemente benevolo con cui sono stati coperti gli abusi, sono state dissimulate le illegalità. A partire dall’inizio degli anni novanta, da quando è iniziata in Italia la cosiddetta “emergenza sbarchi” si è spacciato per azione etica l’intervento della polizia. I profughi, soccorsi in mare, accolti al centro di Lampedusa, hanno potuto poi essere spediti nei CIE. Per questo nel mio libro mi sono chiesta: in che modo il soccorso diventa pretesto per legittimare l’internamento? Perché si consegnano esseri umani, inermi e spogliati di ogni diritto, al dominio burocratico degli agenti?





Per riprendere una sua domanda: dove finisce la protezione umanitaria e dove inizia il controllo poliziesco?



Protezione umanitaria e controllo di polizia sono, a ben guardare, termini che dovrebbero essere antitetici. E invece sono stati invece saldamente uniti nel modello italiano di gestione degli “indesiderabili”. Da una politica dell’eccezione si è passati all’eccezione come politica. È così che quelle misure, che per la Costituzione sarebbero eccezionali, sono divenute ordinarie. I centri di detenzione amministrativa per stranieri sono stati apparentemente accettati come una banale norma. Quasi si trattasse di un espediente inevitabile, dettato dalle circostanze. Ma dietro la facciata di legalità affiora continuamente quella sorta di infra-diritto amministrativo che domina sovrano nei centri e che null’altro è se non arbitrio poliziesco.

Terra di emigrati, l’Italia di tutto il dopoguerra non aveva leggi che riguardassero la presenza di stranieri sul territorio nazionale. Per anni e decenni ha prevalso il diritto di polizia. Lo straniero era un sospetto da tenere sotto sorveglianza e affidare alla disciplina delle forze dell’ordine. Da allora il diritto di polizia ha improntato la legislazione e, più in generale, l’atteggiamento verso gli stranieri immigrati.

Già la legge Martelli, che ha contribuito a regolamentare il soggiorno degli stranieri, era dettata dalla logica poliziesca: prevedeva misure di contrasto all’immigrazione “illegale” mentre non considerava né i diritti umani né l’inserimento degli stranieri nella società civile. Tra esigenze di ordine pubblico e emergenza umanitaria, la legislazione che, da un decreto all’altro, si è andata sviluppando nel corso degli anni novanta, ha introdotto l’obbligo di dimora in vista di “accertamenti supplementari” per stabilire l’identità e procedere all’espulsione.

La parola “centri” compare per la prima volta nella legge Puglia che dopo l’internamento degli albanesi nello stadio di Bari mirava a disciplinare la gestione degli sbarchi; nascono di qui i centri di accoglienza, nell’ambiguità, tra assistenza e controllo.

La detenzione amministrativa degli stranieri è stata introdotta dalla legge del 6 marzo 1998, detta Turco-Napolitano. Al respingimento e all’espulsione si aggiunge la possibilità che lo straniero possa essere trattenuto, per un massimo di trenta giorni, in un “centro di permanenza temporanea” (CPT). La decisione viene attribuita al questore. Sorgono in tal modo, con un successivo cambio di acronimo, i CIE.

Com’è noto, la legge Bossi-Fini ha inasprito ulteriormente le misure contro l’immigrazione, estendendo il periodo di trattenimento nel CIE e privilegiando l’espulsione. Di fatto ha confermato la logica poliziesca, sottesa già alla legislazione precedente, affidando la “detenzione umanitaria” ai burocrati della sicurezza. I centri per identificare e espellere gli stranieri sono stati così sottratti al diritto e lasciati al controllo e alla discrezione delle forze di polizia.




Su quali basi poggia la politica della paura nei confronti degli stranieri poveri? E quali sono le conseguenze di questa politica?



La battaglia contro la criminalità, accortamente spettacolarizzata, ha assunto un rilievo smisurato rispetto ai grandi problemi sui quali dovrebbe piuttosto concentrarsi l’attenzione pubblica. Non ci si interroga sulle cause e tutto viene ridotto a drastiche prese di posizione. Così viene messo in scena un mondo suddiviso tra criminali e custodi dell’ordine. E si punto l’indice contro l’estraneo che è il sospetto, lo straniero che è il nemico, l’immigrato che è il criminale.

La difesa dell’identità territoriale passa attraverso la messa al bando di quegli “scarti” che invadono le vie delle metropoli: mendicanti molesti, lavavetri, zingari, profughi, extra-comunitari, migranti da espellere. I media, a loro volta, amplificano e drammatizzano contribuendo efficacemente alla stigmatizzazione. La lotta alla criminalità diventa spettacolo mediatico, mentre si fa labile il confine tra i “fatti di cronaca” riportati dal Tg e la trama del telefilm dove eroici detective rischiano la vita per la sicurezza di tutti. La paura cresce. Si può parlare di una politica della paura, oculatamente alimentata, effetto di una quotidiana orchestrazione mediatica.

La retorica dell’invasione va letta nel contesto di questa più ampia politica della paura. Non si tratta solo di trasformare gli stranieri – alcuni e non altri – in comodi nemici. Si tratta anche di imporre a tutti i cittadini il “noi” delle élite egemoni, preoccupate per le rivendicazioni di giustizia sociale che le migrazioni mettono in moto. Chi è dunque il noi che ha paura? È quello di chi vorrebbe occultare le disuguaglianze del mondo globalizzato rimuovendo così anche le proprie responsabilità politiche. Gli stranieri non sono infatti esclusi, ma sono invece attratti e respinti secondo un complesso dispositivo con cui si vuole governare la mobilità dei migranti e ottenere la flessibilità di tutti.





Qual è la sua opinione riguardo all'operazione “Mare Nostrum”?



Io penso che il dovere dell’ospitalità, che per secoli non è mai stato messo in discussione, sia il pilastro di una società civile. E penso anche che non si possa limitare il diritto alla mobilità di nessun essere umano. In crisi sono oggi i diritti umani che sono tutelati solo dagli stati-nazione. Chi non appartiene a uno stato, chi si trova senza cittadinanza e senza passaporto, è escluso anche dai diritti umani. Occorre in tal senso ripensare i diritti umani. E occorre inoltre interrogarsi sul razzismo. C’è chi crede che razzismo sia la convinzione che esistono le razze. Direi che il razzismo, eredità del passato ultimo europeo, è la pretesa di scegliere con chi coabitare. Su questo ho insistito nel mio libro. “Mare nostrum” è il minimo che si possa fare. Ma dopo aver salvato una vita in mare, non la si può segregare in un campo.