di
Ivana Trevisani, da 25 anni con piacere fedele al Festival
Il
“Festival
del Cinema Africano d'Asia e America Latina”
anche quest'anno si è riaffacciato agli schermi milanesi e si è
presentato con un compleanno speciale, venticinque anni, un quarto di
secolo, di vita sua e di quella del pubblico che con affetto lo ha
seguito lungo tutto questo periodo e ancora lo segue.
Non
a caso il termine Vita,
perchè di questo si tratta e ogni anno puntualmente si ripete:
incrocio di vite, delle organizzatrici e degli organizzatori, delle
persone sedute davanti allo schermo o davanti alle registe ai registi
negli incontri aperti, e quelle restituite dallo schermo, più o meno
lontane nello spazio e a volte nel tempo, ma riconsegnate nel
presente dal loro dipanarsi nelle trame di film, lunghi o corti, e
documentari.
Già
dall'apertura si poteva intuire la scelta, anche per quest'anno, di
condurci nella storia delle quotidianità, argomento poco visitato,
anzi spesso ignorato dall'informazione formale. Ha aperto il festival
il lungometraggio “Taxi
Teheran”
dell'iraniano Jafar Panahi, Orso d'oro all'ultima Berlinale; il
regista che non può lasciare il suo Paese per vent'anni a causa del
suo impegno di dissenso politico, diventando lo stesso taxista-
personaggio del film, riesce attraverso i variegati passeggeri che
si susseguono e dei loro squarci di storie comuni, a darci conto
delle storture di un regime soffocante.
Immagini
inattese della Tunisia, nel quotidiano pressochè sconosciuto in cui
non sono i fantasmi del terrorismo ad agitare le vite, quanto
problemi ordinari, ma non meno difficili da reggere, sono state
offerte da “Le
challat de Tunis” della
regista Kaouther Ben Hania, che con sarcasmo e ironia, attraverso la
ricostruzione della vicenda dell'aggressore seriale “lametta”
(challat,
appunto)
restituisce i conflitti di genere nella società tunisina. Immagini
inattese sono state date anche dal regista Lofti Achour, che con il
cortometraggio “Père”
affronta il tema della paternità, vera o presunta, una questione
difficile da affrontare e gestire non solo nella cultura e società
arabe, del resto.
Restando
nel vicino scenario di un'altra delle rivoluzioni che nella primavera
del 2011 hanno scosso parte del mondo arabo mediorientale,
il
giovanissimo cineasta egiziano Yasser Shafie grazie al suo corto ma
incisivo “The
dream of a scene (Il
sogno di una scena)”,
rende
con uno sguardo maschile di apprezzabile
sensibilità, il forte radicamento - più culturale che religioso
nel mondo arabo - come un nodo più stretto del nodo dei capelli
femminili e del loro significato profondo nelle stesse donne. E non è
tuttavia mancato il richiamo all'ironia che anima la cultura
egiziana, affidato ai tredici minuti del cortometraggio del cairota
Khaled Khella “130
km to Heaven (A
130 km dal paradiso)”,
che riesce con umorismo solo velatamente amaro a sbugiardare
l'abbaglio di stili di vita dorata veicolato da certo turismo
occidentale.
“Passage
à niveau (Passaggio
a livello)”
ci
sposta poco più in là, sia geograficamente che tematicamente:
l'algerino Anis Djaad infatti ci cala nel dramma della perdita di un
lavoro più che trentennale e accomuna i due personaggi del
cortometraggio nella scala socioeconomica, come ultimo e penultimo.
Restando
nella stessa area geografica, ancora grandi traversie che sfiorano e
a volte intrecciano la tragedia, in piccole comuni storie di vita
nella
realtà sia rurale che urbana del Marocco odierno: ce le hanno
presentate la
regista Tala Hadid con il suo “The
narrow frame of midnight (La
cornice stretta della mezzanotte)”
che
affrontando un dramma dilagante nel paese, patito da molte
adolescenti, riesce ad incuneare nel racconto la connivenza e la
responsabilità di deprecabili trafficanti europei. E
“L'homme au chien (L'uomo
con il cane)”
del
regista Kamal Lazraq che mostra la crudeltà umana alimentata dal
degrado sociale di ghetti ai margini nientemeno che della capitale
Casablanca.
Ci
spostiamo in una dimensione geografica molto lontana, nel Sudafrica
del cortometraggio “Lazy
Susan (Vassoio
girevole)”di
Stephen Abbott, ma in una dimensione di difficoltà umana tra
l'arroganza di un cliente e un meschino furto degli spiccioli di
mance quotidiane. Sempre nel sud dell'Africa, in Angola, il
cortometraggio “Excuse
Me I Disappear (Scusatemi
se sparisco)”
di
Michael Mac Garry, già nel titolo anticipa la cifra di assurdità
della non esistenza di un anonimo spazzino comunale, che scompare
nell'anonimia e sperequazione socio economica del quartiere irreale
in cui il lavoro lo porta ogni
giorno.
I
dodici minuti di “Discipline
(Disciplina)”
dello svizzero-egiziano Christophe
M. Saber, riportandoci appena oltre il nostro confine verso nord,
rendono con straordinaria efficacia la babele non solo linguistica
nel microcosmo svizzero di un supermercato, dove le incomprensioni
linguistico-culturali generano fraintendimenti che alimentano una
rissa dall'evoluzione esponenziale.
“The
Monk (Il
monaco)”
del
birmano The Maw Naing, sembra spostarci in una dimensione quasi
irreale di ascetismo, ma le vicende umane oltre che spirituali del
monastero nel cuore della foresta birmana e l'inatteso, breve
incontro con la realtà urbana, lo rendono più concreto.
E
per concludere, lasciandoci aperti al proseguo delle vite, i film
hanno mostrato l'irrisolto di tragedie, troppo spesso archiviate o
mal-trattate dal sistema mediatico, restando ferite non riemarginate
e pronte a riaprirsi, seppure in forme diverse, attraverso l'intero
mondo: dalla
Haiti di “Meurtre
à Pacot (Omicidio
a Pacot)”
di
Raoul Peck che scavando nelle macerie e nei sentimenti dei
personaggi, ci rammenta di come le catastrofi ambientali, il
terremoto nella fattispecie, colpiscano non solo nel momento dello
scoppio, ma si insinuino tra le crepe dei muri e delle vite che vi si
aggirano, mettendo a nudo i risvolti peggiori delle persone. Alle
zone dell'Africa subsahariana già attraversate da sanguinosi
conflitti interni ormai dimenticati dall'attenzione mediatica, in cui
il cortometraggio “Umudugudu!
Rwanda 20 ans après Umudugudu!
Rwanda 20 anni dopo)”
dell'italiano
Giordano Cossu ci conduce nell'esplorazione delle situazioni
latenti e non concluse di un paese uscito dalla tragedia ma non dal
rischio del suo riesplodere. O il lungometraggio del
burkinabé Sékou Traoré
“L'oeil
du cyclone (L'occhio
del ciclone)”,
presentato in prima europea, che
ci
ricorda
le bombe
ad orologeria degli
ex bambini soldato, diventati adulti mai recuperati dal danno del
condizionamento che hanno subìto. Per arrivare, infine, purtroppo
ancora nel presente,
con
le
dolorose
immagini delle “Letters
from Al Yarmouk (Lettere
da Al Yarmouk)”
del
palestinese Rashid Masharawi, che ci accompgnano “oltre
il disumano” ,come
affermato lo scorso aprile dall'UNHCR, in quel tragico quotidiano
della situazione tutt'ora aperta nel campo profughi palestinese
dell'omonimo quartiere di Damasco, assediato da fame, da bombe e
dalla morte ancor prima che dai criminali di Daesh.
L'augurio
quindi che possiamo fare e farci, in questo significativo compleanno,
è che il Festival
Cinema Africano d'Asia e America Latina di
Milano,
possa continuare a regalarci per molti altri compleanni, oltre al
valore artistico delle opere scelte, anche quello del suo impegno
politico nel restituirci, come anche quest'anno ha fatto, un
quotidiano che va oltre confini, muri, barriere geografiche,
culturali o mentali e rende simile e vicina, in questo difficile
passaggio della storia, tutta la
comune umanità.