lunedì 18 maggio 2015

Abolire il carcere?




di Francesco Lo Piccolo (direttore di “Voci di dentro” - da Huffigton Post, 9 maggio 2015)




Ho appena finito di leggere "Abolire il carcere - una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini", libro edito da Chiarelettere scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Centoventi pagine (compresa la postfazione di Gustavo Zagrebelsky) nelle quali si affronta un tema spinoso come quello del carcere per dire in sostanza, finalmente, che è arrivato il momento di abolirlo.
Certo una battaglia non facile, specie in questi tempi - a mio avviso - dove lo slogan "più galera" spunta da ogni parte, in ogni momento, per qualunque cosa. Oliato e alimentato. Slogan acefalo, soddisfazione viscerale che alle volte mi tocca sentire anche tra gli stessi carcerati. È proprio vero che dal male nasce solo male. Prova provata di un sistema che non risolve il problema in sé, ma semplicemente e con gran convinzione lo allontana, segregandolo, nascondendolo nelle periferie. Sistema grigio e lontano. Ignorato nella sua realtà ma sempre presente. Il toccasana. In realtà il toccasana che non sana un bel nulla, medicina placebo, rimedio pronto e infallibile, cura del male con la creazione della vittima sacrificale. Dunque perfettamente efficiente.
Ma torno al libro, a questo percorso per l'abolizione della moderna galera, per l'abolizione di questa istituzione nata appena 250 fa e che invece mi appare percepita come antichissima, quasi preistorica, del tipo "così è sempre stato, così sempre sarà". Il ragionamento che fanno gli autori, e che mi trova ovviamente in accordo, nasce da alcune semplici considerazioni, ovvero dal fatto che il carcere, come si legge nella parte centrale, è:
1) intollerabile (degradazione e non rieducazione, un luogo fatto di sbarre e celle dove rinchiudere i propri simili come "animali feroci", come dice Zagrebelsky),
2)
insostenibile per i costi (3 miliardi all'anno in grandissima parte spesi per il personale e per il funzionamento del sistema, lasciando ai detenuti per il vitto poco più di 24 milioni annui),
3) inutile e incapace di garantire la sicurezza dei cittadini (non riduce il tasso di criminalità, al contrario è scuola di criminalità, affinando le capacità delinquenziali di chi viene incarcerato),
4) inefficace come strumento di punizione, o come sistema per "insegnare" ai detenuti a non delinquere di nuovo (
sette condannati su dieci commettono un nuovo reato dopo aver scontato la pena; ad esempio nel 1998 su 5.772 persone scarcerate, sette anni dopo ben 3.951 sono tornate in carcere, ovvero il 68,45 per cento),
5) afflizione e tortura (vedi sentenza Torregiani del 2013, e sentenza Sulejmanovic nel 2009),
6) gratuita violenza (vedi i casi di Asti, Parma, o l'uccisione di Stefano Cucchi).
Ed è da qui, secondo Manconi, Anastasia, Calderone e Resta, che nasce appunto la "ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini" frutto di un atto di coraggio contro la società carcero-centrica. "È arrivato il momento di osare" scrivono gli autori. Dove osare per me significa più semplicemente tornare a ripercorrere un pensiero di civiltà, come una specie, a me pare, di antica strada maestra, quella strada che un tempo veniva percorsa non tanto con coraggio ma piuttosto con buon senso e senso civile. Nel 1985 il tema dell'abolizione del carcere fu al centro di un convegno che si tenne a Parma organizzato da Mario Tomassini, morto nel 2006, grande nome della psichiatria italiana, amico di Basaglia, da sempre in prima fila contro manicomi e istituzioni totali.
Nel 1945 subito dopo la Guerra, il padre dell'Europa libera e unita Altiero Spinelli, così scriveva in una lettera indirizzata a Pietro Calamandrei:
"Più penso ai problemi del carcere più mi convinco che la riforma carceraria da effettuare è quella di abolire il carcere penale e sostituirlo con un luogo dove sia possibile una vita normale, controllata da magistrati, con possibilità di guadagnare, di sposarsi, di aver casa, di vivere civilmente".
E non è certo un caso che nella nostra Costituzione non ci sia mai la parola carcere e piuttosto si parli di pene che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Dunque una proposta che va accompagnata - come scrivono Manconi, Anastasia, Calderone e Resta - con una rivoluzione di tipo culturale, giuridica e politica. Ovvero con modifiche che "riducano l'ambito dell'applicazione del carcere sostituendolo con misure limitative della libertà (extramurarie) solo nei casi più gravi e per il resto con sanzioni di natura interdittiva, patrimoniale o riparatoria". In definitiva con la "riduzione del diritto penale". Una specie di passo indietro, se intendo bene il pensiero degli autori, del potere-strapotere del giudiziario. Il tutto attraverso un programma diviso in dieci punti che rappresenta la via per arrivare alla definitiva abolizione della prigione. In sintesi:
1) diritto penale come extrema ratio,
2) eliminazione dell'ergastolo e riduzione delle pene detentive,
3) decarcerizzazione nel codice e nella legislazione penale speciale,
4) giurisdizione penale minima,
5) eliminazione della carcerazione preventiva,
6) sanzioni invece che carcerazioni,
7) garanzie e rieducazione effettiva per i carcerati colpevoli di gravi reati,
8) umanizzazione e superamento dell'alta sicurezza e 41 bis,
9) escludere il carcere per i minori,
10) fine delle misure di sicurezza detentive.
Perché nessuno, nemmeno Berlusconi, spiegano, deve andare in galera.
A pagina 120 così scrive al termine della postfazione il profesor Zagrebelsky:


In una società che prenda le distanze dall'idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare la frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia ripartiva, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in corso. Una prospettiva nuova e antichissima, al tempo stesso, che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale...



Dunque un libro da leggere. Per capire.