“Qui
in Congo le donne sono state stuprate tre, quattro, dieci volte da
uomini diversi, più che uomini bisognerebbe chiamarli animali.
Finora ne abbiamo curate 384 ma continuano ad aumentare. Parecchie,
atterrite dalla violenza, sono fuggite nella giungla e hanno paura di
tornare per farsi curare” (Giorgio Trombatore, capomissione e
incaricato della sicurezza dell’organizzazione non governativa
americana IMC - International Medical Corp).
Durante
la guerra del 1998, decine di centinaia di persone furono violentate
nella Repubblica Democratica del Congo; si parla di più di 200.000
sopravvissuti a stupri. Goma fu il campo di battaglia maggiore
durante la prima e la seconda guerra del Congo e, nonostante gli
accordi di pace tra il Governo della Repubblica Democratica del Congo
ed i governi dei Paesi confinanti Uganda, Ruanda e Burundi, sono
state perpetrate continue violenze sulla popolazione civile. Queste
violenze sono state definite “arma di guerra”, atti designati a
sterminare la popolazione; lo stupro è stato ed è ancora oggi una
semplice ed economica arma su tutti i fronti, più facilmente
ottenibile di proiettili e bombe. Nonostante il processo di pace,
cominciato nel 2003, l’aggressione sessuale da parte di soldati di
gruppi armati e dell’esercito nazionale, continua in tutte le
province orientali del Congo.
Lo
stupro di guerra disumanizza, umilia e disonora. È un modo per
negare l’umanità della donna come portatrice della vita; le
milizie sia governative che ribelli, oltre a saccheggiare e
distruggere paesi, villaggi e città che trovano sul loro cammino, si
lasciavano alle spalle numerose e devastanti violenze sessuali
compiute su donne e bambine.
In
Congo furono documentati più di 500 stupri nell’agosto del 2010,
conclusi con una semplice richiesta di scuse da parte di Atul Khare,
il funzionario dell’Onu che fallì nel tentativo di proteggere la
popolazione dalle brutalità messe in atto dai soldati e
dall’esercito.
Il
governo congolese ha ben presente la situazione delle donne nel suo
Paese, è cosciente dei rischi che queste puntualmente incontrano
nella vita sociale e familiare ma, nonostante questo, non riesce a
creare un sistema di protezione adeguato per costituire una società
civile in cui ogni donna possa vivere senza paura. Un esempio su
tutti: la Repubblica del Congo, per una tassa non pagata, ha
bloccato i fondi del Panzi Hospital, ospedale sito a otto chilometri
dalla città di Bukavu. Il fondatore di tale struttura, Denis
Mukwege, è l’unico dottore congolese che aiuta le donne vittime di
stupri di guerra e per tale motivo risulta scomodo al governo. In
un’intervista del 2014 le sue parole colpirono molto la platea:
“Salviamo le donne il cui corpo è trasformato in campo di
battaglia. La violenza sessuale di gruppo è un atto pianificato di
guerra, per conquistare territorio”. Questo comportamento della
Repubblica del Congo rappresenta un segnale di totale disinteresse da
parte dello Stato che preferisce colpire un personaggio come il Dott.
Mukege piuttosto che cercare di capire e affrontare in modo deciso
quanto effettivamente sta accadendo.
A livello nazionale la situazione è, quindi, critica, gli stupratori operano nell’impunità totale; le donne che subiscono le violenze si trovano davanti membri delle forze dell’ordine che sono gli stessi perpetratori della violenza.
A
livello internazionale la situazione sembra migliore: la Commissione
Africana dei diritti umani e dei popoli, pur senza approfondire il
ragionamento giuridico, ha dichiarato lo stupro una forma di tortura
contraria a quanto disposto dall’art. 5 della Carta Africana dei
Diritti umani e dei popoli. Questo ci fa tirare un sospiro di
sollievo, se solo non sapessimo che, purtroppo, la “forza” e il
lavoro della Commissione è pressoché nullo all’interno del
continente africano.
La
Commissione non ha alcun potere per assicurare l’attuazione di
quanto da essa indicato, che rimane pertanto affidata alla buona fede
degli Stati. L’unica misura possibile è l’invio da parte della
Commissione di “richiami periodici” agli Stati responsabili di
violazioni di diritti riconosciuti nella Carta Africana dei Diritti
umani e dei popoli. L’evidente insufficienza di tali strumenti
procedurali ha spinto gli Stati africani a redigere un Protocollo ad
hoc alla Carta africana, adottato a Ouagadougou (Burkina Faso) nel
giugno 1998 ed entrato in vigore il 25 gennaio 2004. Gli Stati che
hanno ratificato il Protocollo per l’istituzione della Corte
africana dei Diritti umani e dei popoli ad oggi (maggio 2015) sono
27. La mole di lavoro di tale istituzione, in questi primi anni di
operato, risulta minima e quasi nessuno degli Stati africani
riconosce realmente l’importanza e il potere degli atti da essa
emanati.
Come
si può desumere da questa sintetica ricostruzione, il Congo, come la
maggior parte degli Stati africani, vede da sempre fianco a fianco i
problemi derivanti da una legislazione interna inesistente e una
legislazione internazionale che non è in grado di reagire per
sconfiggere i reali problemi dell’Africa.