venerdì 11 settembre 2015

Il coraggio di Jafar Panahi nel raccontare l'Iran di oggi







Taxi Teheran è il titolo della nuova pellicola del regista persiano Jafar Panahi. Il regista de Il palloncino bianco, Il cerchio, Offside, Pardè e This is not a film – film vincitori dei maggiori premi in campo cinematografico – ha sempre raccontato le contraddizioni dell'Iran, denunciando la mancanza di libertà civili e universali attraverso poetiche metafore concettuali e visive. 

Panahi non ha mai taciuto le proprie posizioni politiche ed è sceso in piazza per protestare contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad: a causa di quelle manifestazioni di protesta gli è stato intimato di non girare più film, di non concedere interviste alla stampa straniera e di non abbandonare il Paese. Se avesse violato queste direttive sarebbe stato condannato a vent'anni di carcere. Grazie ad una rete di amici e colleghi, Panahi ha continuato a lavorare e torna nelle sale con Taxi Teheran, che si è aggiudicato l'Orso d'oro all'ultima edizione del festival di Berlino. Girato clandestinamente come le sue ultime due opere, il film è una docu-fiction in cui si compone un affresco della società iraniana. Salgono su un taxi, guidato dallo stesso regista, persone di tutti i tipi, età e professioni: donne, uomini, giovani, bambini, professionisti, persone semplici, persone note e comuni. In una scena significativa, il regista scende per pochi minuti dalla vettura per andare a prendere la sua nipotina all'uscita di scuola: anche lei, “armata” di videocamera, racconta di dover preparare una ricerca sulle attività scolastiche, ma che la ricerca deve conformarsi strettamente ai precetti dell'Islam ed evitare il “realismo nero”. Di cosa si tratta? Eccolo spiegato dal mezzo cinematografico e dalla creatività di Panahi: mentre lui e la bambina chiacchierano all'interno del taxi, sullo sfondo viene inquadrato un ragazzino che scava nella spazzatura e ruba del denaro a una coppia di giovani sposi. Sul suo taxi sale, inoltre, Nasrin Sotudeh, l'avvocatessa e attivista per i diritti umani, anche lei impossibilitata ad esercitare la professione dal 2011. Tra i tanti temi trattati, infatti, vi si trova anche quello che riguarda la condizione femminile, un argomento caro all'autore; e poi artisti e persone comuni che anelano alla libertà e, quando riconoscono il regista alla guida del mezzo, si stupiscono e poi si mettono a ridere. Sì, perchè la cifra che contraddistingue questo lavoro è l'ironia, un'ironia graffiante che dimostra quanto la censura non possa nulla contro la volontà. Una piccola cinepresa nascosta dell'abitacolo, riprende e registra (quasi sempre ad inquadratura fissa e in primo piano o mezzo busto) i volti e le espressioni delle persone: proprio come uno specchio che riflette e rimanda parole, immagini, situazioni che parlano dell'Iran contemporaneo. Il finale del racconto è terribile ed è accompagnato da un testo che sostituisce i titoli di coda: “Il ministero dell'orientamento islamico dà l'autorizzazione per i titoli di coda dei film che vengono distribuiti. Con mio grande rammarico quindi non ha titoli di coda. Esprimo la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, questo film non avrebbe visto la luce”. Auguriamo a Panahi di poter tornare alla luce della libertà dato che, coraggiosamente, continua a vivere con la famiglia a Teheran e sotto minaccia costante da parte del regime.