L'Associazione
per i Diritti Umani ha intervistato la Prof.ssa Di Cesare. La
ringraziamo molto per questo suo intervento.
Lei
parla, nel saggio, di “retorica ambigua dell'accoglienza”: ci può
spiegare a cosa si riferisce?
Mi
riferisco a quel linguaggio apparentemente benevolo con cui sono
stati coperti gli abusi, sono state dissimulate le illegalità. A
partire dall’inizio degli anni novanta, da quando è iniziata in
Italia la cosiddetta “emergenza sbarchi” si è spacciato per
azione etica l’intervento della polizia. I profughi, soccorsi in
mare, accolti al centro di Lampedusa, hanno potuto poi essere spediti
nei CIE. Per questo nel mio libro mi sono chiesta: in che modo il
soccorso diventa pretesto per legittimare l’internamento? Perché
si consegnano esseri umani, inermi e spogliati di ogni diritto, al
dominio burocratico degli agenti?
Per
riprendere una sua domanda: dove finisce la protezione umanitaria e
dove inizia il controllo poliziesco?
Protezione
umanitaria e controllo di polizia sono, a ben guardare, termini che
dovrebbero essere antitetici. E invece sono stati invece saldamente
uniti nel modello italiano di gestione degli “indesiderabili”. Da
una politica dell’eccezione si è passati all’eccezione come
politica. È così che quelle misure, che per la Costituzione
sarebbero eccezionali, sono divenute ordinarie. I centri di
detenzione amministrativa per stranieri sono stati apparentemente
accettati come una banale norma. Quasi si trattasse di un espediente
inevitabile, dettato dalle circostanze. Ma dietro la facciata di
legalità affiora continuamente quella sorta di infra-diritto
amministrativo che domina sovrano nei centri e che null’altro è se
non arbitrio poliziesco.
Terra
di emigrati, l’Italia di tutto il dopoguerra non aveva leggi che
riguardassero la presenza di stranieri sul territorio nazionale. Per
anni e decenni ha prevalso il diritto di polizia. Lo straniero era un
sospetto da tenere sotto sorveglianza e affidare alla disciplina
delle forze dell’ordine. Da allora il diritto di polizia ha
improntato la legislazione e, più in generale, l’atteggiamento
verso gli stranieri immigrati.
Già
la legge Martelli, che ha contribuito a regolamentare il soggiorno
degli stranieri, era dettata dalla logica poliziesca: prevedeva
misure di contrasto all’immigrazione “illegale” mentre non
considerava né i diritti umani né l’inserimento degli stranieri
nella società civile. Tra esigenze di ordine pubblico e emergenza
umanitaria, la legislazione che, da un decreto all’altro, si è
andata sviluppando nel corso degli anni novanta, ha introdotto
l’obbligo di dimora in vista di “accertamenti supplementari”
per stabilire l’identità e procedere all’espulsione.
La
parola “centri” compare per la prima volta nella legge Puglia che
dopo l’internamento degli albanesi nello stadio di Bari mirava a
disciplinare la gestione degli sbarchi; nascono di qui i centri di
accoglienza, nell’ambiguità, tra assistenza e controllo.
La
detenzione amministrativa degli stranieri è stata introdotta dalla
legge del 6 marzo 1998, detta Turco-Napolitano. Al respingimento e
all’espulsione si aggiunge la possibilità che lo straniero possa
essere trattenuto, per un massimo di trenta giorni, in un “centro
di permanenza temporanea” (CPT). La decisione viene attribuita al
questore. Sorgono in tal modo, con un successivo cambio di acronimo,
i CIE.
Com’è
noto, la legge Bossi-Fini ha inasprito ulteriormente le misure contro
l’immigrazione, estendendo il periodo di trattenimento nel CIE e
privilegiando l’espulsione. Di fatto ha confermato la logica
poliziesca, sottesa già alla legislazione precedente, affidando la
“detenzione umanitaria” ai burocrati della sicurezza. I centri
per identificare e espellere gli stranieri sono stati così sottratti
al diritto e lasciati al controllo e alla discrezione delle forze di
polizia.
Su
quali basi poggia la politica della paura nei confronti degli
stranieri poveri? E quali sono le conseguenze di questa politica?
La
battaglia contro la criminalità, accortamente spettacolarizzata, ha
assunto un rilievo smisurato rispetto ai grandi problemi sui quali
dovrebbe piuttosto concentrarsi l’attenzione pubblica. Non ci si
interroga sulle cause e tutto viene ridotto a drastiche prese di
posizione. Così viene messo in scena un mondo suddiviso tra
criminali e custodi dell’ordine. E si punto l’indice contro
l’estraneo che è il sospetto, lo straniero che è il nemico,
l’immigrato che è il criminale.
La
difesa dell’identità territoriale passa attraverso la messa al
bando di quegli “scarti” che invadono le vie delle metropoli:
mendicanti molesti, lavavetri, zingari, profughi, extra-comunitari,
migranti da espellere. I media, a loro volta, amplificano e
drammatizzano contribuendo efficacemente alla stigmatizzazione. La
lotta alla criminalità diventa spettacolo mediatico, mentre si fa
labile il confine tra i “fatti di cronaca” riportati dal Tg e la
trama del telefilm dove eroici detective rischiano la vita per la
sicurezza di tutti. La paura cresce. Si può parlare di una politica
della paura, oculatamente alimentata, effetto di una quotidiana
orchestrazione mediatica.
La
retorica dell’invasione va letta nel contesto di questa più ampia
politica della paura. Non si tratta solo di trasformare gli stranieri
– alcuni e non altri – in comodi nemici. Si tratta anche di
imporre a tutti i cittadini il “noi” delle élite egemoni,
preoccupate per le rivendicazioni di giustizia sociale che le
migrazioni mettono in moto. Chi è dunque il noi che ha paura? È
quello di chi vorrebbe occultare le disuguaglianze del mondo
globalizzato rimuovendo così anche le proprie responsabilità
politiche. Gli stranieri non sono infatti esclusi, ma sono invece
attratti e respinti secondo un complesso dispositivo con cui si vuole
governare la mobilità dei migranti e ottenere la flessibilità di
tutti.
Qual
è la sua opinione riguardo all'operazione “Mare Nostrum”?
Io
penso che il dovere dell’ospitalità, che per secoli non è mai
stato messo in discussione, sia il pilastro di una società civile. E
penso anche che non si possa limitare il diritto alla mobilità di
nessun essere umano. In crisi sono oggi i diritti umani che sono
tutelati solo dagli stati-nazione. Chi non appartiene a uno stato,
chi si trova senza cittadinanza e senza passaporto, è escluso anche
dai diritti umani. Occorre in tal senso ripensare i diritti umani. E
occorre inoltre interrogarsi sul razzismo. C’è chi crede che
razzismo sia la convinzione che esistono le razze. Direi che il
razzismo, eredità del passato ultimo europeo, è la pretesa di
scegliere con chi coabitare. Su questo ho insistito nel mio libro.
“Mare nostrum” è il minimo che si possa fare. Ma dopo aver
salvato una vita in mare, non la si può segregare in un campo.