mercoledì 27 novembre 2013

Documentare la realtà: con immagini e parole


Alberto Giuliani, a poco più di 30 anni , è un fotografo già affermato, con sedici anni di professione, pubblicazioni e riconoscimenti internazionali.
I suoi reportage hanno raccontato la crisi economica e la desolazione dell’Argentina; gli orrori dei conflitti in Afghanistan e nei Paesi della ex Jugoslavia; hanno denunciato le sterilizzazioni forzate in Perù e sono state utilizzate dal Tribunale Internazionale come una delle prove per accusare di violazione dei diritti umani il regime di Alberto Fujimori. E non solo: Alberto Giuliani ha raccontato le mafie, con le sue immagini (“Malacarne – Vivere con la mafia”) e con uno spettacolo teatrale, preparato e scritto insieme a Roberto Saviano.
E' uno dei soci fondatori di Luz Photo: tutto è cominciato tre anni fa, al momento della chiusura di Grazia Neri, agenzia che ha fatto la storia della fotografia italiana, per la quale il fotoreporter ha lavorato quindici anni. Ma oggi Alberto ha avuto un'altra idea interessante: usare la fotografia come narrazione di storie. E' diventato, quindi, uno “storyteller”, un cantastorie contemporaneo e ha voluto condividere le storie che scopre, che raccoglie, che ascolta con i lettori del sito
www.albertogiuliani.com, un lavoro che viene così presentato: “Ci sono fotografie che non ho mai fatto. Perchè difronte all'urgenza della vita non esiste altro che la nuda condizione umana. In quei momenti, la parola unita all' immagine, è stata la scelta più dignitosa che io abbia trovato per raccontare. Nell'umana fantasia di sopravvivere alla vita”. Un lavoro nato anche perchè, ci ha detto: “ I giornali italiani sono, ogni volta, meno attenti alle storie che trattano argomenti che hanno a che fare con il sociale. Va preso, da un lato, come un vero e proprio allarme, dall’altro come un’opportunità perché sono certo che rimangano argomenti di interesse collettivo”.

Di seguito troverete una parte dell'incontro con il fotografo, che abbiamo registrato per voi durante la manifestazione “Canon light experience”.

VI PROPONIAMO LA STORIA di Giulia Tamayo, tratta da Storyteller
Ringraziamo di cuore Alberto Giuliani per averci fatto questo regalo.

Giulia Tamayo, a life for justice

21 settembre 2013
Il telefono squillò una tarda notte di novembre. “Ce l’hai ancora le fotografie che avevi fatto in Perù? Tirale fuori, perché questa volta diciamo la verità”. Era la voce di Giulia Tamayo al telefono, piena come sempre di entusiasmo.
L’ultima volta che l’avevo incontrata, era a Madrid alcuni anni fa, quando quel foulard colorato a coprire il capo e la chemioterapia, la faceva sembrare un pirata. Anche in quei mesi cupi della sua vita, non si è mai arrestata nella guerra alle ingiustizie del mondo. Con i suoi modi diretti, la voce sempre dolce, quel fuoco interminabile di amore per gli altri, Giulia ora mi raccontava che il Governo Peruviano di Humala ha deciso di riaprire il caso delle sterilizzazioni forzate. “Ora, finalmente, possiamo dire la verità perché sia resa giustizia” mi disse.
Penso sia oltremodo presuntuoso credere che la fotografia possa cambiare il mondo. Ma almeno in questa storia ha sicuramente contributo a migliorarlo. Tra il 1995 e il 2000 in Perù, il Governo Fujimori sterilizzò con la forza, e nel silenzio, quasi un milione e mezzo di donne. Solo una voce si alzò contro questo crimine e fu quella dell’avvocato del popolo Giulia Tamayo, dal suo piccolo ufficio di Lima. Cercarono di abbatterla in tutti i modi, con qualsiasi violenza, attentato, meschinità. E forse ci sarebbero anche riusciti, se in qualche giornalista straniero non si fosse risvegliato il senso etico. Io fui il primo a chiamare Giulia, dopo aver letto un piccolo trafiletto sul quotidiano Spagnolo El Pais. “Vieni a vedere con i tuoi occhi” mi disse, e mi accolse in casa, con un sentito benvenuto, per più di un mese. La seguii in una lotta che sembrava a tutti senza speranza. Ma il profondo senso di giustizia di quella donna e le sue capacità professionali, riuscirono a inchiodare il Presidente Alberto Fujimori davanti al tribunale internazionale per i diritti umani. E sul tavolo delle Nazioni Unite, insieme alle migliaia di pagine di testimonianze raccolte negli anni da Giulia, c’erano anche le mie fotografie pubblicate sui giornali di mezza Europa. 
© Alberto Giuliani




Non aver abbassato la testa, l’abitudine alla verità e alla libertà, le costò l’esilio. Scappò dal Perù una mattina di maggio del 2000, mentre il governo di Fujimori sferrava l’ultimo feroce colpo di coda sul suo popolo. L’ambasciata spagnola chiamò Giulia offrendole asilo, e pregandola di andarsene immediatamente, senza neppure prendere niente da casa. Così ce ne andammo anche noi da Lima, un paio di anni prima, io e alcuni colleghi della televisione portoghese SIC. La casa di Giulia, nella quale ero ospite, era circondata dai servizi segreti e tutto faceva pensare che presto avrebbero sequestrato a me e alla troupe televisiva il materiale raccolto, con non si sa quali metodi. Fu Giulia, data la situazione, a consigliarci di chiamare le nostre ambasciate e di farci accompagnare subito fuori dal Paese.
Oggi Giulia ha 53 anni, vive a Madrid con i suoi figli e con il marito Chema. O come dice lei, il suo complice. Cita spesso Gandhi e sorride sempre. Sottovoce dice che il suo paese è l’umanità, ma vorrebbe poter dire un Perù libero. Esulta per il movimento degli indignados e del 15M, “perché da tutta la vita aspettavo un movimento popolare veramente democratico”. Facebook e Twitter sono diventati i suoi strumenti di indagine, alla guida straordinaria delle equipe investigative di Amnesty International.
Se la gente crede che può fare cose magiche, farà cose magiche. Abbiamo riempito librerie di testi sulla libertà e sulla giustizia, ma la fratellanza è qualcosa che si può solo provare. Il mio merito è solo quello di contagiare l’illusione che sia possibile. E investigare. Sono le uniche cose che so fare”.
Da quando ha lasciato il Perù ha vinto molte battaglie in Spagna, in Europa e nel mondo. Ha ricevuto la prima chiamata di Tony Miller che grazie a lei, dopo 20 anni, usciva vivo dal braccio della morte Texano. “Buongiorno Giulia, anche se non ti conosco volevo dirti che ringraziavo il cielo ogni volta che in questi anni ho sentito pronunciare il tuo nome”.
© Alberto Giuliani

Nonostante tutto però, Giulia non si da pace perché i colpevoli delle sterilizzazioni non sono mai stati puniti. Il precedente governo ha addirittura tentato di prescrivere il reato definendolo un “disservizio” del sistema sanitario. Quando le parole più giuste sarebbero crimine di lesa umanità, genocidio, crimini di guerra.
Giustizia e verità le deve a se stessa, a tutte le donne che con lei hanno lottato, e le deve soprattutto alla sua amica Maria Elena Moyano, che alla libertà ha dato la vita.
Nei suoi primi anni di attivismo, quando il Paese era martoriato dalla guerra terrorista di Sendero Luminoso, Giulia divenne amica e legale di Maria Elena, la principale leader popolare del Perù.

Era il febbraio del 1992, quando i Senderisti imponevano alle comunità Andine il coprifuoco. Maria Elena, quella stessa notte, uscì con altre donne per le strade deserte di Ayacucho, cantando “el miedo se acabò”; la paura è finita. La sera successiva, era il 14 febbraio, una edizione straordinaria del telegiornale annunciava l’assassinio di Maria Elena Moyano. Fatta saltare in aria con la dinamite davanti ai suoi figli.
© Alberto Giuliani

Il terrore avvolgeva ogni uomo e ogni cosa, al punto che nessuno ebbe il coraggio di rendere omaggio al corpo di quella donna straordinaria. Sola, Giulia, si aggirava nel silenzio gelido dell’obitorio firmando per il riconoscimento di ciò che restava della sua amica. In un angolo, una donna con un bambino al seno. Una compañera coraggiosa pensò Giulia. Le si avvicinò e l’abbracciò con affetto. La donna le disse: “cagna femminista, ti ammazzeremo”. Il 20 febbraio spararono a Giulia, riuscendo però, solo a gambizzarla.
Giulia non ha mai dimenticato l’amicizia e il coraggio di Maria Elena, e la porta nel cuore ancora oggi, quando col marito Chema intorno al tavolo della loro casa nella periferia di Madrid, suona la chitarra e canta che “la verità non è mai triste, è solo che non ha rimedio”, stringendo forte gli occhi per non piangere, di nostalgia e d’amore.
Giulia era diventata l’avvocato di tutte le donne del Perù, denunciando senza paura qualsiasi violenza, di mariti, padri, generali o presidenti. Quando nel 1992 l’arrivo di Alberto Fujimori, segnò la fine delle stragi Senderiste, e si contavano le 69.280 vittime civili, la sensibilità di Giulia intuì che la guerra non era affatto conclusa, ma si erano solo spostati gli equilibri. E oggi la verità le da ragione.

L’incremento demografico globale, e le possibili conseguenze Malthusiane, portarono i governi di tutto il mondo a confrontarsi su questi temi. Un’esponente dell’ONU a dichiarò che “l’utero può essere più pericoloso della bomba atomica”. Quando nel 1995 a Pechino, alla Conferenza Mondiale delle Donne organizzata dalle Nazioni Unite, Alberto Fujimori tenne il suo discorso, venne accolto trionfalmente da tutti. Solo Giulia, seduta in prima fila, rabbrividì al vederlo sul palco, con in mano un mazzo di fiori offerto simbolicamente a tutte le donne. Fujimori era l’unico capo di stato uomo a prendere la parola durante la conferenza, e con orgoglio proclamava l’impegno del Perù nella lotta alla povertà e all’uguaglianza sociale lanciando una “strategia integrale di pianificazione familiare, che per la prima volta nella storia del Perù affronterà definitivamente la carenza di informazione e servizi, perché le donne dispongano con autonomia e libertà della propria vita”.
Il risultato di quella promessa fatta al mondo, fu quel milione e mezzo di donne sterilizzate contro la loro volontà, e tra queste un numero imprecisato di vittime per le gravi carenze sanitarie e igieniche nelle quali gli interventi chirurgici venivano condotti.
Il primo allarme arrivò a Giulia nel 1996 dalle sue amate comunità andine. Fu Ilaria, giovane leader femminista di Cuzco che le disse con vergogna “vengono i medici e se le portano, ci stanno facendo danno”. Poche settimane dopo Giulia raggiunge Ilaria nella piccola cittadina di Huancabamba, e comprende tutto. Il Governo aveva organizzato dei veri e propri festival. Cosi li chiamavano, portavano giochi, cibo, la banda e il grande striscione con scritto “Festival della legatura delle tube”.
Poi un domani si possono slegare” dicevano i medici alle donne. Ma la scelta era obbligatoria per tutte. Nelle comunità più reticenti arrivava l’esercito, a bordo dei pesanti camion della fanteria. Montavano una tenda e rastrellavano le donne. Giovanissime, minorenni, madri, o appena sposate. Non faceva differenza. Non c’erano sconti per nessuno.
Grazie a un coraggioso passaparola clandestino, Giulia fu portata in ogni villaggio, città, comunità. Presto iniziarono a testimoniare anche medici e infermieri, uomini che non volevano essere complici di quel delitto. Giulia registrava, fotografava, intervistava. Piangeva, perché il 90% delle donne che incontrava aveva subito quell’atroce e disumana violenza.
Più Giulia indagava, più la morsa intorno alla sua vita si stringeva. Minacce, furti, violenze a lei e alle donne sue compagne. La casa distrutta. I telefoni sotto controllo. Mai dimenticherà il macabro sorriso dei militari, che stazionando davanti a casa sua giorno e notte, la seguivano con lo sguardo, quelle rare volte che trovava il tempo di uscire col piccolo figlio Sebastian per mano.
Grazie alla stampa internazionale, alle sue denunce alle Nazioni Unite, alla sua lucida strategia, Amnesty International lanciò un’azione internazionale urgente per proteggerla.
Fu per questa ragione che non mi fecero fuori” dice oggi Giulia con gratitudine. “Fu grazie all’attenzione che voi stranieri mi avevate dato”. L’8 marzo di quello stesso anno 2000 Amnesty International la invita a New York per ricevere il premio Ginetta Sagan, per lo straordinario lavoro compiuto nel rischio della propria vita.
Giulia approfittò di quell’occasione e portò con se anche i figli, per poi farli rifugiare in Spagna. Giulia e Chema invece, tornarono nella loro amata Lima, sconvolta da violente repressioni in quei giorni di elezioni. In quel clima insostenibile, le minacce per la loro vita gli sembrarono finali, e dovettero accettare anche loro la fuga. “Vengo da voi, ci riuniamo. E vi prometto che staremo insieme per sempre” disse Giulia ai figli, chiamandoli da una cabina telefonica dell’aeroporto.
Oggi, dodici anni dopo quel massacro, è diventata realtà ciò che Giulia aveva intuito e che allora non poteva essere detto di fronte all’urgenza di salvare vite umane. Oggi, con intere città senza bambini e senza più scuole, è chiara la volontà di voler sterminare un popolo. E se riportiamo su una mappa anche solo i 325.000 casi raccolti analiticamente nelle inchieste di Giulia, scopriamo che disegnano perfettamente le aree di forza del Senderismo, che coincidono con le aree ricche di materie prime, e con le rotte del narcotraffico. La “pianificazione familiare” del Governo Fujimori, altro non era che un piano strategico militare per favorire interessi personali, governativi e di guerra.
Ora Giulia è lontana dalla sua terra, lontana dal poter indicare la giusta via a chi sta riaprendo il caso, ma guarda a questa opportunità con la luce dei giusti nei suoi occhi. Si confronta tutti i giorni con le sue compañeras tra Lima e le Ande, gli dice che si deve e che si può, perché “quando tutta l’umanità si fa carico dell’accaduto, della dignità umana, anche la morte si arrende. O per lo meno, si emoziona.” In fondo questa è l’unica cosa che Giulia sa fare.


Aggiungiamo anche una parte dell'incontro a cui l'Associazione per i Diritti Umani ha partecipato, organizzato dalla Canon a Milano nei giorni scorsi e al quale è stato invitato il fotografo, come relatore.