Si è spento, ad 86 anni, Ariel Sharon, in coma dal 2006 a causa di un'emorragia cerebrale e dopo una lunga esistenza come leader politico e militare.
Ministro
dell'Agricoltura, svolge un ruolo di primo piano nel programma di
costruzione degli settlements a Gaza e in Cisgiordania; come Ministro
della Difesa è stato l'artefice dell'invasione del Libano, nel 1982.
Nel 2000, come capo dell'opposizione al Parlamento, compie un gesto
dimostrativo: entra, accompagnato da una scorta armata, nella
spianata delle moschee a Gerusalemme per rendere chiaro che anche
quella parte della città deve sottostare alla sovranità israeliana.
L'episodio dà inizio alla Seconda Intifada. Nel 2004, però, decide
per il ritiro dei soldati dalla striscia di Gaza – decisione con la
quale vuole dimostrare, alla comunità internazionale, la buona
volontà di Israele nel volere la pace – ma tale decisione viene
vissuta come un tradimento da parte della destra religiosa. Un anno
dopo lascia il partito Likud, nazionalista e liberale, per fondare il
partito Kadima, centrista, a cui prende parte anche Shimon Peres,
Nobel per la Pace.
Difficile
riassumere in poche righe una vita intensa, complessa e controversa
come quella dello statista israeliano il cui nome, Ariel, significa
“il leone di Dio”. E proprio il suo nome rimane legato ad uno
degli avvenimenti più tragici della Storia del '900: il massacro di
Sabra e Shatila, i campi di rifugiati in cui persero la vita più di
tremila arabi palestinesi. Il massacro, che durò dal 16 al 18
settembre 1982, fu perpetrato dalle milizie cristiane libanesi in
un'area direttamente controllata dall'esercito israeliano e causò i
terribili fatti di sangue, noti come la “guerra dei campi”, tra
il 1985 e il 1987. Questi fatti si inseriscono nel contesto della
guerra civile libanese: Israele, infatti, sostenne con le armi, la
comunità cristiana dei maroniti e l'Esercito del Sud del Libano
(cristiano-maronita) contro l'OLP e le forze armate cristiane.
Ma
questa è una maniera astratta per parlare di guerra e di Storia, Per
capire davvero quali siano le conseguenze di un conflitto, di
qualsiasi conflitto, vi consigliamo di leggere un romanzo che si
intitola: Ogni mattina a
Jenin di
Susan Abulhawa edito da Feltrinelli.
Amal,
la nipotina del patriarca della famiglia Abuleja, è la voce narrante
di quattro generazioni di palestinesi costretti ad abbandonare la
propria terra, dopo la nascita dello Stato di Israele. La
deportazione, nel 1948, nel campo profughi di Jenin; i due fratelli
che si trovano a combattere su fronti opposti; la maternità e i
numerosi lutti. Amal, alter-ego dell'autrice, intreccia le storie
individuali alla grande Storia di un Paese martoriato, con crudo
realismo e vibrante poesia. Più di sessant'anni di storia, tra il
1941 e il 2002: gli anni del conflitto israelo-palestinese e delle
devastazioni che si sono riversate su donne, uomini, bambini che
hanno distrutto rapporti familiari e generazioni. Eppure qualcosa,
almeno nella finzione letteraria, riesce a salvarsi.
La
scrittrice è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la
“Guerra dei sei giorni”, ha vissuto in un orfanotrofio a
Gerusalemme per poi trasferirsi negli Stati Uniti e, con questo suo
lavoro, non ha voluto attribuire colpe, ma ha voluto raccontare la
verità, la verità di chi troppo spesso non viene ascoltato, in
particolare dei profughi “sospesi” nei campi, ma che riescono ad
andare avanti nonostante tutto e grazie all'amore.