E'
uscito nelle sale italiane ieri, 7 novembre, un film utile e
interessante: La gabbia
dorata che,
attraverso il codice linguistico dell'arte cinematografica,
approfondisce e fa riflettere su uno dei temi di maggiore attualità
sociale e politica, quello delle migrazioni.
Abbiamo
deciso di pubblicare per voi la recensione di Luca Scarafile, in
collaborazione con Cinequanon.it.
La jaula de oro
(La gabbia dorata),
nelle sale italiane dal 7 novembre, non è certo un film che è stato
trascurato dalla critica. A testimoniarlo ci sono il Grifone d’oro
al Giffoni Film Festival, il prestigioso A
certain talent prize a
Cannes, infine la recente consacrazione, in data 6 ottobre 2013, con
il trionfo al nono Festival di Zurigo. Riconoscimento quest’ultimo
che, mai come questa volta, ci colpisce come un pugno nello stomaco,
portando con sé il sorriso amaro e beffardo del destino. Già,
perché arriva mentre il 3 ottobre 2013 sta passando alla storia come
il giorno della strage di
Lampedusa, perché il primo
lungometraggio del regista spagnolo Diego
Quemada-Diez è e
vuole essere innanzitutto proprio un film sull’emigrazione.
Così,
mentre increduli nella nostra impotenza stiamo contando i corpi
esanimi di chi scorgeva nel Vecchio continente la Terra promessa, di
chi sperava e che, per quello stesso sperare, ha dovuto arrendersi
alla morte, il cinema, pur senza saperlo, ci offre un commento della
tragedia meno retorico e superficiale delle parole di tanti
opinionisti che riempiono televisioni e giornali. Poco conta che
siano gli Stati Uniti l’Atlantide di una felicità mai vissuta, che
le terre della disperazione siano il Guatemala o il Messico e non
l’Eritrea o la Siria, perché in ogni dove e in ogni quando sono la
stessa voglia di riscatto, la stesso mito dell’altrove,
la stessa miseria a spingere fiumi di uomini in un’impresa che per
i più non troverà alcuna redenzione.Ecco allora la storia di Juan, Sara e Samuel, tre giovanissimi guatemalchi che decidono di imbattersi in un viaggio verso gli Stati Uniti, terra dell’abbondanza e del capitalismo più scintillante. Di questo viaggio non sanno nulla, ma del resto nulla hanno da perdere. A loro ben presto si aggiungerà Chauk, un indio del Chiapas che non parla una parola di spagnolo e le cui azioni aderiscono a una logica primordiale, quella del cuore e del sentimento, che i suoi compagni dovranno faticosamente imparare a decifrare.
È un intreccio semplice e lineare quello scelto da Quemada-Diez, narrato attraverso una regia che talvolta assume intenzionalmente una piega documentaristica, ma che riesce ad indagare a fondo quel cumulo di insidie, speranze e illusioni che costituisce il fardello di ogni migrante. Sui tetti dei treni merci in cui clandestinamente si tenta di accorciare la traversata, tra la violenza dei delinquenti pronti ad approfittare di chi non è protetto da nessuno, di fronte ai cecchini statunitensi che attendono gli stranieri al confine, questo viaggio on the road si tramuta così in un vero e proprio romanzo di formazione, un viaggio in cui non tutti possono farcela e nel quale, anche chi ce la fa, sembra non trovare il riscatto di cui era in cerca .
Ciò che si conquista attraverso lo sguardo di questi cinque adolescenti è allora soltanto il disincanto, impressione crudele quanto realistica, a cui lo spettatore è educato dall’uso sapiente della recitazione di attori non professionisti, uso nel quale Quemada-Diez dimostra di aver ben recepito la lezione di Ken Loach con il quale ha collaborato.
A mancare non è nemmeno il richiamo metaforico, mai eccessivo o criptico, delle immagini. C’è innanzitutto la neve, la neve che irrompe, quantomai inaspettata, nei momenti cruciali del film: cade lenta e senza sosta in alcune inquadrature fisse facendo da contrappunto a questo viaggio disperato, come un destino dal significato velato fa da contrappunto, spesso ironico e maligno, alle nostre aspettative, ma è anche la neve che si fa bufera nell’ultima sequenza del film, quasi che quel significato incerto si sia infine rivelato nella sua tragicità. C’è poi l’enorme macello californiano in cui Juan, l’unico superstite di questa tormentata ascesa, finisce a lavorare: quasi a chiedere allo spettatore se la storia, come voleva qualche filosofo, non sia altro per noi singoli individui che un “banco da macellaio”.
C’è infine quel treno che corre sempre su una linea retta e che è lì, nelle intenzioni dichiarate del regista, a incarnare la fede incrollabile nel progresso, in quel grande racconto metafisico che fa dell’Occidente, per chi almeno ha provato a sperare, la meta ammaliante e sempre ambita del benessere. Ma del resto senza una fede, che sia in un etereo aldilà ultraterreno o in un aldiquà finalmente redento da una felicità per tutti allo stesso modo, forse non si può vivere. Come evoca il canto che chiosa una delle ultime sequenze del film: “Ho perso la fede, è necessario trovarla”.