La villa
di Tano Badalamenti a Cinisi.la reggia di "Sandokan"
Schiavone a Casal di Principe, l'enclave dei Casamonica nella
periferia romana, perfino una residenza principesca a Beverly Hills,
proprietà di Michele Zaza, 'o Pazzo, re del contrabbando. E poi
cascine di 'ndrangheta in Piemonte, tenute in Toscana, castelli,
alberghi, discoteche, campi di calcio, maneggi: uscito da qualche
mese per Chiarelettere, “Per
il nostro bene. La nuova guerra di liberazione. Viaggio nell'Italia
dei beni confiscati” - un saggio scritto da Alessandra Coppola e
Ilaria Ramoni - è un
reportage tra le fortezze espugnate a quella mafia che ha fatto la
storia, e che ancora soffoca il Paese. Questo libro racconta
cos'erano e cosa sono diventate.
Tra
ostacoli di ogni tipo, terreni occupati, edifici distrutti, una
legislazione carente, amministratori pavidi, funzionari di banca che
concedono mutui ai clan per aiutarli a "salvare" il
patrimonio: un terzo delle case sottratte ai mafiosi e non assegnate
è gravato da ipoteche, inutilizzabile. Per non parlare delle
aziende, quasi tutte, che nel passaggio dalla criminalità
organizzata allo Stato falliscono. C'è un'Agenzia nazionale che
gestisce e destina i beni sequestrati e confiscati: trenta dipendenti
in tutto, zero risorse, rischia lo stallo. Ma questo libro racconta
anche le vicende di tante persone che, con intelligenza,
determinazione e onestà, hanno tentato di far rinascere la vita
sulle macerie di morte, ricatti e minacce.
Abbiamo
rivolto alcune domande ad una delle autrici, l'avvocato Ilaria Ramoni, che
ringraziamo di cuore per questo importante racconto che ci anticipa
l'inchiesta riportata nel saggio.
Quando è
partita la vostra inchiesta? E perchè avete sentito l'urgenza di
raccontare questo viaggio nell'architettura che ha segnato la
presenza mafiosa su tutto il territorio italiano (e non solo)?
Il
lavoro sul campo è durato circa un anno e mezzo. Io da molti anni mi
occupavo di beni confiscati a diverso titolo, sia come avvocato che
come referente di Libera, e sentivo forte l’esigenza di raccontare
cosa funziona e cosa non funziona nel procedimento di confisca e di
riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Strumento
potentissimo di contrasto alla criminalità organizzata ma non
sfruttato appieno. L’incontro con Alessandra, giornalista del
Corriere della Sera, ha segnato però la svolta perché ha voluto
raccogliere quella che ritengo essere una vera e propria sfida,
ovvero quella di scrivere di tematiche particolarmente complicate in
modo narrativo ma scientificamente corretto. L’aspetto maggiormente
innovativo di questo libro è infatti proprio questo, la narrazione,
il racconto del nostro viaggio. E questo è decisamente merito di
Alessandra.
Potete
fare alcuni esempi di edifici che hanno, finalmente, subìto una
trasformazione: da edifici della criminalità a spazi pubblici, utili
per il bene comune? E chi sono le persone che hanno reso possibile
questo “miracolo”?
Di
esempi ce ne sono diversi. Il primo però è sicuramente quello
relativo all’esperienza di Libera Terra con riferimento ai terreni
confiscati. Qui i ragazzi delle cooperative sono stati veramente
capaci di trasformare il bene confiscato in una opportunità di
lavoro e di riscatto per tutto il territorio. Ed ora, vino e pasta
prodotti in Sicilia, Calabria, Puglia e non solo vengono addirittura
esportati all’estero e quindi possiamo trovarli sulle tavole di
tutto il mondo. Quello che per Pio La Torre era forse solo un sogno
ora è realtà concreta.
Poi ci
sono gli esempi di Cascina Caccia in Piemonte, bene confiscato alla
‘ndrangheta dei Belfiore e dedicato al magistrato che uccisero,
dove ora si produce miele e torrone ed è diventato un vero e proprio
spazio aperto alla collettività dove si coltiva la prossimità e la
vicinanza tra le persone. Anche a Milano un appartamento confiscato
all’ndrangheta ora è sede di un centro residenziale per anziani
indigenti gestito direttamente dal Comune di Milano. Sono solo alcune
delle esperienze magnifiche che il nostro Paese ha saputo mettere in
campo cogliendo al massimo le opportunità offerte dalla legge
Rognoni-La Torre e dalla legge 109 del 96 che permette il riutilizzo
sociale dei beni confiscati. Ma c’è ancora tantissimo da fare
perché purtroppo le esperienze fallite o in qualche modo bloccate
sono veramente ancora troppe.
Nel
libro parlate della villa di Tano Badalamenti, a Cinisi, il paese di
Peppino Impastato: Impastato, i giudici Falcone e Borsellino, il
giornalista Giancarlo Siani, il generale Dalla Chiesa, Don Puglisi e,
purtroppo, molti altri sono stati uccisi perchè volevano riaffermare
la giustizia e la legalità, ma anche perchè sono stati lasciati
soli: c'è il rischio che questo accada ancora?
Purtroppo
il rischio c’è sempre così come c’è ancora il rischio che
siano proprio gli amici che dovrebbero sostenerti a lasciarti solo
per primi. Spesso i personalismi e le invidie fanno molto in questo
processo di graduale isolamento e abbandono su cui poi le mafie
trovano terreno fertile.
Credo
però che rispetto a quegli anni qualcosa sia cambiato in meglio. C’è
una società civile maggiormente attenta che ha meno paura di
schierarsi a tutela di chi la criminalità la combatte tutti i
giorni. E questo anche grazie ad antecedenti storici come quello dei
lenzuoli bianchi a Palermo, dell’associazionismo anticamorra a
Napoli, di studenti ed insegnanti da sempre in prima linea.
Le
istituizoni che soluzioni propongono, oggi, in tema di lotta alla
mafia e di confisca dei beni?
Le
soluzioni proposte sono ancora di carattere troppo emergenziale e
troppo poco strutturale. Abbiamo una buona legislazione antimafia a
cui però dobbiamo dare gambe e risorse per essere veramente
efficiente ed efficace. La cartina torna sola di tutto questo è
proprio l’Agenzia nazionale per i beni confiscati. Organismo unico
fortemente voluto da tutti gli operatori del settore e istituito nel
marzo del 2010 ma che dopo una forte spinta politica iniziale ad oggi
rischia la paralisi. Nonostante tutti sono convinti che sia una
ottima esperienza da mantenere e potenziare perché potrebbe segnare
la svolta nella lotta alla criminalità organizzata nel nostro Paese,
ad oggi si avverte una preoccupante e perdurante mancanza di risorse
e, forse, al di là delle parole, anche una scarsa volontà politica
di farla funzionare.