venerdì 4 settembre 2015

Prigionieri della violenza




Se percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto prodotto dalla risonanza mediatica.


di Donatella Di Cesare (da La lettura – Corriere della Sera)




Il mondo è pieno di violenza. Subdola, strisciante, imprevedibile, ci attende in agguato a ogni angolo, ci coglie di sorpresa a ogni istante. La violenza è il sottofondo della nostra vita quotidiana, il basso insistente e perturbante, il ritmo stonato e importuno, la cadenza stridente e sconcertante. La violenza è all’ordine del giorno. Non c’è forse parola che abbia un rilievo analogo nel vocabolario dell’attualità. Ma è davvero un fenomeno così esteso? Oppure parliamo di violenza in un senso troppo ampio e impreciso? Certo è che il dilagare della violenza sembra lo spettacolo che si ripete sotto gli occhi di tutti.
Eppure le statistiche dicono che le cose non starebbero così. Nel complesso le cifre dell’atto violento per eccellenza, l’omicidio, sono in calo sia nel nostro Paese, sia in generale in tutti i continenti, anche se, in base a un recente rapporto dell’Onu, restano differenze considerevoli tra Sud e Nord del globo.
Se dovessimo prestar fede alle cifre, potremmo quindi trarre un respiro di sollievo. Il Novecento, inaugurato da grandi speranze e finito nella più buia disperazione, segnato dalla mattanza delle guerre mondiali, dalla brutalità delle dittature, dalle fabbriche dello sterminio, è deflagrato in una esplosione di violenza senza precedenti. Dopo il secolo breve e crudele, ci siamo ripromessi: «Mai più!». Questo «mai più!» impronta il nostro atteggiamento verso ogni forma di violenza, ci rende guardinghi e vigilanti. Ci rende, soprattutto, estremamente sensibili.
Forse mai come oggi la violenza è stata condannata moralmente, stigmatizzata politicamente, sanzionata giuridicamente. Per noi rappresenta la sconfitta dell’etica, l’attentato alla convivenza civile, la ferita alla dignità umana. Ne siamo consapevoli. Non vogliamo dimenticarlo. E non esitiamo perciò a spingere lo sguardo fin dentro quei territori dove — come ci ha insegnato Walter Benjamin — il diritto mostra la sua ambigua vicinanza alla violenza.
Perché ci sembra allora che la violenza aumenti in modo preoccupante? E perché captiamo ovunque indizi gravi e inequivocabili di una recrudescenza che ci tiene con il fiato sospeso? L’oscena esibizione di una testa mozzata, i corpi sulla spiaggia dei turisti inermi, il cadavere di un bambino che galleggia nelle acque del Mediterraneo, il corpo di una donna ferita a morte — quante visioni potremmo ancora richiamare alla memoria? Quante inquietano le nostre notti e allarmano i nostri giorni?
La violenza è lo spettacolo, drammatico e disumanizzante, a cui assistiamo in quella seconda vita che quotidianamente viviamo nei media, travolti dal flusso ininterrotto delle informazioni, sopraffatti dal vortice delle immagini. Ci sentiamo spettatori impotenti, paradossalmente ridotti alla passività, proprio mentre il mondo segue il corso opposto a quello che ci eravamo figurati.
Se percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto prodotto dalla risonanza mediatica. Lo spettacolo della violenza, non di rado esibita con disinvoltura, anche nella spietata incontrollabilità della diretta, è parte integrante della nostra esistenza. Virtuale e reale si confondono e, anzi, il virtuale finisce per avere un effetto più perturbante del reale stesso. Sui rischi di un uso spregiudicato delle foto che, nella loro presunta immediatezza, «nascondono più di quel che svelino», ha avvertito Susan Sontag.
Lo spettacolo della violenza ha il suo contrappeso nella violenza spettacolarizzata. Si fa labile il confine tra i fatti di cronaca e la trama del film dove l’eroico detective rischia la vita per la sicurezza di tutti. Serie tv, fiction, videogiochi mettono in scena un mondo suddiviso fra criminali e custodi dell’ordine, fra assassini e astuti investigatori. Ma ansia, timore, preoccupazione, svaniscono d’incanto nello scontato happy end, in una preannunciata vittoria del bene sul male.
Questa visione del mondo, dove la violenza viene ogni volta sconfitta, diventa un modello fuorviante. Ci aspettiamo che la realtà abbia lo stesso esito della finzione. Dato che non è così, siamo frustrati, quasi risentiti. E anche questo, certo, aumenta il grado di violenza percepita. È il caso allora di chiedersi se si tratta solo di una percezione. Forse quella nostra frequente esclamazione «che violenza!» non è casuale. La violenza è sulla bocca di tutti, perché non ha mai smesso di percorrere sotterraneamente la storia. E ora riemerge tra le crepe, assumendo le forme più diverse, subdole o sfrontate, sottili o prepotenti. Malgrado le statistiche rassicuranti, la riconosciamo subito, anche se non avremmo voluto vederla più. Né avremmo voluto che fosse ancora la protagonista di pagine di storia e di cronaca. Per questo quasi ci vergogniamo. E la nostra cattiva coscienza vorrebbe indurci a negarla.
Ma perché la violenza nelle sue forme attuali ci sconvolge, ci irrita, ci imbarazza? E soprattutto: che cos’è la violenza? Perché è ben riconoscibile, ma si lascia afferrare con difficoltà?
La violenza non è un oggetto né una sostanza; ma non è neppure una qualità. Nessun essere umano è, come tale, violento. Ad essere violenti sono un atto, un gesto, una parola. La violenza alberga nella relazione, esplode nei rapporti tra gli individui, resta nascosta nei legami sociali, intacca perciò la convivenza.
Per Aristotele la violenza è un movimento contro natura. Questa spiegazione ci soddisfa solo in parte. E per noi, che veniamo dopo la modernità, la violenza appare piuttosto relegata in quello stato di natura che la cultura dovrebbe aver elevato e nobilitato per sempre. In breve, per noi la violenza è opposta alla cultura. Quanto più la cultura prevale, tanto più la violenza dovrebbe essere tacitata. Ma la storia ci fa riflettere e la cronaca, nazionale e internazionale, ci smentisce.
Sarebbe comodo identificare la violenza con la barbarie, vederla come una caduta nello stadio primitivo e selvaggio, che l’umanità si è da tempo lasciata alle spalle, o magari relegarla ai confini della ragione, demonizzarla o tacciarla di follia. La violenza accompagna la storia nelle sue fasi alterne e assume forme diverse, perché è guidata dall’immaginazione e dall’inventiva. Soltanto gli esseri umani hanno escogitato la tortura, la pena di morte, i massacri.
Quasi impercettibile, la violenza attuale risponde ai comandi della tecnica; è soft, corre rapida lungo i flussi dei dispositivi elettronici e telematici, per condensarsi in quella sorta di esperanto visivo costituito dalle immagini digitali. La nostra è l’epoca delle immagini violente e della violenza delle immagini.
Eppure si può mettere da parte l’iPad, spegnere la tv. Quelle immagini crudeli e atroci di una strage, di un attentato, di una guerra, sono insieme vicine e lontane. Potremmo allontanarcene, come avviene al termine di un film. Ma ecco la novità di oggi: la violenza passa dalla virtualità alla realtà, il suo spettro ci insegue al di là dello spettacolo. Brutalmente siamo stati strappati al nostro abituale ruolo di spettatori per entrare d’improvviso nella scena concreta dell’aggressione, e per giunta come vittime inermi della violenza.
Siamo disorientati, turbati, increduli, delusi. Scopriamo di essere vulnerabili. E questa estrema, irrimediabile vulnerabilità, aumenta via via che viene meno il miraggio di un ordine del mondo. La violenza ci investe, scalfisce, offende, incrina la nostra vita. È stata Judith Butler, dopo l’11 Settembre, a parlare di «vite precarie». Ed è interessante che negli ultimi anni soprattutto le filosofe — da Butler ad Adriana Cavarero — si siano soffermate su questo tema. La precarietà della nostra vita ci fa avvertire un incremento della violenza. Ne scorgiamo ovunque l’incombere, ne constatiamo il dilagare. Ed è qui che il terrorismo porta la sua sfida. Il video di una decapitazione non è solo la cruda violenza contro l’altro; è anche un messaggio. Il «risentimento fondamentalista» — come lo ha definito Slavoj Žižek — fa del jihadista dell’Isis non un barbaro, bensì un postmoderno. Se brandisce una testa mozzata come un trofeo, se giunge a farsi beffardamente un selfie , a scattarsi un autoritratto celebrativo, è per dirci che il progresso non ha eliminato la violenza, che la razionalizzazione tecnica non è in grado di proteggere davvero nessuna vita.
La violenza temuta ci rende più sensibili a quella subita, in una pericolosa escalation. Tanto più che l’accelerazione del nostro tempo, questa vertigine dell’illimitato, che ci dà straordinari poteri, ci rende insofferenti al limite. Non sopportiamo alcun ostacolo, non tolleriamo alcun impedimento. Reagiamo immediatamente. Come già aveva osservato Hannah Arendt, non ci fermiamo a riflettere sui fini e le ripercussioni del nostro agire. L’altro è solo il nostro limite. Di qui le stragi familiari, gli infanticidi, gli stupri. Per un nonnulla il vicino insospettabile può diventare un assassino, lo studente modello può compiere una strage. La disponibilità delle armi fa sì che la furia estatica dell’io possa facilmente tradursi nell’annientamento dell’altro. Rabbia, rancore, rivalsa, disperazione, esibizionismo, indifferenza, persino noia o assuefazione, innumerevoli sono i motivi della violenza — nessuno può spiegarla.
L’intelligenza tecnica ha aumentato a dismisura i mezzi della distruttività inaugurando nuove forme di aggressione. E, d’altra parte, la violenza meno eclatante, più invisibile, della miseria, della fame, dell’immigrazione, delle catastrofi ecologiche, resta il portato della globalizzazione. Più l’intensità della violenza ci sconvolge, più siamo chiamati a riflettere, a partire dalla vulnerabilità che ci accomuna.