"E' stata una grande soddisfazione, ci abbiamo sempre creduto. E' una gioia che ci ricompensa di tante sofferenze", fatica a nascondere l'entusiasmo Alessandra Bernaroli, dopo la decisione della Cassazione secondo cui "rimane valido il matrimonio di una coppia eterosessuale anche nel caso in cui uno dei due coniugi cambi la sua identità sessuale"."Questa sentenza è molto importante - spiega Bernaroli - perché di fronte alla politica che in questo Paese spesso non decide, sceglie solo di rimandare, dimostra invece il coraggio dei giudici di affermare la dignità e i diritti di tutte le persone. Mi ha fatto piacere - sottolinea - che la notizia sia arrivata proprio il 21 aprile, una data molto importante qua a Bologna: la ricorrenza della 'liberazione'”, queste alla TV svizzera della protagonista di questa vicenda dopo la recente decisione della Cassazione, in attesa che il Parlamento affronti questi casi.
La vicenda è stata seguita con interesse dall'Associazione per i Diritti Umani. Vi proponiamo la nostra intervista ad Alessandra Bernaroli.
Può
raccontarci, brevemente, la sua storia?
Io
e mia moglie ci siamo conosciute nel lontano 1995. Dopo dieci anni di
fidanzamento, nel 2005, abbiamo deciso di coronare la nostra unione
famigliare sposandoci in chiesa, nel comune di Finale Emilia (MO),
dove risiedevo con i miei genitori. Dopo il matrimonio ha preso corpo
in me, aiutata dalla vicinanza di mia moglie, la presa di coscienza
di essere una persona transessuale e, dopo aver pensato, parlato e
meditato molto tra di noi sulla questione, ho intrapreso il percorso
che mi ha portato a sottopormi ad una serie di importanti,
difficoltosi e pesanti interventi chirurgici in giro per il mondo
(USA, Thailandia, Spagna) fino ad approdare, nella seconda metà del
2009, alla rettifica anagrafica di nome e sesso sul certificato di
nascita e sui documenti.
Ritengo
importante sottolineare che mia moglie in tutti questi anni mi ha
sempre sostenuta ed appoggiata, sforzandosi di comprendere questo mio
bisogno di cambiamento e di mantenere unita la nostra famiglia
nonostante il suo grande e comprensibile sconcerto e smarrimento
iniziali. Certamente dopo tanti anni passati assieme non è stato
semplice per mia moglie capire, ma grazie alla profonda conoscenza
che ci legava ed alla sua cultura profondamente radicata nella
religione cattolica ha trovato nell’amore e nella fede la forza per
sostenermi, credendo fino in fondo nell’importanza del vincolo
famigliare.
I
problemi al nostro matrimonio, problemi derivanti dalla burocrazia,
sono subentrati subito dopo la sentenza di rettificazione dei dati
anagrafici: infatti la sentenza che ordinava questa variazione
all’ufficiale di stato civile, non faceva alcun cenno al nostro
vincolo matrimoniale.
Così,
quando mi sono recata all’anagrafe di Bologna per ritirare il nuovo
documento di identità con il nome variato al femminile, ci si è
trovati di fronte ad un caso mai visto prima nel nostro Paese: una
moglie che nonostante il cambio di sesso da parte del proprio marito
non aveva mai chiesto il divorzio.
Il
tribunale di Bologna, autore della sentenza “di cambio nome”, non
avendo sciolto il vincolo ha creato i presupposti per l’avventura
giudiziaria che ci ha fin qui visto protagoniste, prima in
Cassazione, poi avanti la Corte Costituzionale ed ora in riassunzione
ancora presso la Cassazione, probabilmente il prossimo anno.
Per
cercare di chiarire in sintesi il punto della questione, il problema
nasce anzitutto dall’approssimativa tecnica di redazione della
legge fondamentale sul transessualismo, che è la legge 164 del 1982.
Questa
legge, passata al vaglio della Consulta nel 1985 (sentenza 161) e pur
novellata nel 1987 (d.lgs. 74) specificamente per dirimere la
questione sull’eventuale matrimonio preesistente della persona che
si sottoponeva a rettificazione anagrafica, ha fallito nell’intento
lasciando un margine di ambiguità interpretativa che di fronte al
nostro caso, il primo verificatosi ben 27 anni dopo la sua
promulgazione (trattasi evidentemente di situazioni che, per la loro
complessità, non si presentano con molta frequenza, come dimostra
anche l’esperienza delle altre nazioni estere), è stato usato
contro l’unità della nostra famiglia.
La
legge 164, riferendosi al matrimonio preesistente, dice che la
sentenza di rettificazione “provoca” (ora “determina” dopo la
novella del d.lgs. 150/2011) lo scioglimento del matrimonio o la
cessazione degli effetti civili. Rimanda alla legge sul divorzio per
l’applicazione di quanto disposto.
Orbene
fino all’emergere del nostro caso la dottrina non aveva forse
approfondito a dovere questo punto. Già il fatto che la sentenza di
rettificazione anagrafica potesse “provocare” di per se stessa lo
scioglimento, in “automatico”, non era condiviso da tutti.
Dirimente sulla sussistenza del vincolo pareva il rimando alle
disposizioni sul divorzio (legge 898 del 1970), ove è noto che per
ottenere il divorzio occorrono una pronuncia del giudice e la volontà
di almeno uno dei coniugi, tutti elementi assenti nel nostro caso.
Posta
di fronte al caso concreto, spaventata forse dal pericolo di chissà
quale turbamento dell’ordine costituito che il pacifico prosieguo
del nostro vincolo coniugale avrebbe potuto comportare, la pubblica
amministrazione locale, dove aver chiesto ufficiale parere alla
burocrazia ministeriale, ha posto in calce all’atto di matrimonio
un’annotazione di scioglimento: uno scioglimento d’ufficio, cosa
mai vista prima d’ora.
In
fondo, come è stato detto, una morte civile per i due coniugi,
sottolineata anche dal certificato di stato civile “non
documentato” rilasciatomi dal comune di Bologna in quei tristi
giorni, certificato che ancora conservo quale raro cimelio di
ostracismo sociale.
Lì
abbiamo scoperto dell’abuso perpetrato nei nostri confronti;
infatti l’autorità comunale neppure si era degnata di informarci
di una così grave determinazione perpetrata ai nostri danni.
Dopo
un primo momento di sconforto e grande difficoltà, siamo riuscite a
trovare il supporto e l’appoggio dell’associazione di promozione
sociale “Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI”,
(www.retelenford.it) di cui sono anche divenuta aderente, che ci ha
consentito di intraprendere la via giudiziaria per tutelare il nostro
matrimonio.
In
primo grado il Tribunale di Modena, nel 2010, ha accolto il nostro
ricorso disponendo la cancellazione dell’annotazione di
scioglimento, riconoscendo quindi piena validità al nostro
matrimonio. Il Ministero dell’Interno ha fatto ricorso e in Corte
d’appello il tribunale di Bologna, nel 2011, ha ribaltato la
decisione precedente, sostenendo che il matrimonio in Italia può
essere solo tra uomo e donna. Abbiamo proposto ricorso in Cassazione
la quale a giugno 2013 con l’ordinanza 14329 ha sollevato una
questione d’incostituzionalità in relazione allo scioglimento
automatico del nostro matrimonio, rinviando la questione alla
Consulta che nel giugno 2014 ha pronunciato la sentenza 170 che ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 2 e 4
della legge 164/1982 nella parte in cui non prevedono la possibilità
di mantenere in vita un rapporto di coppia
Ora,
come detto, attendiamo il giudizio (che si spera definitivo) della
Corte di Cassazione.
Come
hanno reagito, i suoi familiari, di fronte al suo cambiamento e come
si è svolto il percorso che avete affrontato insieme?
A
dire il vero, essendo la mia famiglia molto aderente ai valori
cattolici, temevo molto la reazione dei miei genitori ed ho atteso il
più a lungo possibile prima di renderli partecipi di questa mia
condizione transessuale. Ricordo il giorno in cui confessai loro la
questione, accompagnata da mia moglie, è stata una giornata di
grande tensione.
La
loro reazione iniziale fu di comprensibile stupore ed incredulità.
Nei mesi seguenti faticarono a capacitarsi del fatto e tentarono
(giustamente) di farmi riflettere su quanto stavo ponendo in essere;
le riflessioni però, erano già state fatte e la problematica
attentamente vagliata e pertanto non c’era modo di farmi desistere.
Provarono anche a propormi terapie psicologiche “riparative”, su
evidente suggerimento di qualche conoscente di “eterodossia
integralista”, ma grazie alle mie spiegazioni ed al fondamentale
sostegno di mia moglie, alla fine compresero la situazione.
Adesso,
a distanza di tempo, hanno accettato la situazione e certamente non
mi hanno rifiutata, come purtroppo ancor oggi accade a molte persone
nella mia condizione che si vedono tagliare tutti i ponti da genitori
e familiari.
Penso
che una ragione di questo rifiuto, oltre all’immagine stereotipata
e negativa che grava sulle persone transessuali, sia anche il timore
del giudizio delle persone e, in generale, della società.
Il
percorso di cambiamento, alla fine, l’ho compiuto assieme a mia
moglie ed anche grazie a lei, che mi è stata sempre vicina e mi ha
curata ed accudita con amore, anche durante i numerosi e pesanti
interventi chirurgici a cui mi sono sottoposta nel corso degli anni
in vari Paesi esteri.
In
questi ultimi tempi si sente spesso parlare di omofobia e transfobia,
può darci la sua opinione su questo tema?
Va
detto anzitutto che omofobia e transfobia sono due fenomeni molto
differenti in sé, in quanto il primo è afferente al sesso ed
all’orientamento sessuale con il conseguente portato del paradigma
eterosessuale quale fondamento della società; questo paradigma, cioè
che gli uomini e le donne provino attrazione sessuale solo per il
sesso opposto, è l’ostacolo teorico principale alla realizzazione
del matrimonio egualitario in Italia.
La
transfobia, invece, attiene al concetto di genere, di ruolo di genere
e della sua espressione; da questo concetto discende il modello
“genderista” di organizzazione della società, nella quale i due
generi, maschile e femminile (generi fondati sul sesso alla nascita)
implicano un insieme ben distinto e separato di compiti e ruoli
all’interno dell’organizzazione sociale e familiare. Questi ruoli
sono funzionali anche all’organizzazione del potere, essendo ruoli
già determinati, prescritti e soprattutto non intercambiabili.
Su
questo si fonda il potere della società moderna: sul modello
maschile che si declina in varie forme di dominio (maschilismo)
sull’altro genere e si poggia su di un modello sociale fondato su
dogmi non discutibili: in questo senso la religione può essere un
valido alleato al conservatorismo sociale.
In
questo contesto genderista la liberazione dei generi e delle “forme
umane” non eterodosse, non aderenti al paradigma maschile, può
avvenire (ed è in parte avvenuta) solo con percorsi di
emancipazione. Tali percorsi si declinano come tentativi di
imitazione del genere dominante, copiandone i modelli di ruolo ed
azione, nel tentativo di conformarsi ad essi.
Il
conformismo diviene quindi il sottostante dell’azione di
emancipazione; tale conformismo si esplica però su modelli di base
differenti da quello dominante e pertanto non potrà mai assurgere
alla stessa magnitudo di grandezza.
Ecco
quindi che l’emancipazione mostra la sua vera natura e diviene
limite alla libertà ed all’autodeterminazione dei singoli
individui che non possono esprimere liberamente né le proprie intime
inclinazioni né il loro profondo essere, la loro identità.
Oltre
a questo l’emancipazione rappresenta anche un limite allo sviluppo
sociale, in quanto impedisce l’esplicarsi di nuovi modelli di
società, di relazioni di potere, che potrebbero essere utili a
superare i limiti dell’impostazione attuale che da una società che
si serve per le relazioni economiche dell’economia di mercato, sta
pericolosamente declinando in una società di mercato che rischi di
spazzare via ogni speranza identitaria rapportando qualunque istanza
ad un valore ed utilità economica immediata, liberandosi però
immediatamente di chi o cosa non possa più dare un profitto, inteso
come valore puramente economico e non, come sarebbe più utile, un
valore olistico ambientale, sociale, di benessere complessivo e
sostenibilità globale.
Da
queste brevi considerazioni si vede come i temi del transessualismo,
considerato come caso particolare dell’intersessualismo, sono assai
più ampi e variegati dell’ambito relativo alle questioni gay e
lesbica, di cui in effetti rappresentano un sovrainsieme inclusivo e
ben più ampio. Da qui discende anche, a mio avviso, l’errore
“politico” di porre la questione transessuale sempre in coda ed a
latere ai temi “lgb”, dai quali dovrebbe essere considerata
separatamente, sia perché richiama istanze aggiuntive e differenti,
sia perché il fatto di ricomprenderla nelle rivendicazioni
omosessuali ne limita la portata rivoluzionaria.
Chiarito
il significato di questi termini, si rileva che in Italia manca una
legislazione penale antidiscriminazione che contempli l'omofobia e la
transfobia: qual è la sua opinione in merito?
Si
è vero, in Italia è assente ad oggi una legislazione che contempli
l’omofobia e la transfobia.
In
questa legislatura ci sono state proposte interessanti sulla
questione, una in particolare elaborata dalla “Rete Lenford” che,
ricordo, è stata protagonista in questi ultimi anni di
importantissime battaglie giuridiche nell’ambito dei diritti
“lgbti” che hanno portato a sentenze storiche, vere pietre
miliari nel percorso di sviluppo sociale italiano.
Il
punto centrale è anzitutto stabilire se omofobia e transfobia
debbano essere considerate fattispecie di reato autonome oppure
aggravanti di altri reati, come è ad esempio il considerare più
grave un’aggressione se è stata determinata da motivi di
transfobia.
Io
ritengo che la collocazione più adeguata sia quella di aggravanti,
in quanto diverrebbe arduo definire chiaramente il perimetro di un
reato autonomo, ma ancor più tale inquadramento si configurerebbe
come un pericoloso tentativo di limitare e condizionare la libertà
di pensiero, cosa che non deve avvenire mai. È giusto punire i
reati, non eseguire condizionamenti del pensiero. Educare il pensiero
e non impedirne il libero esplicarsi. Il punto fermo deve essere la
puntuale e severa punizione e repressione del reato.
Stabilito
questo, resta un problema importante: il rapporto tra varie categorie
di libertà tutelate dalla nostra Costituzione.
Provo
a chiarire meglio: sappiamo che la nostra Carta stabilisce un
principio di eguaglianza in relazione, ad esempio, a razza, sesso,
opinioni politiche, religione.
Questa
è una cosa molto buona e giusta, sicuramente; a distanza di tanti
anni dalla statuizione di questi principi, però, occorre chiedersi
se tali categorie giacciano tutte sullo stesso piano o meno.
Il
percorso di formazione della proposta costituzionale, dopo i
terribili anni della seconda guerra mondiale, nell’includere
elementi di opinione soggettiva (politica e religiosa) tenne
doverosamente in conto l’esperienza delle dittature e delle leggi
razziali, dove anche la libertà religiosa fu oggetto di limitazione
e persecuzione.
Oggi
però e altrettanto doveroso chiederci se un’opinione religiosa, di
una gerarchia religiosa, possa essere lasciata libera di confliggere
e dare contro a condizioni umane che si presentano in natura e sono
parte dell’essenza stessa degli individui.
In
altri termini: può un’opinione fondata su presunti “dogmi” che
non ammettono discussione né falsificazione scientifica negare e
combattere aspetti dell’essere umano che sono naturali e legittimi
caratteri dell’individuo?
La
risposta, in tutta evidenza, è no!
Ne
consegue pertanto che la libertà religiosa, anche di espressione
religiosa, deve trovare un limite invalicabile nelle tutele degli
aspetti di cui stiamo discutendo, omosessualità e transessualismo.
Prima le persone e poi la loro libertà di espressione e
manifestazione, politica o religiosa che sia.
Tenendo
conto di quanto detto possiamo quindi dare una valutazione non del
tutto positiva della proposta di legge sull’omofobia approvata
dalla Camera in questa legislatura e di cui da molti mesi si sono
perse le tracce: una proposta che mirava ad incidere su aspetti
penali lasciando aperta la possibilità di una non meglio definita
libertà di pensiero alle organizzazioni religiose.
Francamente
spero che questa proposta non prosegua oltre e, a dire il vero, mi
sembrerebbe strano che la variegata maggioranza dell’attuale
Governo possa approvare qualcosa di positivo su questi temi. Se ce ne
fosse necessità, basti pensare alla proposta di una legge sulle
unioni registrate, quando è evidente che una siffatta legge non
farebbe altro che discriminare le persone omosessuali relegandole al
ruolo di persone a cittadinanza limitata, simili, ma non uguali alle
persone che aderiscono al modello eterosessuale nonostante i
presupposti (quello di avere a fianco un’altra persona con cui
condividere la vita) siano i medesimi.
In
conclusione, penso che quello che serva contro l’omofobia e la
transfobia sia anzitutto una modifica costituzionale nel senso
indicato prima; inoltre occorre rivolgere l’attenzione al ruolo
della cultura e dell’educazione sociale, lì dove le associazioni
“lgbti” dovrebbero focalizzare il loro agire, in modo da far
comprendere alle persone che il mondo non è solo in bianco e nero,
ma a colori, e che è importante rispettare la dignità delle
persone.
Fatto
questo ecco che una legge su omofobia e transfobia sarebbe il
corretto strumento per punire gli eccessi.
Parlando
ancora dei temi relativi ad omofobia e transfobia, entriamo più
nello specifico sugli aspetti della discriminazione: in quali
settori, a suo parere, sono più frequenti? Lei ha vissuto episodi di
discriminazione?
Parlando
di discriminazione occorre, a mio avviso, distinguere anzitutto tra
episodi diretti e conclamati rispetto a manifestazioni e
atteggiamenti discriminatori più sfumati e sottili, che potremmo
definire di discriminazione indiretta.
Mi
pare di poter affermare che in Italia, ad oggi, gli episodi di
violenza diretta e conclamata purtroppo si presentino con una certa
frequenza e visibilità. Basti pensare all’atteggiamento di alcuni
esponenti politici sia a livello locale, sia nazionale che proclamano
a chiare lettere quello che altro non è che odio (non è chiaro se
atavico o strumentale a fini politici) contro le persone “lgbti”;
per non parlare di istituzioni religiose e non solo cattoliche, cosi
come importanti esponenti del mondo sportivo, ad esempio.
Queste
esternazioni, mai punite e non sufficientemente stigmatizzate dalle
componenti “sane” della società, sono non soltanto gravemente
offensive, ma rappresentano un modello negativo per potenziali nuove
e maggiori discriminazioni. Il rischio è quello di passare dai
discorsi d’odio ad azioni violente.
In
effetti, questi episodi sono del tutto assimilabili al razzismo, come
ha anche stabilito una risoluzione del Parlamento europeo di qualche
anno addietro.
Nel
mondo del lavoro queste forme di discriminazione diretta e grave sono
senz’altro meno presenti e forse il merito, stante il negativo
humus culturale cennato, va riconosciuto alle specifiche norme
antidiscriminatorie che derivano dal recepimento di direttive europee
(legge 216/2003 più volte novellata) che costituiscono certamente un
argine a questi negativi atteggiamenti.
Una
particolare protezione viene offerta anche dallo “Statuto dei
lavoratori”, con la previsione specifica del divieto di
licenziamenti antidiscriminatori (art.15 l.300/1970) nei quali sono
ricomprese anche le questioni “lgbti”.
Riguardo
alle discriminazioni indirette, temo che si presentino con grande
frequenza e rendano di fatto improbabile l’ingresso nel mondo del
lavoro di persone di cui sia evidente o noto il loro status di
persona transessuale od ex transessuale; come se non bastasse, a
questo stato di cose dobbiamo tener conto degli effetti della grave
crisi di questi anni che rende arduo l’ingresso nel mondo del
lavoro alla maggior parte delle persone, per cui gli spazi per le
persone transessuali di fatto si azzerano.
Voglio
sottolineare che ho parlato sin qui di discriminazioni indirette
utilizzando questo termine non nel senso proprio della normativa,
bensì avendo a mente quelle situazioni concrete in cui non verrà
mai dichiarato chiaramente che la mancata assunzione è conseguenza
della condizione transessuale, ma non è certo difficile per il
datore di lavoro trovare una qualsiasi altra motivazione alla mancata
assunzione che peraltro non ha, a rigore, necessità di
giustificazione alcuna.
Parlando
invece di situazioni relative a persone transessuali già presenti
nel mondo del lavoro, qui è spesso probabile che si verifichino
episodi di mobbing, molestie e progressiva marginalizzazione sia
nelle mansioni sia nelle relazioni sociali interne all’impresa, con
l’obiettivo di spingere al licenziamento la persona divenuta
“indesiderata”.
La
situazione migliore, a ben vedere, è quella delle persone che hanno
un lavoro autonomo o esercitano libere professioni, in quanto
maggiore è la possibilità di far valere il loro “saper fare” e
quindi di mantenere le relazioni di lavoro anche dopo il percorso di
cambiamento.
Certo,
sarebbe utile ed interessante parlare avendo a disposizione dati
reali, ma da una parte il numero delle persone transessuali
stabilmente inserite in contesti lavorativi non è molto elevato e
d’altro canto ad oggi non sono disponibili ricerche significative
sul tema. Un esempio importante in tal senso è rappresentato dalla
ricerca “Io sono io lavoro” eseguita nel 2011 da Arcigay con il
contributo del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali sulla
discriminazione nel mondo del lavoro nei confronti delle persone
omosessuali e transessuali.
A
proposito di questi studi, va segnalata l’importante possibilità
che offre la normativa antidiscriminatoria vigente di poter
utilizzare dati statistici a supporto delle azioni che chiamano in
causa la discriminazione (art.4 decreto 216/2003).
Parlando
di discriminazioni sul luogo di lavoro va detto che una leva
importante per migliorare la condizione delle persone transessuali è
rappresentata da un approccio manageriale alla gestione delle
diversità in azienda, il cosiddetto “diversity management”,
focalizzato in particolare sulle persone “lgbti”.
In
Italia questo è un tema ancora poco conosciuto e le aziende
rischiano di perdere un’importante occasione per valorizzare e
trattenere a sé le potenzialità rappresentate da queste persone,
mentre nel mondo anglosassone questi temi sono già ampiamente
entrati nelle policy aziendali, sia delle imprese che operano in
ambito nazionale sia nelle multinazionali che provano a declinare
questi temi anche in Paesi dove il discorso sociale non è ancora
sviluppato, potendo a volte costituire un positivo agente di
cambiamento.
Non
va sottovalutato il fatto che queste leve aziendali possono
costituire un potente fattore distintivo di promozione del “brand”
istituzionale anche in un’ottica di “corporate social
responsibility”.
Per
quanto mi riguarda, sono attiva sui temi della diversità “lgbti”
quale componente del team di “Parks” (www.parksdiversity.eu),
un’associazione no-profit che raggruppa importanti imprese italiane
(e filiali di multinazionali) che sono attente e desiderano
impegnarsi su questi temi.
Tornando
a volgere lo sguardo al campo sociale, mi pare di poter affermare che
le persone transessuali non abbiano ancora raggiunto la pari dignità
e siano ancora in attesa di poter trovare adeguata rappresentanza nei
movimenti politici e nelle assisi rappresentative.
Al
di là di rari ed estemporanei esempi a livello locale, ancora
mancano personalità di rilievo nella politica nazionale; una grande
occasione mancata fu, nella XV legislatura, l’elezione al
Parlamento di una persona in rappresentanza dei temi del
transessualismo che non era neppure transessuale in senso stretto,
bensì, come amava definirsi “transgender”, nei fatti
rappresentante del mondo omosessuale. Tengo a precisare che non sto
dicendo che questa persona non abbia lavorato bene, semplicemente
avrei preferito che il discorso politico si fosse focalizzato sui
temi del riconoscimento concreto piuttosto che sull’affermazione
acritica di principi vaghi.
Purtroppo
anche in campo economico e scientifico la società italiana ben si
guarda dal valorizzare le rare figure presenti; lunga è ancora la
strada per la valorizzazione e la promozione sociale della questione
transessuale.
Per
quanto mi riguarda, anch’io purtroppo ho dovuto confrontarmi con la
discriminazione sul luogo di lavoro.
Consapevole
della difficoltà che le persone potevano (e possono) avere
nell’approcciarsi e nel comprendere la questione transessuale,
durante il mio percorso di cambiamento in azienda non ho mai preteso
di imporre acriticamente il mio passaggio agli altri colleghi di
lavoro, ma ho sempre cercato di anticipare l’insorgere di problemi
e domande parlando dei temi “lgbti” e del transessualismo in
particolare ad ogni occasione, anche prendendo spunto da fatti di
cronaca, cercando di stimolare domande ed orientare la visione delle
questioni.
Nonostante
il mio percorso di transizione sia stato molto graduale e molto
“attento”, nel senso detto prima, questo non è stato
sufficiente: purtroppo il responsabile dell’ufficio dove lavoravo
al tempo non è stato in grado di accettare e comprendere la mia
condizione ed ha intrapreso nei miei confronti una campagna
vessatoria fatta di battute allusive, di tentativi di sminuire il mio
lavoro, di affidarmi lavori via via più marginali ed inventare
problemi inesistenti, sollevando questioni percettive e caratteriali,
non riuscendo a contestare concrete mancanze lavorative.
Ai
tempi avevo anche intrapreso attività sindacale in azienda, seppur
marginale, e pertanto riuscivo a difendermi da queste che erano vere
e proprie molestie, ma giorno dopo giorno la situazione, nonostante i
miei tentativi, anziché migliorare andava peggiorando e così, dopo
averne parlato con la direzione del personale, la soluzione che
stabilirono fu quella di spostarmi ad altro ufficio.
Questa
soluzione risolse in un attimo il problema; certo mi chiesi allora e
a distanza di tanti anni ancor oggi mi chiedo se sia stato corretto
da parte aziendale il non prendere una posizione ufficiale e pubblica
su questa questione. Il fatto di non punire in maniera netta ed
evidente anche al resto del personale questi atteggiamenti,
purtroppo, al di là di quello che possa o non possa prevedere il
codice deontologico o quello disciplinare, fa sì che l’immagine
del carnefice ne esca rafforzata in quanto, alla fin fine, la vittima
della discriminazione è stata comunque sollevata dal suo incarico e
spostata dal proprio ruolo, mentre l’autore del mobbing è rimasto
dov’era senza aver subito, quantomeno in apparenza (ed è questo
che conta agli occhi altrui) alcuna punizione. La deduzione che ne
può conseguire è che se un determinato comportamento non viene
punito, non è sbagliato.
In
altra ottica, parlando con un approccio sindacale a quella che, in
generale, è la gestione del personale aziendale, sarebbe corretto
chiedersi se una persona che non tollera le diversità in azienda può
gestire al meglio i propri collaboratori; se chi ha atteggiamenti
maschilisti può davvero valorizzare e far rendere al massimo le
risorse aziendali che ha a disposizione. Forse, e dico forse, se
fossimo di fronte a conclamati casi di persone con una superiore
specializzazione tecnica o scientifica si potrebbero fare valutazioni
di un certo tipo, per quanto opinabili, ma parlando in generale il
dubbio è forte!
Per
fare un altro esempio sul tema, sempre in ottica generale, se la
persona oggetto di discriminazione fosse sì trasferita ma promossa
ad un incarico superiore, allora il discorso cambierebbe, ma ancora
non sarebbe una soluzione corretta, a mio avviso: le promozioni
dovrebbero seguire il merito e non essere una contropartita a
tacitazione.
Sia
come sia, tornando al mio caso, quello che ho potuto verificare è
stato il mancato supporto dei colleghi durante il periodo in cui
subivo discriminazioni: per meglio dire, in privato mi consolavano ed
erano dalla mia parte, ma davanti al responsabile non avevano
reazioni. Certo, questo è comprensibile in una struttura gerarchica
aziendale dove nessuno si può permettere di perdere il posto di
lavoro mettendosi contro i superiori.
Meno
comprensibile è stato però l’atteggiamento di chi è arrivato a
criticarmi poiché cercavo di difendermi dagli attacchi: addirittura
qualcuno avrebbe detto che non era corretto che io mi ponessi in
contrasto con chi, in fondo, era il mio superiore gerarchico; avrei
dovuto rispettare i ruoli e subire in silenzio.
Trovo
questi atteggiamenti molto tristi e rappresentativi di schemi di
pensiero volti ad atteggiamenti se non servili quantomeno
rappresentativi di grande omologazione e limitatezza di vedute.
Purtroppo
mi è capitato spesso di incontrare persone di tal fatta,
specialmente in ambito sindacale: a parole convintamente a favore dei
diritti e del progresso civile, ma di fronte al caso concreto muti ed
inermi.
Ci
ha accennato prima della sua esperienza sindacale: è stata utile per
affermare il suo status e portare un discorso di cambiamento in
azienda oppure non ha trovato ciò che si aspettava?
Mi
duole dirlo, ma l’esperienza sindacale che ho vissuto inizialmente
con tanto entusiasmo e voglia di fare, si è tramutata, a tratti, in
un’esperienza per me davvero negativa, non tanto in ambito
aziendale bensì, purtroppo, con le strutture verticistiche e
burocratiche del sindacato stesso che, mi sembra giusto ricordarlo, è
la federazione bancaria della CGIL.
Prima
di intraprendere la mia battaglia giuridica sulla vicenda del mio
matrimonio sciolto d’ufficio ero molto felice e speranzosa nei
riguardi del mio ruolo sindacale; pensavo che essendo nell’unico
sindacato italiano che aveva addirittura dedicato una struttura
specifica a livello nazionale a questi temi, definendoli “nuovi
diritti”, avrei avuto in caso di necessità un valido supporto e
molte connessioni.
Fintanto
che non ebbi nulla da chiedere, tutto funzionò bene: io ho gestito
da sola il mio percorso di transizione, sia nella vita sia in
azienda.
Nel
sindacato, proprio dopo l’intervento di cambio di sesso, ero
divenuta la responsabile aziendale, anche se per verità va detto che
presi quel ruolo non tanto perché qualcuno aveva creduto
particolarmente in me, piuttosto le altre persone a cui era stato
offerto lo avevano rifiutato; purtroppo fare attività sindacale è
visto più come una fonte di problemi che di utilità sociale.
Per
me questo ruolo, come ho detto, rappresentava un’esperienza di
rilancio positiva, anche nella mia nuova dimensione femminile; va
detto che per carattere da sempre mi piace interessarmi e poter
portare il mio contributo nei contesti in cui sono inserita, questo
fin dal liceo, dove sono stata sia rappresentante di classe sia
d’istituto.
All’inizio,
pur timorosa che i colleghi non rispondessero positivamente al mio
nuovo ruolo, cercai di lavorare al meglio e creare un gruppo
affiatato, partecipando sempre agli incontri sindacali che si
tenevano sia sul territorio sia in ambito nazionale.
Provai
anche a offrire il mio contributo sui temi del transessualismo, dato
che li avevo approfonditi e, grazie alla mia esperienza personale,
potevo offrire un sicuro valore aggiunto.
Purtroppo
la risposta fu di assoluta indifferenza e lì iniziarono le mie
perplessità.
Dopo
che emerse il problema relativo al mio matrimonio notai una chiusura
da parte del sindacato che francamente non mi sarei mai aspettata.
In
quelle prime fasi, alla fine del 2009, non avevo ancora stabilito i
rapporti con chi poi ha portato avanti questa causa giuridica, cioè
Rete Lenford, e disperatamente cercavo un aiuto poiché ero in grande
difficoltà.
Stranamente
dalle strutture centrali del sindacato mi fecero capire di “non
disturbare”.
Dopo
di questo iniziò un boicottaggio nei miei confronti ed io mi trovai
sola a svolgere la mia attività, senza più il supporto delle
strutture territoriali.
Passai
momenti difficili, ma essendo l’azienda in cui lavoro uno dei
maggiori gruppi bancari nazionali, con migliaia di dipendenti, avevo
modo e materia per svolgere proficuamente la mia attività.
Mi
concentrai sul lavoro e, pur senza supporto, mi impegnai, riuscendo
in questi anni anche a conseguire due master grazie a delle borse di
studio.
L’anno
scorso le strutture centrali, vedendo che non riuscivano a scalfirmi
con la loro azione sottotraccia, scrissero direttamente alla banca ed
all’associazione bancaria italiana per escludermi dal mio incarico
(senza neppure comunicarmelo, tra l’altro).
Questa
è stata, in breve, la mia esperienza con le strutture della CGIL.
C’è poco da aggiungere, alla faccia di democraticità e gestione
trasparente.
Vorrei
rimarcare il fatto che, parlando in generale, escludere di punto in
bianco, senza motivazioni né votazioni, una persona che ha svolto
per anni intensa attività sindacale in azienda, la espone ad
eventuali ritorsioni da parte del datore di lavoro. Valutai allora se
fare ricorso giurisdizionale contro tale decisione, ma gli amici mi
consigliarono di lasciar perdere, non ne valeva la pena e di fatto
era un’attività volontaria e non retribuita.
Una
triste esperienza con le strutture centrali, ma un’ottima
esperienza in azienda, dove ho potuto ampliare le mie conoscenze e mi
sono messa in gioco nell’attività di confronto e contrattazione.
Negli
anni passati a fare questa attività ho potuto siglare decine e
decine di accordi aziendali, un contratto integrativo, ho vissuto e
contribuito a gestire per la parte di competenza le fasi di
incorporazione e scorporo di aziende e attività; ho potuto aiutare
tanti colleghi a risolvere al meglio le loro problematiche sul luogo
di lavoro ed anche ad avere piccoli aumenti di stipendio. Mi è
piaciuto fare questa attività ed ho visto che ci sono questione,
nell’ambito dell’organizzazione sindacale, certamente da
riformare.
Una
soddisfazione particolare è rappresentata dalla firma di un accordo
da me promosso che estende una tutela già presente per le coppie
etero anche alle coppie dello stesso genere; questo risultato ha
avuto anche l’onore di essere citato su un’importante
pubblicazione economica nazionale.
Ci
può ricordare cosa recita la legge 164 ? E qual è la sua opinione
in merito alla norma?
La
legge 164 del 1982 fu, ai tempi, una legge molto avanzata, la terza
in ambito europeo dopo la normativa svedese del 1972 e tedesca del
1980.
La
legge nacque a fronte della presa d’atto della necessità di
regolarizzare e dare dignità a situazioni, che si presentavano con
sempre maggior evidenza, di persone che si sottoponevano ad
operazioni di rettificazione chirurgica del sesso all’estero e,
dopo essere tornate in Italia, non potevano modificare i loro
documenti e rischiavano addirittura conseguenze penali per aver
modificato il proprio corpo, per non parlare del fatto che potevano
essere sanzionate per mascheramento e, come accadeva, inviate al
confino.
Va
detto che fino agli anni ’70 qualche tribunale particolarmente
attento concedeva la variazione dei documenti anche in assenza di una
normativa specifica, ma con l’aumentare delle richieste la
giurisprudenza si era orientata nel senso di un rigido divieto.
Questa
legge fu dunque ottima per risolvere le situazioni in essere di
persone che si erano già sottoposte ad intervento chirurgico, ed a
questo scopo erano posti gli articoli 6 e 7. In aggiunta l’articolo
3 dispone al primo comma: “Il tribunale, quando risulta necessario
un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante
trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza.” Questo
comma, nella ratio della norma, era da riferirsi ai casi di quelle
persone che andavano o sottoporsi all’intervento all’estero (non
essendovi peraltro ai tempi la possibilità di effettuare
l’intervento in Italia).
Con
riferimento ai nuovi casi, va detto anzitutto che la legge è
implicitamente impostata e volta a risolvere le problematiche della
questione transessuale, ma non cita mai il termine transessualismo:
lo farà invece la Corte Costituzionale nella famosa sentenza
161/1985 dove validò l’applicazione della nuova normativa.
Questa
legge è molto sintetica ed anche aperta all’interpretazione e
proprio la successiva giurisprudenza è intervenuta a limitarne e
definirne gli ambiti, financo con una certa rigidità. La sintesi
della legge fa sì che sia anche non sempre chiara e precisa riguardo
a tutti gli aspetti coinvolti dal tema della variazione anagrafica.
Il
punto chiave della disciplina si trova all’articolo 1, dove è
scritto che: “La rettificazione si fa in forza di sentenza del
tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso
diverso da quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di
intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”; qui
probabilmente era implicito il riferimento ai caratteri sessuali
primari, ma questo non viene in realtà esplicitato chiaramente.
La
Consulta, con la già citata sentenza 161, ampliò il campo dei
caratteri sessuali a quelli psicosessuali, introducendo quindi
elementi psicologici soggettivi di percezione ed autodeterminazione,
qualificando la differenza tra i sessi come quantitativa anziché
qualitativa e suggerendo di privilegiare tra i vari aspetti, quelli
di carattere dominante.
La
successiva giurisprudenza si attenne allo stretto tenore letterale
della norma, favorita però in questo dalla vaghezza delle
considerazioni della Consulta testé citate e sicuramente sostenuta
dagli sviluppi dell’endocrinologia e delle neuroscienze che portano
a dare rilievo anche ad un dato genetico ed a fattori ormonali.
Per
questa ragione di stretta interpretazione giurisprudenziale da più
parti, seguendo gli sviluppi del dibattito a livello internazionale,
si è iniziato a parlare di “sterilizzazione forzata” della
persona transessuale, la quale, generalmente, può ottenere i
documenti con il nuovo nome e sesso solamente dopo aver subito
l’intervento di rettificazione sessuale (con asportazione delle
gonadi).
Continuando
l’esame della normativa, resta da analizzare un ultimo articolo ed
i successivi sviluppi.
L’articolo
mancante è il 4, dove in sostanza si dice che la sentenza di
rettificazione provoca (determina) lo scioglimento del matrimonio e
si applicano le disposizioni della legge sul divorzio.
Probabilmente
l’intento originario del legislatore era quello di definire con
un’unica procedura giuridica il caso della persona che chiedeva il
mutamento di nome e sesso in presenza di un matrimonio (civile o
religioso) precedentemente contratto.
L’assunto
che si dava per scontato è che non vi fosse interesse per i coniugi
nel proseguire il matrimonio e pertanto la strada più ovvia fosse
quella di agevolare al massimo lo scioglimento. Certo, vi era anche
il tema che il matrimonio, precedentemente eterosessuale, sarebbe
divenuto un matrimonio composto da due persone divenute dello stesso
sesso o, più correttamente, divenute dello stesso genere sociale, in
quanto il sesso biologico non si può mutare (perlomeno ad oggi)
mediante terapie mediche e chirurgiche.
La
mia opinione è che ai tempi fosse talmente ovvio e scontato nel
pensiero comune che il coniugio non potesse proseguire che neppure si
metteva in conto la possibilità di una diversa volontà dei coniugi;
il discorso sulla differenza di genere passava pertanto in secondo
piano.
Anche
la dottrina dell’epoca non approfondì la questione, così come la
Consulta nella già citata sentenza 161. Solo qualche commentatore
ipotizzò la possibilità di una volontà dei coniugi a proseguire
nel vincolo, ma la questione non venne adeguatamente approfondita.
Nel
1987 una legge (n.74) apportò modifiche alla disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio ed in quell’occasione venne introdotta
una nuova fattispecie che si riferiva specificamente al passaggio in
giudicato della sentenza di rettificazione di sesso. La collocazione
sistematica di questa novella legislativa faceva pensare che fosse
necessaria sia la volontà dei coniugi allo scioglimento, sia la
sussistenza della sentenza di un giudice che, accertata tale volontà,
pronunciasse il divorzio.
Con
queste premesse si arrivò, molti anni dopo, al caso dello
scioglimento d’ufficio del mio matrimonio a seguito del mio cambio
anagrafico e di genere avvenuto nel 2009.
Avendo
già ripercorso le tappe della mia vicenda all’inizio di questa
intervista, sottolineo i punti fondamentali della questione: si è
partiti dalla contestazione dell’annotazione dello scioglimento del
matrimonio a margine dell’atto stesso chiedendone la cancellazione
(sollevando un problema di mancanza di potere che ricorda un po’ la
discussione in corso in questi mesi sulle trascrizioni dei matrimoni
omosessuali celebrati all’estero) e si è invece arrivati a
discutere di un matrimonio omossessuale che tale non è!
Il
problema è che qui non si è rispettata la volontà dei coniugi, né
la mia né quella di mia moglie e si pretende di costringere una
persona a scegliere se rinunciare al proprio nome ed alla propria
identità oppure al proprio matrimonio ed al progetto stabile di vita
già posto in essere con l’altra persona, tutto questo in nome di
un presunto interesse dello Stato a non modificare le forme di
matrimonio, interesse che però non è mai stato declinato nel suo
concreto significato.
I
punti importanti sono da un lato che qui l’unione coniugale è
preesistente alla rettificazione anagrafica ed ha già prodotto
validi effetti giuridici; inoltre pare arduo accostare questo tipo di
unione alla coppia omosessuale, in quanto è piuttosto una variazione
della coppia eterosessuale venendosi infatti a modificare il genere
dei coniugi senza che ne sia intaccato il loro orientamento sessuale.
Come
se tutto questo non fosse già sufficiente, a completare il quadro di
contraddizione che si trova a fronteggiare il “sistema” di fronte
alla questione transessuale va detto che, incredibilmente, il diritto
canonico (il nostro matrimonio è concordatario), non prevede in
alcun modo lo scioglimento automatico del matrimonio a seguito di
variazione anagrafica (variazione effettuata dallo Stato italiano,
non dal Vaticano, peraltro) di uno dei coniugi, poiché riconosce
continuità alla persona.
Il
problema è servito; alla Suprema Corte il compito della risposta si
spera in tempi ragionevoli, considerato che in altre nazioni estere
dove si sono presentati (pochi) casi simili al nostro, è stato
finora sempre mantenuto in essere il vincolo preesistente anche
laddove era assente di una normativa sulle unioni omosessuali e
questo a sottolineare che è stata colta la differenza eziologica
delle due situazioni.
Per
completezza di analisi ricordo che la normativa posta dalla legge 164
è stata modificata dal decreto 150/2011 in materia di
semplificazione dei procedimenti civili: da volontaria giurisdizione
la procedura è passata al rito ordinario, con sicuro aggravio di
costi ed appesantimento del procedimento, il tutto infarcito da
qualche difformità interpretativa su bolli e modalità operative a
seconda dei differenti tribunali. Anziché semplificare si è
complicato, quando all’estero spesso si è di fronte a semplici
procedure amministrative senza l’intervento dei tribunali.
Una
curiosità è rappresentata dal fatto che questo decreto 150 si è
premurato di modificare una parola dell’articolo 4 della legge 164,
proprio l’articolo relativo allo scioglimento del matrimonio.
Questa modifica, pur ininfluente sia sul piano lessicale sia su
quello procedurale, è indicativa delle forze sotterranee impegnate a
mantenere l’eterodossia ed il conservatorismo sociale. Ho avuto
l’onore di un comma di legge ad personam, purtroppo contro e non a
favore!
Facendo
un passo indietro, lei ha parlato di sterilizzazione forzata imposta
dalla normativa. Può spiegarci meglio la questione?
Come
accennavo poc’anzi, recentemente alcune associazioni che si
occupano dei temi “lgbti” hanno iniziato una campagna contro la
sterilizzazione forzata e la cosiddetta patologizzazione del
transessualismo.
La
questione, un po’ complessa, prende le mosse dal fatto che
recentemente in Argentina è entrata in vigore una legge che consente
la variazione anagrafica di nome e sesso senza necessità di alcun
tipo di intervento chirurgico e neppure di diagnosi clinica di
transessualismo: a semplice richiesta.
In
effetti, a ben guardare, la questione viene spostata
dall’individuazione e diagnosi del transessualismo a quella
dell’autodeterminazione della persona.
Questo
tema è collegato alla natura stessa del transessualismo: è davvero
una problematica clinica oppure altro non è che una “naturale
varianza” della fenomenologia umana, come è ora considerata ad
esempio l’omosessualità (che pure nei decenni scorsi era
classificata quale disturbo psicologico)?
La
risposta a questa domanda sarebbe stata assai ardua fino a qualche
decennio addietro: ora, grazie come detto ai progressi delle scienze,
si sono potute formulare plausibili ipotesi sull’origine ed il
manifestarsi del transessualismo.
Credo
però che il punto chiave sia un altro: dobbiamo chiederci se la
persona transessuale sia in uno stato di equilibrio oppure no; se non
lo è, occorre ricercare tale equilibrio nei modi e nelle forme che
la persona stessa ritiene più opportune.
Ogni
cosa al mondo, in un certo senso, rappresenta una “naturale
varianza”, anche un raffreddore, per fare un esempio. Se non lo
curo sto male e mentre è vero che a volte può sparire da solo, è
altrettanto vero che se permane può causare gravi o peggiori
conseguenze.
Ecco,
anche per il transessualismo vale la stessa logica: non essendo una
situazione di equilibrio, anzi di grave sofferenza, è la persona
stessa a richiedere terapie, mediche o chirurgiche, per adeguare e
riequilibrare corpo e mente.
Comprendiamo
quindi come, a mio avviso, sia del tutto erroneo pretendere di
eliminare la questione transessuale dai manuali clinici; offensivo
verso le persone transessuali ed anche contrario alla verità delle
cose come ad oggi le possiamo percepire. Ecco che il discorso sulla
depatologizzazione, se male impostato, rischia di danneggiare le
persone transessuali.
Quello
che è vero è che non è ammissibile considerare il transessualismo
un problema psicologico, da sistemare poi tramite ormoni e chirurgia,
per giunta. È qui il problema e da poco, con la nuova edizione del
manuale diagnostico “DSM” si è ottenuto un progresso in quanto
ora il transessualismo non è più un problema di per sé, che resta
“attaccato” alla persona per tutta la vita, ma viene tenuto in
conto solo in quanto causa di disagio temporanea, che scompare una
volta che la persona raggiunge il suo equilibrio, il suo stato di
benessere.
Altro
c’è ancora da fare, a mio avviso, per eliminarlo del tutto dal
manuale DSM e collocarlo nel classificatore internazionale ICD al
fianco delle questioni intersessuali, date le probabili cause
genetiche ed ormonali del fenomeno.
Dato
questo quadro, si può facilmente comprendere l’origine delle
cosiddette “terapie riparative” (applicate pervicacemente anche
all’omosessualità): se si considerano questi fenomeni come
questioni psichiatriche o dipendenti da educazione e contesto
sociale, si comprende come possano trovare appiglio tali sedicenti
cure, nei fatti terribili strumenti di violazione della dignità ed
integrità umana.
Questo
stesso processo di considerare le persone transessuali (ed
omosessuali) esseri diversi, con problemi e deviazioni mentali, in
effetti minorati, ha consentito una loro collocazione sociale in
qualche modo inferiore a quella delle persone sedicenti “normali”.
Sfruttando questo percorso argomentativo si è quindi potuta dare una
giustificazione all’esclusione ed alla marginalizzazione, financo
alla persecuzione. In qualche modo questo processo di segmentazione
degli esseri umani in categorie dotate di differenti dignità
richiama elementi della teoria specista ed è lo stesso processo che
giustifica, ad esempio, lo schiavismo e la tratta dei neri, oppure
giustifica la condizione di inferiorità sociale delle donne.
Chiarito
il tema della patologizzazione, torniamo alla legge argentina ed alla
variazione di nome e genere sui documenti a semplice richiesta.
Senza
entrare nel merito del tessuto sociale e culturale argentino, che non
conosco, in Italia il problema si pone in quanto nelle fasi iniziali
di transizione, quando già l’aspetto cambia e non è più
rappresentativo del genere di origine, diviene faticoso e
discriminatorio essere obbligate ad utilizzare documenti con il nome
espresso nel genere di appartenenza iniziale.
Ecco
quindi il problema: il nome in rapporto all’aspetto in divenire,
non tanto un cambio di genere senza che nulla del sesso sia cambiato.
Compreso
questo ecco che si evidenzia tutta la forzatura di pretendere da una
parte l’eliminazione del transessualismo, che pure esiste e
dall’altra addirittura l’eliminazione del sesso dalla società,
cosa questa contraria alla stessa biologia umana; al più
occorrerebbe aumentare i sessi, a rigore, se volessimo ricomprendere
i casi di intersessualismo (almeno tre casi principali che sommati al
maschile e femminile darebbero cinque tipologie sessuali alla
nascita.
Vale
dire che occorrerebbe anche una maggior precisione e chiarezza sui
termini: se parliamo di sesso, se sui documenti indichiamo il sesso,
allora non si vede come questo possa essere abolito, tutt’al più
si può prevedere una casella “X” di sesso non specificato per i
soli casi di intersessualità alla nascita, come già avviene in
Australia.
Se
invece si parla di genere, cioè di tutte quelle manifestazioni
sociali, comportamenti, usi, regole, modi di relazionarsi, legate ad
un determinato genere ed al ruolo che assume nella società, queste
sono sì intercambiabili e pertanto si potrebbero variare a piacere;
si potrebbero anche eliminare, ma per una ragione molto semplice:
essendo modalità di relazione occorre sempre un riconoscimento
sociale, quindi la cancellazione sarebbe del tutto illusoria, in
quanto il genere desiderato sarebbe sempre soggetto a validazione
collettiva.
Insomma,
se abbiamo un lupo ed un agnello e chiamiamo entrambi gufo, è lecito
pensare che l’agnello possa dormire sonni tranquilli avendo di
fianco un lupo e chiamandosi ora entrambi gufi?
Quello
che manca in Italia è pertanto la possibilità di variare
liberamente il nome senza che questo sia legato obbligatoriamente al
genere, come invece impone una ben poco lungimirante legge (art. 35
decreto 396/2000). Va da sé che anche il codice fiscale dovrebbe
adeguarsi a questa riforma, magari diventando un codice numerico in
modo da impedire la possibilità di rilevare a prima vista il sesso
della persona.
La
pretesa di cambiare anche l’indicazione di genere non trova invece,
a mio avviso, valide ed autonome ragioni, salvo eventuali impedimenti
di ordine eccezionale, come ad esempio l’impossibilità di
sottoporsi ad interventi chirurgici per obiettive ragioni di salute.
Altre
richieste, beninteso se vi fosse la variazione legislativa di cui
sopra, ricadrebbero a mio avviso in casi che nulla hanno a che fare
con il transessualismo.
Che
cos'è, per lei, l'identità?
L’identità
è un concetto che si può applicare a differenti contesti: in
generale il termine mi pare si riferisca all’idea di essere parte
di qualcosa o, perlomeno, di assumere a modello quella cosa, che
diviene la nostra identità, per definire meglio noi stessi.
In
fondo l’identità è un riferimento, il nostro punto fermo, la
nostra àncora di salvezza nell’universo mutevole.
Parlando
dell’identità di genere, la penso riferita al proprio sentirsi
interiore, alla propria essenza, femminile o maschile.
Mi
pare di poter dire che questa identità abbia due aspetti, uno
soggettivo, l’altro oggettivo.
Il
primo appare quando mi guardo allo specchio e mi chiedo chi è e a
chi appartiene quell’immagine che vedo riflessa, il secondo
aspetto, oggettivo, emerge dalle relazioni che ho quando entro in
contatto con le altre persone che vorrei mi riconoscessero e mi
considerassero per quello che sento di essere, un essere femminile.
In
questo senso l’identità di genere, detta transessualismo (decenni
addietro transessualismo primario, per distinguerlo da altre realtà
differenti che oggi sono ricomprese nel termine “ombrello”
transgender) non è un qualcosa che viene definito unicamente dal
mondo esterno, dalla società.
Per
questa ragione avere i documenti allineati con la propria identità
di genere, ottenere un giusto riconoscimento sociale, passare
indifferenti in mezzo alla folla senza ingenerare dubbi ed ambiguità
su chi si è, tutto questo non è così importante come l’aspetto
soggettivo, come essere sé stessi.
Per
arrivare a questo traguardo penso sia necessario un profondo percorso
di presa di coscienza di sé. Solo dopo aver fatto questo ci può
essere, e ci deve essere, un processo di autodeterminazione che porti
alla piena realizzazione del sé. Il fine ultimo è raggiungere una
condizione di maggior benessere; questo è l’obiettivo. Quando si
arriva a questo punto, l’aspetto sociale dovrebbe esplicarsi in
maniera spontanea; l’unico ostacolo può essere la memoria del
passato oppure, appunto, la mancanza di leggi che diano
riconoscimento a questo percorso.
In
fondo il percorso transessuale è quasi un percorso filosofico: presa
per mano da Socrate attraverso un percorso di conoscenza interiore,
si arriva ad incontrare uno stato di benessere e felicità epicurea.
Dove
la persona, seguendo Hegel, rimane nella sua essenza la medesima
anche dopo il percorso di cambiamento, Aristotele ci invita a
riflettere se davvero vi è un tratto comune che definisca la persona
o si possa parlare di una situazione nuova, totalmente slegata da
quella precedente. A mio avviso il tratto comune rimane, e,
paradossalmente, la logica transessuale mette d’accordo i due
filosofi, in quanto la persona resta certamente sempre la medesima
anche dopo il cambiamento, ma proprio perché la sua natura è del
tutto peculiare: una natura intersessuata che impedisce di dividere
le due situazioni, il prima ed il dopo, e le assimila in questo
tratto che resta costante.