Srebrenica, Bosnia Erzegovina, 11 luglio 1995: oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi.Quattro lustri dopo, rimane un profondo senso di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per i carnefici di allora, in buona parte ancora a piede libero e considerati da alcuni persino degli “eroi”.
Questo libro è un reportage nel buco nero della guerra e del dopoguerra bosniaco e nel vuoto totale di giustizia che ha seguito il genocidio di Srebrenica, una delle pagine più nere della storia europea del Novecento e sicuramente la peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale.
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Le
parole di Moni Ovadia, nell'introduzione al testo, sono molto dure.
Perché l’Occidente ha voluto fallire? Quali sono i motivi per cui
L’Ue non è intervenuta adeguatamente?
La
metterei in quest’altro modo: l’Europa occidentale non ha voluto
fallire, semplicemente non ha ritenuto di voler intervenire nel modo
auspicato – tardivamente – dall’opinione pubblica. O, se
vogliamo vederla dal punto di vista del fallimento: a suo tempo è
stato un fallimento programmato e voluto, quindi non vero fallimento,
dunque piano perfettamente riuscito. La Comunità europea dell’epoca
– divisa in politica estera esattamente quanto l’Unione europea
di oggi – ha visto la crisi jugoslava e le guerre balcaniche non
come un pericolo e una tragedia umanitaria, ma come una chance
economica e strategica. L’intervento, dunque, c’è stato eccome,
ma non per impedire le stragi e le devastazioni, bensì per sostenere
ciascuno la propria parte di riferimento sul campo di battaglia e
ottenere almeno due importanti risultati: la scomparsa di un soggetto
di diritto internazionale scomodo e in crisi come la Jugoslavia e
l’appropriazione di pezzi di quel Paese attraverso una discutibile
politica di sostegno a una delle parti in causa. Alla partita di sono
uniti, pressoché subito, anche Stati Uniti, Russia, Turchia e Paesi
del mondo arabo sunnita, rendendo il disastro jugoslavo ancora più
complicato, pericoloso e incomprensibile. Alla fine, a modo loro, gli
europei e gli altri sono intervenuti eccome, e i loro obiettivi li
hanno raggiunti. All’opinione pubblica è rimasto l’amaro
indelebile in bocca delle tragedie umanitarie e del genocidio di
Srebrenica, oltre che pagine mostruose come lo scannatoio di
Višegrad, l’azzeramento di Vukovar, Omarska e gli altri campi di
prigionia e di sterminio, l’assedio di Sarajevo, il più lungo
della storia bellica europea, e un numero di morti e di desaparecidos
ancor oggi non definitivo. Le cancellerie e le grandi aziende,
invece, sono intervenute eccome e hanno riportato, ciascuna per suo
conto, parecchi risultati. Si veda il controllo politico e strategico
della Federazione di Bosnia Erzegovina da parte degli Stati Uniti e
il controllo egemonico dell’economia da parte della Turchia; si
veda, in Republika Srpska di Bosnia – entità basata largamente
sullo stupro etnico e sulla pulizia etnica – lo stesso fenomeno, ma
nei panni degli attori esterni Russia e Francia.
I
criminali sono considerati ancora, da alcuni, come degli “eroi”:
su cosa si basa questa opinione?
Non so,
in effetti, se si tratti di un’opinione o di un disvalore predicato
così a fondo attraverso slogan efficaci e mandato a memoria dalla
parte più rozza e grezza non solo del popolo serbo, ma anche di
quello croato e di quello musulmano bosniaco. Non ci sono solo gli
“eroi” serbi, assassini di massa le cui facce orripilanti sono
acquistabili stampate su tazze e tovaglie nelle fiere popolari, ma ci
sono anche quelli delle altre parti. L’ignoranza, la povertà,
talvolta la fame, l’abbandono e l’odio sono le leve su cui
premono i teorici della divisione, attraverso non solo la televisione
e i giornali ma, prepotentemente, attraverso la radio – l’unico
mezzo di diffusione di massa che ancora oggi arriva ovunque –
internet e persino le scuole e le università. C’è tanto lavoro da
fare per far cadere nella polvere questi falsi “dèi” dell’odio,
della violenza e della menzogna e per riportare sull’altare di
un’umanità laica e tollerante le uniche cose che possono davvero
salvare i Balcani: una scuola condivisa e non più dell’apartheid,
la ragione e la pietà umana.
Cosa
chiedono le donne di Srebrenica? E qual è stata la loro esperienza
durante e anche dopo la guerra?
Le donne
e le madri di Srebrenica chiedono solo ed esclusivamente GIUSTIZIA,
tutta maiuscola, così come l’ho scritto. Non vogliono vendetta,
non chiedono più alcun tipo di dolore. Vogliono poter recuperare
dalle fosse comuni i loro cari, dar loro civile e umana sepoltura e
avere finalmente giustizia, ovvero i nomi e i cognomi degli aguzzini
loro e dei loro cari e la loro condanna in un tribunale. Sorprenderà
il lettore, spero, apprendere questo dato: in Bosnia Erzegovina ci
sono circa 16.000 presunti criminali di guerra ancora a piede libero
e, per converso, ancora circa 8.000 desaparecidos,
metà dei quali si stima siano ex cittadini di Srebrenica ammazzati
nel luglio 1995 e sepolti in fosse comuni la cui ubicazione è al
momento ancora sconosciuta.
L’esperienza
di queste donne è stata di oltre tre anni di assedio, patendo la
mancanza di ogni cosa, e poi dell’abbandono da parte della comunità
internazionale nelle grinfie dell’esercito serbo-bosniaco e dei
paramilitari serbi, che hanno fatto scempio di 10.701 loro cari di
età compresa tra i 12 e i 76 anni e non di rado del corpo di
parecchie di queste donne, soggette allo stupro etnico come altre
decine di migliaia di loro in tutto il Paese. E alla fine, dopo
vent’anni, si trovano a dover combattere contro un nuovo cancro,
quello dei negazionisti, coloro che vogliono convincere chi non c’era
che a Srebrenica non è successo nulla. Una lotta impari, per quelle
povere donne… Una lotta in cui vanno aiutate.
Le
conseguenze degli errori (più o meno voluti) e dell'immobilità
politica e militare, hanno avuto ripercussioni sugli altri Paesi?
Se si
intende la questione kosovara, la pulizia e la contro-pulizia etnica
nella Krajina croata, il prossimo disastro che sarà quello macedone,
direi proprio di sì.
In
che modo si può aiutare la Bosnia-Erzegovina nel percorso di
democrazia e di pace?
Non
credendo alle fandonie negazioniste, informandosi e andando a
visitare quel Paese, che rischia a breve di spaccarsi in due, esposto
com’è agli estremismi incrociati, quelli islamici e cattolici in
Federazione, quelli russo e serbo in Republika Srpska. E non
ricordandoci della Bosnia solo ogni dieci anni, ma proviamo a capire
una lezione importantissima, almeno per noi italiani: conoscere la
Bosnia ci permette di conoscere e comprendere meglio dinamiche
identiche presenti nel nostro Paese e di trovare i giusti antidoti,
prima che arrivino a “bussare” coi tank
e i kalashnikov
alle nostre porte di casa gli Mladić, i Karadžić, i Lukić, i
Boban, i Tuđman, gli Izetbegović italiani e tutta questa varia
umanità che purtroppo popola persino il nostro parlamento e il
parlamento europeo.