venerdì 8 novembre 2013

La gabbia dorata: al cinema per riflettere ancora sul tema delle migrazioni



E' uscito nelle sale italiane ieri, 7 novembre, un film utile e interessante: La gabbia dorata che, attraverso il codice linguistico dell'arte cinematografica, approfondisce e fa riflettere su uno dei temi di maggiore attualità sociale e politica, quello delle migrazioni.
Abbiamo deciso di pubblicare per voi la recensione di Luca Scarafile, in collaborazione con Cinequanon.it.



La jaula de oro (La gabbia dorata), nelle sale italiane dal 7 novembre, non è certo un film che è stato trascurato dalla critica. A testimoniarlo ci sono il Grifone d’oro al Giffoni Film Festival, il prestigioso A certain talent prize a Cannes, infine la recente consacrazione, in data 6 ottobre 2013, con il trionfo al nono Festival di Zurigo. Riconoscimento quest’ultimo che, mai come questa volta, ci colpisce come un pugno nello stomaco, portando con sé il sorriso amaro e beffardo del destino. Già, perché arriva mentre il 3 ottobre 2013 sta passando alla storia come il giorno della strage di Lampedusa, perché il primo lungometraggio del regista spagnolo Diego Quemada-Diez è e vuole essere innanzitutto proprio un film sull’emigrazione.
Così, mentre increduli nella nostra impotenza stiamo contando i corpi esanimi di chi scorgeva nel Vecchio continente la Terra promessa, di chi sperava e che, per quello stesso sperare, ha dovuto arrendersi alla morte, il cinema, pur senza saperlo, ci offre un commento della tragedia meno retorico e superficiale delle parole di tanti opinionisti che riempiono televisioni e giornali. Poco conta che siano gli Stati Uniti l’Atlantide di una felicità mai vissuta, che le terre della disperazione siano il Guatemala o il Messico e non l’Eritrea o la Siria, perché in ogni dove e in ogni quando sono la stessa voglia di riscatto, la stesso mito dell’altrove, la stessa miseria a spingere fiumi di uomini in un’impresa che per i più non troverà alcuna redenzione.
Ecco allora la storia di Juan, Sara e Samuel, tre giovanissimi guatemalchi che decidono di imbattersi in un viaggio verso gli Stati Uniti, terra dell’abbondanza e del capitalismo più scintillante. Di questo viaggio non sanno nulla, ma del resto nulla hanno da perdere. A loro ben presto si aggiungerà Chauk, un indio del Chiapas che non parla una parola di spagnolo e le cui azioni aderiscono a una logica primordiale, quella del cuore e del sentimento, che i suoi compagni dovranno faticosamente imparare a decifrare.
È un intreccio semplice e lineare quello scelto da Quemada-Diez, narrato attraverso una regia che talvolta assume intenzionalmente una piega documentaristica, ma che riesce ad indagare a fondo quel cumulo di insidie, speranze e illusioni che costituisce il fardello di ogni migrante. Sui tetti dei treni merci in cui clandestinamente si tenta di accorciare la traversata, tra la violenza dei delinquenti pronti ad approfittare di chi non è protetto da nessuno, di fronte ai cecchini statunitensi che attendono gli stranieri al confine, questo viaggio
on the road si tramuta così in un vero e proprio romanzo di formazione, un viaggio in cui non tutti possono farcela e nel quale, anche chi ce la fa, sembra non trovare il riscatto di cui era in cerca .
Ciò che si conquista attraverso lo sguardo di questi cinque adolescenti è allora soltanto il disincanto, impressione crudele quanto realistica, a cui lo spettatore è educato dall’uso sapiente della recitazione di attori non professionisti, uso nel quale Quemada-Diez dimostra di aver ben recepito la lezione di Ken Loach con il quale ha collaborato.
A mancare non è nemmeno il richiamo metaforico, mai eccessivo o criptico, delle immagini. C’è innanzitutto la neve, la neve che irrompe, quantomai inaspettata, nei momenti cruciali del film: cade lenta e senza sosta in alcune inquadrature fisse facendo da contrappunto a questo viaggio disperato, come un destino dal significato velato fa da contrappunto, spesso ironico e maligno, alle nostre aspettative, ma è anche la neve che si fa bufera nell’ultima sequenza del film, quasi che quel significato incerto si sia infine rivelato nella sua tragicità. C’è poi l’enorme macello californiano in cui Juan, l’unico superstite di questa tormentata ascesa, finisce a lavorare: quasi a chiedere allo spettatore se la storia, come voleva qualche filosofo, non sia altro per noi singoli individui che un “banco da macellaio”.
C’è infine quel treno che corre sempre su una linea retta e che è lì, nelle intenzioni dichiarate del regista, a incarnare la fede incrollabile nel progresso, in quel grande racconto
metafisico che fa dell’Occidente, per chi almeno ha provato a sperare, la meta ammaliante e sempre ambita del benessere. Ma del resto senza una fede, che sia in un etereo aldilà ultraterreno o in un aldiquà finalmente redento da una felicità per tutti allo stesso modo, forse non si può vivere. Come evoca il canto che chiosa una delle ultime sequenze del film: “Ho perso la fede, è necessario trovarla”.