Il seguente saggio è di Simone Brioni - ed è già apparso su www.wumingfoudation/giap - e ringraziamo molto l'autore per averci dato il permesso di pubblicarlo anche per voi.
Simone
Brioni è Visiting Fellow presso l’institute of Germanic and
Romance Studies, Univeristy of London. Si occupa della
rappresentazione letteraria e cinematografica del colonialismo e
delle migrazioni in Italia.
Regia,
sceneggiatura e montaggio: Simone
Brioni. Soggetto:
Fabio Camilletti. Correzione colore: Jennifer Burns, Fabio
Camilletti e Giulio Giusti. Assistente al montaggio: James Graham
Ballard. Fotografia: Ermanno Guida. Suono: Katherine Louise Clyne.
Assistenti di post-produzione: Lidia Mangiavini e Cecilia Brioni.
Produzione: Wu Ming 2 e Institute of Advanced Studies, University of
Warwick.
Scena 1
Una fotografia,
scattata in Etiopia negli anni Trenta, tenuta in una mano. Ritrae
alcune donne che salutano romanamente la camera. I loro volti non si
distinguono con precisione, ma è certo che hanno la pelle nera.
Nell’altra mano il telecomando. Premo il tasto ‘play’ del
lettore DVD. Apocalypse
Now. Menù. Seleziona
scena. Play. Marlon Brando, in chiaroscuro. Parla sottovoce, con la
voce spezzata. “L’orrore. L’orrore”.
Come il saggio The
Gothic, Postcolonialism
and Otherness: Ghosts from Elsewhere
di Tabish Khair dimostra brillantemente, buona parte
dell’immaginario gotico della letteratura occidentale è abbinato,
sin dalle origini, alle colonie e ai loro abitanti. I mostri avevano
una pelle diversa e provenivano da posti sconosciuti e ostili.
Questa rappresentazione serviva a “giustificare” la conquista di
mezzo mondo da parte delle potenze occidentali, con la scusa di
civilizzare i barbari, di redimerli dalla loro condizione di mostri
per restituirli al genere umano. In altri termini, potremmo dire che
l’orrore di cui Kurtz parla al termine di Cuore
di tenebra di Joseph
Conrad, non si riferisce solamente alle atrocità del colonialismo
occidentale in Africa, ma evoca un intero immaginario, costruito
sulla paura di un’alterità minacciosa, che ha caratterizzato la
conquista europea del resto del mondo e la cui eredità è ancora
percepibile. Questo aspetto lo esprime bene Frantz Fanon nelle prime
pagine de I dannati della
terra, quando afferma che
non è tanto la dominazione e lo sfruttamento dei colonizzatori,
quanto l’interiorizzazione di stereotipi discriminatori a rendere
i colonizzati simili a zombi.
Scena 2
Si sente
l’Internazionale
in sottofondo. Gli zombi
sono tanti, hanno fame. Vederli tutti insieme fa pensare a Il
quarto stato di Pellizza
da Volpedo, se non
fosse per la loro pelle scura. Ma non siamo in Italia, siamo ad
Haiti. Fa parte delle convenzioni del genere.
Il riferimento di
Fanon agli zombi
merita di essere approfondito. Nella tradizione cinematografica gli
zombi
sono, com’è noto, cadaveri che resuscitano, hanno poteri
soprannaturali e un’attitudine ostile nei confronti dei vivi.
Hanno fame, non parlano, si muovono in massa, e come ne La
lunga notte dell’orrore di
John Gilling (1966) si rivoltano contro un padrone malvagio. Non è
quindi un caso che spesso essi siano stati identificati con la
classe operaia.
Ma per capire come
mai Fanon si riferisca agli zombi
per parlare dei soggetti colonizzati, occorre risalire alle origini
haitiane di questo mostro, riferendosi al primo film del genere:
Zombi
bianco
di Victor Halperin (1932). Perchè gli zombi
in questo film risorgono proprio su quest’isola caraibica? Una
prima risposta a questa domanda è certamente che Haiti fu
destinazione della tratta degli schiavi africani verso il nuovo
continente. Le carni scure degli zombi
e il loro incedere lento, non possono che ricordare la condizione di
questi schiavi. Una seconda risposta, è legata alle relazioni
coloniali tra Haiti e gli Stati Uniti, protrattesi dal 1915 al 1934.
Zombi
bianco
fa irrompere ad Hollywood mostri che provengono da Haiti, dà voce
alla paura che i colonizzati si possano ribellare contro i
colonizzatori statunitensi.
Scena 3
Walking Dead.
Serie 1. Episodio 1. Siamo negli Stati Uniti. Arriva uno sceriffo a
cavallo in città. Potrebbe essere un film western. Ma non lo è. Lo
sceriffo viene attaccato dagli zombi.
Si rifugia all’interno di un carro armato. Sembra non avere
scampo. Poi viene salvato da un ragazzo asiatico, che assomiglia a
Data dei Goonies.
La paura che i
colonizzati si ribellino contro i colonizzatori è rintracciabile a
tutt’oggi nel genere statunitense dello zombi
movie.
L’esempio più recente è forse il primo episodio della prima
serie di Walking Dead di
Frank Darabont. Dopo essersi risvegliato dal coma ed aver scoperto
che è esplosa una misteriosa epidemia negli Stati Uniti, lo
sceriffo Rick Grimes si muove verso Atlanta a cavallo a in cerca
della sua famiglia. Una volta raggiunta la città Rick viene
attaccato da un nugolo di zombi,
che lo costringe a trovare rifugio in un carroarmato. Questa scena
unisce a mio parere due immagini strettamente legate all’immaginario
“coloniale” statunitense. In primo luogo, la cavalleria
utilizzata durante le guerre per la conquista del West contro gli
indiani-americani, che in questo caso non esce vittoriosa dal
confronto ma sconfitta. In secondo luogo, il carro armato assediato
dagli zombi
evoca le operazioni militari condotte dagli Stati Uniti in Iraq e in
Afghanistan. La rappresentazione degli zombi,
del resto, non differisce di molto dall’immagine dei musulmani
offerta dai media internazionali dopo l’undici settembre: una
torma di soggetti sub-umani, senza volto né voce, animati da
istinti violenti e irrazionali.
Questo non è il
solo riferimento alla “rivolta dei colonizzati” o alla
resurrezione del colonialismo nella serie. Nel quarto e nel quinto
episodio della seconda serie, Daryl Dixon evoca il massacro degli
indiani-americani prima che gli zombi
confinino gli umani all’interno di una vera e propria riserva. Nel
quinto episodio della seconda serie Shawn Green dice che i
bombardamenti dell’esercito americano su Atlanta per eliminare gli
zombi
ricordano le esplosioni di napalm in Vietnam.
Scena 4
Riassunto di Zombi
2.
Una nave arriva nel porto di New York. A bordo c’è uno zombi,
il cui arrivo propagherà l’apocalisse. Ma non lo sappiamo ancora.
Un giornalista, Peter West, e la figlia del proprietario della
barca, Anne Bowles, decidono – o meglio, lui decide, lei lo segue
– di investigare sul caso e ritrovare il padre della ragazza.
Vengono aiutati a raggiungere l’isola da due turisti statunitensi,
Brian e Susan. A Matul scoprono che i morti si rianimano e attaccano
i vivi. Un dottore, David Menard, cerca di fermare l’epidemia. Non
ci riesce, sua moglie Paula viene uccisa, e la situazione precipita
rapidamente. Non ci sono superstiti. New York è invasa dagli zombi.
Ricapitoliamo. Gli
zombi
si muovono da una periferia colonizzata verso un centro (spesso gli
Stati Uniti), sono neri, hanno fame, si muovono in gruppo, e
resuscitano la memoria di eventi violenti accaduti nel passato. Sono
esseri liminali, divisi tra la vita e la morte, tra il passato (un
passato coloniale, o comunque in cui la discriminazione razziale
sembra occupare un ruolo importante) e il presente. Queste sono, a
grandi linee e non senza generalizzazioni, alcune delle
caratteristiche del genere.
Seguendo queste
coordinate, proviamo ora ad analizzare un film italiano del 1979,
Zombi
2 di Lucio Fulci.
Questo film riporta in luce alcuni stereotipi legati alla
rappresentazione dell’altro come mostro che ha caratterizzato il
colonialismo occidentale. In primo luogo, gli zombi
hanno la pelle scura e provengono da un’isola caraibica chiamata
Matul, mentre i vivi sono bianchi, borghesi, statunitensi. Fulci
sottolinea le caratteristiche raccapriccianti degli zombi,
per esempio facendo soffermare la telecamera sui vermi che escono
dai loro corpi. In una scena significativa uno zombi
lotta contro uno squalo e lo uccide, mettendo in luce un’altra
caratteristica spesso associata ai colonizzati, vale a dire la loro
forza bruta, animalesca. In un’altra scena gli zombi
sono rappresentati come cannibali che banchettano sul corpo di un
personaggio femminile. Il riferimento al colonialismo è inoltre
evidente nell’attacco finale degli zombi,
quando i vivi si rifugiano in una chiesa missionaria, uno dei
simboli della colonizzazione occidentale del resto del mondo.
Sarebbe però
ingeneroso ridurre l’intero film alla rappresentazione dicotomica
tra zombi/colonizzati/neri
e vivi/bianchi. Per esempio, una delle vittime degli zombi,
Susan, è meticcia, e risorgono anche i corpi dei conquistadores nel
cimitero spagnolo. Il riferimento ad un immaginario coloniale va
inteso a mio parere in senso più ampio, come la paura di un passato
con cui non si è fatto i conti e che incombe sul presente.
Scena 5
Un soldato italiano
che stringe a sé una ragazza etiope, nuda. Voce di sottofondo.
Discorso di Benito Mussolini a Trieste il 19 Settembre 1938: “Nei
riguardi della politica interna il problema di scottante attualità
è quello razziale. È in relazione con la conquista dell’Impero,
poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le
armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una
chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle
differenze, ma delle superiorità nettissime.”
Alcuni riferimenti
al passato coloniale in Zombi
2
risultano più chiari in relazione alle leggi fasciste contro le
unioni interrazziali del 1937 e le leggi razziali del 1938, che
portarono, com’è ormai noto, all’apartheid tra bianchi e neri
nelle colonie. Per esempio, l’idea che i colonizzati siano
contagiosi, la si ritrova già in Tempo
di Uccidere di Ennio
Flaiano (1948), uno
dei pochi testi a denunciare i crimini italiani in Africa, benché
sia influenzato da una retorica e da un immaginario appartenenti ad
un periodo precedente. In questo romanzo è presente una donna
etiope, spesso descritta come più simile ad un animale che ad un
essere umano. Come Giovanna Tomasello nota in L’Africa
tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana
(2004), questa donna porta un turbante bianco, a significare il
fatto che fosse affetta da una malattia. La frequente
rappresentazione delle donne africane come contagiose è un lascito
delle politiche sulla purezza della razza promosse durante il
fascismo.
La paura delle
unioni interraziali è inoltre evidente in una scena del film, in
cui viene descritta l’aggressione di uno zombi
ad una donna bianca, Paula. La camera segue lo zombi
alle spalle, mentre guarda la donna, nuda sotto la doccia. Lo zombi
cerca quindi di entrare nel bagno e uccide Paula perforandole
l’occhio con un’enorme scheggia. La scena è una metafora non
troppo sottile di uno stupro ed evoca la minaccia sessuale dei
soggetti colonizzati e la paura delle unioni interraziali. Questa
paura è inoltre evidende nella causa della resurrezione degli
zombi,
i riti vudù, che il dottor Menard definisce come il risultato di
una mescolanza tra animismo e cristianesimo. Questi elementi
sembrano sottolineare un preciso sottotesto del film: la
combinazione tra culture e razze diverse può essere pericolosa,
perchè può distruggere l’ordine costituito.
Scena 6
Nemesi. L’Africa
nella letteratura coloniale è spesso identificata con una donna. La
penetrazione dell’occhio della donna in Zombi
2
rappresenta la vendetta dei colonizzati verso i loro antichi
padroni, che sono penetrati nella selvaggia Africa, possedendola.
Da dove nasce la
paura di Zombi
2?
Nasce dalla perdita di un privilegio che esiste nella società che
gli zombi
verrebbero a distruggere, per portare ad uno stato di caos
ulteriore. Un privilegio di genere, anzitutto. Le donne sono
rappresentate nel film come oggetto di uno sguardo voyeristico, o
come vittime di violenza. Anne segue le istruzioni di Peter ed è
“naturalmente” attratta da lui. Paula è schiaffeggiata
violentemente dal marito, che cerca di trovare una soluzione alla
resurrezione dei morti. Il ruolo delle donne nel film è secondario
e riflette i valori dei loro compagni maschi.
Il privilegio è
inoltre esercitato in termini di razza. A Matul, il dottor Menard ha
un servitore, Lucas, che non fa altro che obbedire ai suoi ordini.
Lucas è superstizioso ed il suo ruolo non è altro che quello di
esistere in opposizione a Menard, paladino sconfitto della ragione
occidentale. A New York, la situazione non è affatto diversa. In
una delle prime scene del film un medico rimprovera con veemenza il
lavoro del proprio aiutante africano-americano. Anche la scelta di
uomini bianchi come ultimi superstiti del genere umano è
problematica (rimando, per uleriori approfondimenti a riguardo, a un
bel saggio di Franco Moretti intitolato “La dialettica della
paura”), in quanto esclude le minoranze dalla possibilità di
poter rappresentare la specie nella lotta contro il mostro. Infine,
il privilegio è esercitato grazie alla scelta di utilizzare la
nudità e la violenza – il film di Fulci è uno dei primi film
splatter – non per far riflettere il proprio pubblico ma per
stimolarne gli istinti più immediati come, per l’appunto, la
paura. Questa paura in realtà sembra voler mantenere l’ordine
costituito così com’è, benché sia (o forse proprio perché lo
è?) sessista e razzista.
Scena 7
Estratto da Cabiria.
Maciste, l’imbattibile gigante, è incatenato e costretto a girare
una macina come animale da soma. Maciste è africano, ma usa la sua
forza a servizio dei romani contro i cartaginesi, come gli ascari
nelle campagne di Libia e d’Etiopia.
Per continuare
questa analisi è importante specificare una cosa. Zombi
2
è un film di genere, e come tale risponde a precisi stilemi e
regole. L’ambientazione americana è senz’altro una di queste.
Tuttavia se prendiamo seriamente i punti sollevati nella quinta
scena del nostro film saggio, non possiamo che interrogarci sul
perché il film di Fulci sia stato prodotto ed abbia avuto insperato
successo in Italia, e se esista un legame con le circostanze
storiche e sociali in cui è stato realizzato.
Verso la fine degli
anni settanta avvengono due fatti in Italia che scuotono
l’intorpidita coscienza collettiva, e la sua amnesia sul periodo
coloniale. In primo luogo, iniziano a diffondersi i primi studi
critici sul colonialismo italiano per opera di Angelo Del Boca e
altri storici. Questi studi portano in luce una storia di crimini
efferati, di sterminio di civili con gas tossici, di campi di
concentramento (rimando a un interessante sito a proposito:
http://www.campifascisti.it/mappe.php).
Il risultato di questi studi non ha finora permeato la società
italiana (e sembra confermarlo il mausoleo di Affile in provincia di
Roma a Rodolfo Graziani, uno dei peggiori criminali della seconda
guerra mondiale, a
cui Wu Ming 1 ha dedicato un prezioso articolo),
eppure è innegabile che abbia riportato alla luce la memoria di un
periodo cruciale nella costruzione dell’identità nazionale
italiana.
Il colonialismo
infatti va di pari passo con l’unificazione del paese, dato che la
prima acquisizione commerciale da parte della compagnia Rubattino
sul porto di Massaua in Eritrea, risale al 1869, solo otto anni dopo
l’unificazione. Il colonialismo fu fondamentale per unire una
giovane nazione contro un nemico comune, e a trasformare gli
italiani in un popolo di “bianchi”, cosa che fino ad allora non
era affatto scontata. Sono molti gli esempi che si potrebbero
portare per dimostrare l’importanza del colonialismo nella
costruzione del carattere nazionale (da dove viene il caffè che
beviamo, uno dei simboli dell’“Italianità”?). Mi limito solo
a segnalare che il primo lungometraggio italiano, Cabiria
(1914) di Giovanni Pastrone, fu realizzato per celebrare la vittoria
italiana durante la guerra italo-turca del 1911 che diede inizio
all’avventura coloniale italiana in Libia.
Non sorprende quindi
che sia proprio un film a riportare in vita questo rimosso storico.
E non uso la parola “rimosso” senza una ragione, evocando
un’analisi psicoanalitica: il colonialismo è stato rimosso in
seguito ad un trauma, vale a dire le sconfitte italiane di Adua
(1896) e Dogali (1887). Secondo Fabio Camilletti, è anche alla luce
di queste sconfitte, che è possibile spiegare la nevrosi,
tipicamente italiana, a voler “far vedere” ciò di cui si è
capaci, a voler dimostrare di essere una grande potenza europea, di
non essere secondi a nessuno, e
al tempo stesso difendersi con il catenaccio quando si gioca a
calcio.
In un articolo di
tutt’altra natura (intitolato Il
passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos
nelle Ricordanze),
Camilletti offre invece un’indicazione importante per comprendere
il motivo per cui quel trauma e quel rimosso si siano esplicitati
proprio in un film dell’orrore. Lo studioso sostiene che il
proliferare di storie dell’orrore anticipò e diede una forma
fittizia alle ansie che in quel momento serpeggiavano in Europa e
sarebbero state portate alla luce qualche anno più tardi dalla
psicoanalisi. Similmente, si protrebbe dire che Zombi
2 è
uno degli espedienti attraverso il quale si esplicita la relazione
perturbante dell’Italia rispetto al suo passato coloniale, un
trauma ancora insanato, che gli studi storici coevi riportano in
luce proprio negli stessi anni.
Scena 8
Immagini che si
susseguono velocemente, una dopo l’altra. La nave all’ inizio di
Zombi
2, che porta
l’apocalisse a New York. L’arrivo della nave fantasma nel porto
di Wisborg, con a bordo topi pestiferi in Nosferatu, eine Symphonie
des Grauens (1922) di Wilhelm Murnau. Le immagini di navi e barconi
cariche di immigrati, sui manifesti della Lega Nord.
C’è un altro
fatto che riporta alla luce la memoria coloniale italiana e un
precedente incontro con l’“altro africano”, vale a dire
l’inizio dell’immigrazione africana in Italia che raggiunge
numeri significativi proprio dalla fine degli anni settanta. Siamo
in un periodo che precede l’arrivo dei barconi che verranno
utilizzati nei manifesti della Lega Nord per seminare la paura
dell’invasione degli immigrati. Eppure è significativo che Zombi
2 si apra proprio con una
nave che entra nel porto di New York. Questa scena sembra essere un
riferimento al capolavoro di Wilhelm Murnau, Nosferatu,
eine Symphonie des Grauens
(1922). Siegfried Kracauer, autore di un testo fondamentale
sull’espressionismo tedesco Da
Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco,
parla di questa scena come di una rappresentazione metaforica dei
sentimenti anti-semiti della Germania degli anni ’30. In
Nosferatu,
lo “spirito tedesco” è assediato da “presenze minacciose”
che arrivano dall’esterno, su una nave fantasma. Kracauer sostiene
che non sia un caso se un anno dopo sarebbe avvenuto il putsch di
Monaco. Similmente, la nave che porta l’infezione zombi
a New York potrebbe essere vista come il barometro delle
inquietudini dell’Italia di quegli anni verso l’immigrazione.
Scena 9
Di nuovo, si
sovrappongono due immagini. Da un lato il poster di Zombi
2,
con i mostri che invadono New York. Dall’altro gli immigrati
invadono l’Italia. Li vediamo procedere lentamente alle loro
spalle. Non hanno volto, né identità. L’apocalisse è
inevitabile.
Zombi
2 attinge
da un immaginario coloniale per rappresentare la paura che i
colonizzati si ribellino ai loro padroni di un tempo, invadendoli.
La paura di questa invasione è chiaramente rappresentata in uno dei
poster del film, che assomiglia in maniera impressionante a uno dei
manifesti della Lega Lombarda della fine degli anni ottanta. Non so
se chi abbia realizzato questo poster si sia ispirato ai film
dell’orrore, come sembrerebbe, né m’interessa saperlo. È
importante tuttavia sottolineare che entrambi i manifesti invitano a
ricercare le cause dell’inquietudine all’esterno
(nell’immigrazione) e non all’interno (nella storia coloniale)
dell’Italia.
Scena 10
Una massa di uomini
e donne affamati, con i vestiti strappati e le carni scure si
avvicina lentamente. La protagonista assomiglia a Renata Polverini,
e guarda terrorizzata il sindaco di Affile, che sta al suo fianco.
Entrambi se la danno a gambe, ma non hanno scampo. Gli zombi
li divorano, lacerandogli le carni.
Varrebbe invece la
pena ritrovare le cause di questa inquietudine nell’inconscio
nazionale, nel fatto che l’Italia non abbia fatto i conti con il
suo passato. L’esempio più recente (e forse il più
agghiacciante) di mancata decolonizzazione della memoria è il
mausoleo dedicato a Rodolfo Graziani, il macellaio di Fezzan, ad
Affile. Penso che in Germania non si potrebbe erigere oggi un
monumento a Goebbels, solo perché (e
cito dal sito del comune di Affile)
“figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione,
fu tra i maggiori protagonisti dei burrascosi eventi che
caratterizzarono quasi mezzo secolo della storia [tedesca]”. In
Italia invece è stato possibile (lo ammetto, ho scelto il paragone
con la Germania per dare ulteriore esempio di quella nevrosi tutta
italiana di voler dimostrare di essere come le altre nazioni
europee, a cui accennavo prima). Un altro modo per non fare i conti
con il passato è invece quello di rimuoverne i simboli, senza
alcuna discussione pubblica. Nel 2010 il governo Berlusconi restituì
tra le polemiche la stele di Axum all’Etiopia riuscendo a vendere
l’operazione come un’opera di valorizzazione dell’identità di
quel paese invece di una restituzione dovuta di un bottino di
guerra. Come sostiene Antonio Morone, il fatto che l’Italia abbia
preso parte attiva alla guerra in Libia nel 2011 bombardando una sua
ex-colonia senza che questo intervento militare fosse “oggetto di
discussione nelle diverse sedi istituzionale né tanto meno nelle
piazze italiane”, mostra ancora una volta come il risultato degli
studi storici realizzati finora riguardo alla storia coloniale
italiana “non si sia riversato in un comune sentire degli
italiani”
(http://www.linkiesta.it/bombe-italiane-sulla-libia-ritorno-al-colonialismo).
Un film saggio però
deve indicare anche strade per il futuro, possibili modi per fare i
conti con la memoria. Crogiolarsi nella denuncia dei modi in cui non
si sono fatti i conti con il passato coloniale è un interessante
quanto inutile autocompiacimento. Come ricorda Wu Ming 2, negli
ultimi vent’anni sono state prodotte una serie di opere scritte
sia da italiani sia da immigrati provenienti dalle ex-colonie, che
hanno contestato la visione unilaterale della storia che ci è stata
presentata finora, mettendo in discussione il mito degli “italiani
brava gente”
(http://www.dinamopress.it/news/la-guerra-razziale-tra-affile-e-il-colonialismo-rimosso).
Queste opere sono cruciali per rendere partecipe la società
italiana di una pagina di storia colpevolmente dimenticata.
Per quanto mi
riguarda, negli scorsi tre anni ho coordinato un gruppo di lavoro
che ha cercato di squarciare un velo di silenzio sul nostro
colonialismo realizzando due documentari, intitolati La
quarta via. Mogadiscio, Pavia e
Aulò. Roma post-coloniale
(entrambi distribuiti da un editore indipendente di Roma, la
Kimerafilm). Queste due opere, che hanno per protagoniste le
scrittrici Kaha Mohamed Aden e Ribka Sibhatu, parlano del
colonialismo italiano rispettivamente in Somalia e in Eritrea
all’interno dello spazio urbano di Pavia e di Roma, cercando di
de-zombificare queste città, di de-colonizzarne finalmente la
memoria.
L'Associazione per i Diritti Umani ha
realizzato due interviste alle protagoniste/scrittrici che, se
volete, potete cercare in questo sito...