Abbiamo
intervistato per voi il giornalista reporter Gabriele Del Grande, da
poco rientrato dalla Siria, che ci aiuta a capire una situazione
complessa e ad approfondire temi poco considerati dalla stampa
italiana.
In
che periodo sei stato in Siria e per quanto tempo?
Dovrei
prima specificare in quale Siria. Perché ne esistono almeno tre
tipi. C’è una Siria in mano al regime, una Siria in mano alle
forze armate dell’opposizione, e una in mano alle milizie di Al
Qaeda. Io ho visitato la seconda. Sono entrato dalla frontiera turca
di Kilis e ho trascorso dieci giorni consecutivi ad Aleppo, nel
Settembre 2013. Questo è stato il mio quinto ingresso in Siria
nell’ultimo anno. Anche le precedenti volte avevo visitato le
regioni del nord in mano all’opposizione, sia nella provincia di
Aleppo che nella provincia di Idlib.
Qual
è la prima cosa da dire nel raccontare la Siria oggi?
Il primo
pensiero va alle condizioni davvero drammatiche in cui sono ridotti a
vivere i civili. Il secondo pensiero va al progressivo aggravarsi
della situazione sul terreno. Le formazioni islamiste più vicine ad
Al Qaeda infatti, notoriamente lo Stato Islamico in Iraq e nel
Levante (Isil), hanno dichiarato guerra alle forze moderate
dell’Esercito siriano libero nonché alle milizie curde del Pyd, il
ramo siriano del Pkk di Ocalan. Il risultato è un clima di guerra
civile nel nord, dove il regime è soltanto uno dei nemici, uno dei
signori della guerra... Ovviamente il regime è il principale
beneficiario di questo fronte interno all’opposizione. E infatti ne
sta uscendo rafforzato militarmente, oltre che riabilitato a livello
internazionale per aver rispettato l’accordo voluto dai russi sulla
distruzione delle armi chimiche. L’opposizione invece ha perso ogni
credibilità a livello internazionale, è sempre più divisa e non
riesce di fatto a controllare le forze armate sul terreno. Non solo,
lo stallo internazionale ha di fatto ridotto in minoranza le forze
democratiche dell’Esercito libero, che oggi non sono nemmeno più
in grado di evitare episodi efferati come i massacri settari compiuti
dalle milizie islamiste lo scorso agosto nei villaggi alawiti della
regione costiera, come denunciato da Human Rights Watch.
In
che condizioni vivono le persone che sono rimaste nel Paese?
Aleppo è
una città sottoposta a bombardamenti aerei da più di un anno. Ogni
giorno muoiono civili sotto il fuoco dei cecchini e dell’artiglieria.
E la gente rimasta convive con questa situazione. Si sono abituati
all’idea di poter morire in qualsiasi momento. La morte è
diventato quanto di più banale si possa immaginare. Ciononostante la
vita va avanti, è più forte di tutto, ci si sposa, si fanno figli,
si aprono le scuole… come ho provato a raccontare nei miei diari da
Aleppo.
Si
può parlare, secondo te, di “laicità” in relazione alla
rivoluzione siriana?
Sicuramente
l’insurrezione siriana è stata un fenomeno popolare, spontaneo, di
massa, apartitico e areligioso e soprattutto nonviolento, nei primi
sei mesi di manifestazioni, dal marzo all’agosto del 2011. In
piazza c’erano sunniti e cristiani, alawiti e druzi, arabi e curdi…
E le rivendicazioni erano politiche, le parole dette afferivano al
vocabolario della giustizia, della lotta, non ai libri sacri. Con la
guerra ovviamente molte cose sono cambiate. E di quel movimento
civile non restano che le ceneri. Ormai parlano le armi e dicono le
parole dei loro finanziatori, che sono prima di tutto le
petromonarchie del Golfo. Voglio dire che le principali forze
dell’Esercito libero hanno un’agenda islamista, seppure moderata.
Voglio dire che la guerra è sempre più una guerra settaria. Voglio
dire che la presenza di Al Qaeda è ormai fuori controllo e si è
rivolta contro le stesse forze islamiste moderate dell’Esercito
libero.
Puoi
farci un'analisi della questione migratoria alla luce degli ultimi
naufragi e dell'arrivo dei profughi siriani in Italia?
Qualche
cifra può aiutare a capire. A fronte di una popolazione di 23
milioni di abitanti, si calcola che in Siria siano fuggiti dalle loro
case 7 milioni di persone tra sfollati interni (5milioni) e rifugiati
(2milioni) registrati dalle Nazioni Unite nei campi profughi lungo il
confine nei paesi limitrofi. Da un anno, siriani e palestinesi
siriani hanno iniziato ad imbarcarsi per l’Italia, sulle vecchie
rotte del contrabbando libico ed egiziano. Dal nostro paese poi,
nella maggior parte dei casi, il loro viaggio continua verso i paesi
del nord Europa o in Germania. Da gennaio ne sono arrivati 8.500.
Possono sembrare tanti a chi va dicendo che l’Italia non può farsi
carico dei mali del mondo. Ma in verità, sono poco più dello 0,1%,
uno su mille, rispetto a quei 7 milioni di siriani fuggiti dalle loro
case dall’inizio della guerra. Accoglierli dignitosamente sarebbe
il minimo che l’Europa potrebbe fare, visto lo stallo totale
dell’azione diplomatica dell’UE nel tentare di risolvere la
guerra siriana.
Qual il
ricordo per te più importante di questa esperienza?
Il
ricordo più bello, come in ogni viaggio, sono i legami che restano.
Sono i ragazzi del comitato civile di Ashrafiya, ad Aleppo, con i
quali ho viaggiato. Li sento spesso su facebook. E questo dà il
polso del giornalismo ai tempi dei social network, nel senso che
scrivi le storie di amici che poi le leggono in tempo reale su google
translate. È grazie a loro se ho fatto un viaggio in mezzo ai
civili, senza essere embedded con nessuno esercito. Nessuno di loro
era armato, perché credono nella nonviolenza, e hanno mantenuto il
loro spirito critico. Sanno che il paese è andato, sanno di avere
perso. Eppure, con la determinazione che è soltanto dei visionari e
dei folli, hanno deciso di restare. Al rischio di morire per la
propria gente, sapendo che la storia forse già domani li tradirà,
ma che prima o poi la notte avrà fine, e arriverà la luce del
giorno e si scriverà di loro che erano nel giusto.