lunedì 2 dicembre 2013

Beni confiscati alle mafie: un viaggio per il diritto alla vita e per la tutela della legalità




La villa di Tano Badalamenti a Cinisi.la reggia di "Sandokan" Schiavone a Casal di Principe, l'enclave dei Casamonica nella periferia romana, perfino una residenza principesca a Beverly Hills, proprietà di Michele Zaza, 'o Pazzo, re del contrabbando. E poi cascine di 'ndrangheta in Piemonte, tenute in Toscana, castelli, alberghi, discoteche, campi di calcio, maneggi: uscito da qualche mese per Chiarelettere, “Per il nostro bene. La nuova guerra di liberazione. Viaggio nell'Italia dei beni confiscati” - un saggio scritto da Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni - è un reportage tra le fortezze espugnate a quella mafia che ha fatto la storia, e che ancora soffoca il Paese. Questo libro racconta cos'erano e cosa sono diventate.
Tra ostacoli di ogni tipo, terreni occupati, edifici distrutti, una legislazione carente, amministratori pavidi, funzionari di banca che concedono mutui ai clan per aiutarli a "salvare" il patrimonio: un terzo delle case sottratte ai mafiosi e non assegnate è gravato da ipoteche, inutilizzabile. Per non parlare delle aziende, quasi tutte, che nel passaggio dalla criminalità organizzata allo Stato falliscono. C'è un'Agenzia nazionale che gestisce e destina i beni sequestrati e confiscati: trenta dipendenti in tutto, zero risorse, rischia lo stallo. Ma questo libro racconta anche le vicende di tante persone che, con intelligenza, determinazione e onestà, hanno tentato di far rinascere la vita sulle macerie di morte, ricatti e minacce.


Abbiamo rivolto alcune domande ad una delle autrici, l'avvocato Ilaria Ramoni, che ringraziamo di cuore per questo importante racconto che ci anticipa l'inchiesta riportata nel saggio.


Quando è partita la vostra inchiesta? E perchè avete sentito l'urgenza di raccontare questo viaggio nell'architettura che ha segnato la presenza mafiosa su tutto il territorio italiano (e non solo)?

Il lavoro sul campo è durato circa un anno e mezzo. Io da molti anni mi occupavo di beni confiscati a diverso titolo, sia come avvocato che come referente di Libera, e sentivo forte l’esigenza di raccontare cosa funziona e cosa non funziona nel procedimento di confisca e di riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Strumento potentissimo di contrasto alla criminalità organizzata ma non sfruttato appieno. L’incontro con Alessandra, giornalista del Corriere della Sera, ha segnato però la svolta perché ha voluto raccogliere quella che ritengo essere una vera e propria sfida, ovvero quella di scrivere di tematiche particolarmente complicate in modo narrativo ma scientificamente corretto. L’aspetto maggiormente innovativo di questo libro è infatti proprio questo, la narrazione, il racconto del nostro viaggio. E questo è decisamente merito di Alessandra.


Potete fare alcuni esempi di edifici che hanno, finalmente, subìto una trasformazione: da edifici della criminalità a spazi pubblici, utili per il bene comune? E chi sono le persone che hanno reso possibile questo “miracolo”?

Di esempi ce ne sono diversi. Il primo però è sicuramente quello relativo all’esperienza di Libera Terra con riferimento ai terreni confiscati. Qui i ragazzi delle cooperative sono stati veramente capaci di trasformare il bene confiscato in una opportunità di lavoro e di riscatto per tutto il territorio. Ed ora, vino e pasta prodotti in Sicilia, Calabria, Puglia e non solo vengono addirittura esportati all’estero e quindi possiamo trovarli sulle tavole di tutto il mondo. Quello che per Pio La Torre era forse solo un sogno ora è realtà concreta.
Poi ci sono gli esempi di Cascina Caccia in Piemonte, bene confiscato alla ‘ndrangheta dei Belfiore e dedicato al magistrato che uccisero, dove ora si produce miele e torrone ed è diventato un vero e proprio spazio aperto alla collettività dove si coltiva la prossimità e la vicinanza tra le persone. Anche a Milano un appartamento confiscato all’ndrangheta ora è sede di un centro residenziale per anziani indigenti gestito direttamente dal Comune di Milano. Sono solo alcune delle esperienze magnifiche che il nostro Paese ha saputo mettere in campo cogliendo al massimo le opportunità offerte dalla legge Rognoni-La Torre e dalla legge 109 del 96 che permette il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Ma c’è ancora tantissimo da fare perché purtroppo le esperienze fallite o in qualche modo bloccate sono veramente ancora troppe.


Nel libro parlate della villa di Tano Badalamenti, a Cinisi, il paese di Peppino Impastato: Impastato, i giudici Falcone e Borsellino, il giornalista Giancarlo Siani, il generale Dalla Chiesa, Don Puglisi e, purtroppo, molti altri sono stati uccisi perchè volevano riaffermare la giustizia e la legalità, ma anche perchè sono stati lasciati soli: c'è il rischio che questo accada ancora?

Purtroppo il rischio c’è sempre così come c’è ancora il rischio che siano proprio gli amici che dovrebbero sostenerti a lasciarti solo per primi. Spesso i personalismi e le invidie fanno molto in questo processo di graduale isolamento e abbandono su cui poi le mafie trovano terreno fertile.
Credo però che rispetto a quegli anni qualcosa sia cambiato in meglio. C’è una società civile maggiormente attenta che ha meno paura di schierarsi a tutela di chi la criminalità la combatte tutti i giorni. E questo anche grazie ad antecedenti storici come quello dei lenzuoli bianchi a Palermo, dell’associazionismo anticamorra a Napoli, di studenti ed insegnanti da sempre in prima linea.

Le istituizoni che soluzioni propongono, oggi, in tema di lotta alla mafia e di confisca dei beni?

Le soluzioni proposte sono ancora di carattere troppo emergenziale e troppo poco strutturale. Abbiamo una buona legislazione antimafia a cui però dobbiamo dare gambe e risorse per essere veramente efficiente ed efficace. La cartina torna sola di tutto questo è proprio l’Agenzia nazionale per i beni confiscati. Organismo unico fortemente voluto da tutti gli operatori del settore e istituito nel marzo del 2010 ma che dopo una forte spinta politica iniziale ad oggi rischia la paralisi. Nonostante tutti sono convinti che sia una ottima esperienza da mantenere e potenziare perché potrebbe segnare la svolta nella lotta alla criminalità organizzata nel nostro Paese, ad oggi si avverte una preoccupante e perdurante mancanza di risorse e, forse, al di là delle parole, anche una scarsa volontà politica di farla funzionare.