martedì 19 maggio 2015

Un angolo di Eritrea a Milano



di Igiaba Scego (da “Internazionale” 5 maggio 2015)




Neoclassica, austera, trionfale, così appare porta Venezia, una delle sei principali porte di Milano, al visitatore. Il quartiere noto per i suoi ristorantini alla moda è tra i più amati dagli under 30 milanesi. Certo gli spritz, gli apericena l’hanno resa trendy e al passo con i tempi, ma porta Venezia è qualcosa di più profondo. Di fatto racchiude in sé una storia complessa fatta di separazioni e ricongiungimenti, una storia che odora di caffè caldo e cardamomo, una storia che la lega all’Africa come nessuna.
Infatti da tempo il quartiere è il ritrovo della comunità eritrea-etiope che dagli anni settanta del secolo scorso ha fatto di questa zona il centro della propria esistenza. Ed è sempre qui che gli eritrei di oggi, in fuga dalla dittatura feroce e insensata di Isaias Afewerki, cercano rifugio dopo essere approdati a Lampedusa con una carretta scassata. Sanno che a porta Venezia una zuppa calda e qualcuno che sa parlare la loro lingua lo troveranno di sicuro. Porta Venezia è Milano, ma è anche Asmara. È Italia, ma anche Eritrea.
Il colonialismo italiano, diceva nel suo bel libro Rifugiati lo scrittore somalo Nuruddin Farah, occupa un territorio coloniale ambiguo nella coscienza degli italiani. Infatti l’Italia spesso non si ricorda di aver avuto un legame storico con Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Disconosce il vincolo e quando poi arrivano i rifugiati proprio da quei paesi un tempo colonizzati (e spesso brutalizzati) non riesce a tracciare una linea che la colleghi a quell’intreccio di corpi. È più facile dimenticare. E così si dimenticano non solo le nefandezze del periodo coloniale, ma anche quelle più moderne fatte di affari sporchi con i dittatori di turno e di rifiuti sversati in mare o tombati nelle zone di pascolo. L’Africa, come diceva Ennio Flaiano, rimane ancora lo sgabuzzino delle porcherie e meno se ne parla meglio è.
Ma ormai, per fortuna, fioccano le contronarrazioni. Ed ecco che il docufilm Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos ci regala una panoramica su una comunità, quella eritrea-etiope, presente nel territorio da decenni di cui però si è sempre parlato molto poco. Il titolo, tratto da una canzone coloniale degli anni trenta, è già di per sé evocativo. Il docufilm nasce per accumulazione. Colpisce, fin dalle prime scene, la presenza ossessiva e permeante delle fotografie dovuta a un grande lavoro di ricerca da parte dei registi.



Ed ecco che lo schermo si riempie di bambine sorridenti, ragazzi con jeans a zampa di elefante, signore con il tradizionale abito bianco. E poi feste, celebrazioni, preparazioni di focacce e caffè, treccine svolazzanti, orecchini arcobaleno. E piano piano una comunità di adulti si popola di bambini. Generazioni si mescolano e quasi si confessano davanti alla telecamera, mai invasiva, di Alan Maglio e Medhin Paolos. E sotto i nostri occhi una comunità si svela nelle sue più intime e delicate sfumature.
C’è la scrittrice Erminia dell’Oro figlia di italiani, di vecchi coloni, nata in Eritrea che si sente africana e non importa se ha la pelle bianca, Eritrea per lei è casa. Il dj Million Seyum, chiamato non a caso il Sindaco, che sa come far ballare i suoi compaesani, ma che in ogni sua parola è profondamente asmarino, ma anche profondamente milanese. La famigliola riunita intorno a un libro di fotografie (Stranieri a Milano di Lalla Golderer e Vito Scifo che diventerà uno degli assi portanti del docufilm) sa come commuoverci con gli antichi ricordi di famiglia.
E poi c’è Michele figlio di un pugliese mai conosciuto e di un’eritrea, cresciuto in un collegio di suore a suon di punizioni corporali, rimpatriato in un’Italia mai veramente sua. Colpisce inoltre la forza di Helen Yohannes, calciatrice/mediatrice culturale che ha dedicato il suo tempo ad aiutare i rifugiati perché guardando quelle facce così simili alla propria sa che quel destino poteva toccare a lei e si rimbocca le maniche per attutire come può quelle sofferenze.
Fotogramma dopo fotogramma scopriamo una comunità molto attiva negli anni settanta-ottanta, organizzata, unita. C’era la lotta per l’indipendenza a dare identità. Ed ecco le riunioni in teatri gremiti, i volantinaggi, le assemblee, le manifestazioni, le storie d’amore nate intorno a tutta quella politica. E poi la gioia immensa di essere un paese. C’è chi pensava di tornare ad Asmara, di ricostruire là il poco di avvenire rimasto. E poi dal paradiso agli inferi di oggi, prima un conflitto insensato con l’Etiopia per un confine senza importanza e poi la dittatura che sta facendo fuggire tanti giovani che preferiscono rischiare la traversata attraverso il Mediterraneo che marcire nelle grinfie di un regime protetto anche da occidente.
Ed ecco che i registi non nascondono le fratture all’interno di una comunità. Una divisione in filogovernativi e oppositori, tra chi si sente eritreo o chi eritreo-etiope. E in mezzo c’è l’Italia, Milano. Una città-casa che a volte sa abbracciare e a volte no. Asmarina racconta tutto questo e molto altro. Racconta l’Italia come recentemente sono riusciti a fare in pochi.