Sono
persone eritree, ghanesi, siriane, kurde, nigeriane e di altre
nazionalità. Sono persone e basta. Sono state riprese denudate, in
fila, mentre sui loro corpi veniva sprizzato un getto di
disinfestante per prevenire il pericolo di malattie infettive,
ammesso che alcuni migranti ne siano affetti. Queste le immagini del video trasmesso in esclusiva dal TG2, un video che fa indignare.
Giusi
Nicolini, sindaco di Lampedusa, l'isola che da anni accoglie chi
scappa dal proprio Paese d'origine e dove si trova il Centro di
identificazione e di espulsione in cui sono state fatte le riprese,
ha così commentato la situazione: “ E' una pratica da lager. Una
pratica sanitaria non si fa all'aperto, irrorando gli ospiti nudi,
con un tubo. Lampedusa e l'Italia intera si vergogna di queste
pratiche di accoglienza”. A queste parole hanno fatto seguito molte
altre di esponenti delle istituzioni. La Presidente della Camera,
Laura Boldrini ha aggiunto: “ Uomini e donne, per essere sottoposti
ad un trattamento sanitario, vengono fatti denudare all'aperto in
pieno inverno. Quelle immagini non possono lasciarci indifferenti.
Tanto più perchè arrivano dopo i tragici naufragi di ottobre e dopo
gli impegni che l'Italia aveva assunto in materia d'accoglienza.
Quesi trattamenti degradanti gettano sull'mmagine del nostro Paese un
forte discredito e chiedono risposte di dignità”.
Si parla
di “immagine” di un Paese quando si dovrebbe parlare di “civiltà”
e, inoltre, in entrambi questi interventi viene ripetuto il termine
“accoglienza”, ma l'accoglienza si mette in pratica con i fatti e
non con discorsi e promesse.
Sono
intervenuti, ovviamente, anche il Ministro per l'integrazione Cècile
Kyenge e il Premier Enrico Letta, ai quali è stata fatta una
richiesta chiara da parte di Laurens Jolles, delegato dell'UNHCR per
l'Italia e il Sud Europa: “ Il centro di accoglienza dovrebbe
essere riportato rapidamente alla sua capienza originaria di 850
posti” per dare agli ospiti un'assistenza adeguata.
Ma che
le condizioni dei migranti che vengono smistati all'interno dei CIE
siano gravissime non è notizia di attualità. E' una situazione che
permane invariata da anni. L'Associazione per i Diritti Umani, alcuni
mesi fa, ha intervistato Alexandta D'Onofrio che, in un progetto con
Grabriele del Grande, ha realizzato un film dal titolo
La vita che non CIE.
Intervista che vi riproponiamo qui di seguito.
La
vita che non CIE di Alexandra D'Onofrio
Più di mille migranti si trovano,
in questo ultimo periodo, nel centro di accoglienza di Lampedusa:
una struttura che avrebbe una capienza massima di 300 posti.
Dall'isola i migranti vengono smistati nei CIE, Centri di
identificazione e di espulsione. Ma cosa succede a queste persone,
senza permesso di soggiorno, dentro e fuori dai Cie? Ne abbiamo
parlato con Alexandra D'onofrio, regista del documentario intitolato
La vita che non Cie,
una trilogia di cortometraggi, prodotta da Fortress Europe, in cui
si narrano le storie di un ragazzo che cerca di raggiungere la
moglie incinta, dalla Tunisia all'Olanda; di un uomo che cerca di
aiutare, dall'esterno, i suoi compagni rimasti all'interno del Cie
di Torino, dopo esserci stato lui stesso; e di un figlio che non
cresce con il padre, espulso in Marocco dopo aver vissuto tanti anni
in Italia. Un lavoro cinematografico nato nel Cie di Modena dove,
nel febbraio 2011, Gabriele Del Grande ha conosciuto Kabbour, il
protagonista dell' ultima vicenda intitolata “Papà non torna
più”. Alexandra D'Onofrio ha, poi, seguito Kabbour in Marocco e
ha deciso di raccogliere altre storie per riflettere sul tema della
giustizia e sulle politiche riguardanti l'immigrazione ma,
soprattutto, per raccontare relazioni difficili e sentimenti
universali.
La vita che non Cie è il titolo di una trilogia che, attraverso le vicende di un ragazzo, di un uomo e di un bambino, racconta l'odissea dei migranti da punti di vista differenti. Da dove nascono queste storie?
Abbiamo girato questo film tra marzo e aprile 2011 e ci siamo posti l'obiettivo di andare a cercare dei ritratti, delle storie che potessero raccontare ciò che non si viene a sapere dai canali ufficiali, dai media. Il problema è stato che, nel 2011, c'era il veto di entrare nei Cie per giornalisti e documentaristi (adesso, invece, c'è questa possibilità) e, quindi, abbiamo tessuto le storie di persone che ci hanno raccontato i Cie da fuori. Nel primo caso si racconta la storia d'amore di un ragazzo che è evaso: il fotografo Alessio Genovese - che ha seguito la vicenda fin dall'inizio e del quale ho usato le immagini lavorando in Audiodoc - aveva incontrato la moglie di Nizar e aveva cominciato a fotografare lei mentre andava a trovarlo al Cie. Dopo un mese c'è stata una rivolta, i reclusi sono evasi e il Cie è stato chiuso. Si tratta del Cie di Chinisia, fuori Trapani: Gabriele mi ha proposto di scrivere il soggetto e poi io ho seguito Nizar in Olanda dov'era andato per raggiunegre la sua compagna in attesa di un figlio... Attraverso questi corti abbiamo, infatti, voluto raccontare sentimenti universali: l'amore, la genitorialità, la solitudine.
Nel secondo corto si parla del Cie di Torino attraverso la storia di una persona rilasciata dopo circa cinque mesi di reclusione. Al tempo abitavamo a Torino e l'unica realtà che restava in contatto con i detenuti era una radio, Radio Black Out, che metteva in onda le interviste alle persone dentro il Cie. Abdelrahim, una volta uscito, si era impegnato a fare “da tramite” e a portare dentro alcune cose che potessero servire ai reclusi, come cibi o vestiti, ad esempio; il film, infatti, inizia con lui che va al mercato a comprare reggiseni per le ragazze della sezione femminile. Abbiamo cercato di capire quanto la vita di Abdelrahim fosse cambiata dopo l'esperienza di detenuto nel Cie e abbiamo anche cercato di capire il motivo della sua scelta di mantenere questa relazione con i compagni.
La terza storia parla di una deportazione, di un rimpatrio. E' la storia di Kabbour che ha vissuto in Italia per 11 anni, ha fatto le medie e le superiori qui per poi lavorare nei mercati, ma si trova costretto a tornare in Marocco perchè vendeva CD contraffatti. E' un reato per il quale è stato considerato “socialmente pericoloso” e per cui ha perso il permesso di soggiorno ed è stato rispedito indietro. Nel frattempo, Kabbour si è formato una famiglia con una compagna, cittadina polacca, con cui ha avuto un bambino, Tareq che, l'anno in cui il padre è stato rimpatriato, aveva cinque anni.
In base alle testimonianze che avete raccolto, com'è la vita all'interno dei centri? O si deve parlare di sopravvivenza?
Una cosa interessante del primo corto è che siamo riusciti ad utilizzare materiale realizzato dai protagonisti stessi, che hanno filmato con i telefonini. Le immagini riprendono la traversata, i primissimi giorni con i festeggiamenti per essere riusciti ad arrivare, con cerchi di canti e danze, ma poi i cellulari hanno ripreso anche la situazione all'interno dei Cie, con le rivolte o con le persone che stanno lì senza fare niente, ingabbiate, a guardare il cielo. Per i reclusi la cosa straziante è non capire perchè: non hanno commesso reato, hanno solo fatto la traversata senza avere la carta giusta oppure si trovano senza permesso di soggiorno perchè l'hanno perso strada facendo o perchè il loro contratto di lavoro non è stato rinnovato. Non avere il permesso è un reato amministrativo che equivale a passare con il semaforo rosso, eppure queste persone sono detenute. Oltretutto, il periodo di reclusione è salito da sei a diciotto mesi.
Nei titoli di coda si sottolinea che il 60% delle persone trattenute non viene né identificato né rimpatriato. Dopo un anno e mezzo di Cie, cosa succede?
Una volta fuori, queste persone rischiano semplicemente di non essere ancora identificate e di essere riportate dentro. Mentre giravo la storia a Torino ci è stato spiegato che - siccome i detenuti non riescono a dare un senso a quello che succede, non sanno quando verranno rilasciati o se verranno riportati a casa - non riescono a dorire di notte e , quindi, chiedono i calmanti. I calmanti, però, vengono dati molto facilmente perchè servono anche a mantenere la calma all'interno del Cie; vengono usati per sedare la rabbia. Quando facevo le interviste per telefono, capivo che dall'altra parte c'era una persona che non riusciva a parlare perchè intontita dai farmaci.
Nel terzo corto, attraverso la storia di Kabbour e Tareq, padre e figlio, si affronta il tema del “principio del bilanciamento”, riconosciuto dalla Corte europea di Giustizia: di cosa si tratta?
Il principio del bilanciamento dice che spetta al giudice dare la priorità all'interesse del minore oppure a quello dello Stato. Se il soggetto è stato considerato un “pericolo sociale” ma ha un figlio, è lo Stato che decide a chi o a cosa dare la priorità, ma non esiste una normativa precisa riguardo a queste situazioni. Kabbour è uno di quelli che sono riusciti a vincere la causa e da circa due mesi è ritornato in Italia.
La vita che non Cie è il titolo di una trilogia che, attraverso le vicende di un ragazzo, di un uomo e di un bambino, racconta l'odissea dei migranti da punti di vista differenti. Da dove nascono queste storie?
Abbiamo girato questo film tra marzo e aprile 2011 e ci siamo posti l'obiettivo di andare a cercare dei ritratti, delle storie che potessero raccontare ciò che non si viene a sapere dai canali ufficiali, dai media. Il problema è stato che, nel 2011, c'era il veto di entrare nei Cie per giornalisti e documentaristi (adesso, invece, c'è questa possibilità) e, quindi, abbiamo tessuto le storie di persone che ci hanno raccontato i Cie da fuori. Nel primo caso si racconta la storia d'amore di un ragazzo che è evaso: il fotografo Alessio Genovese - che ha seguito la vicenda fin dall'inizio e del quale ho usato le immagini lavorando in Audiodoc - aveva incontrato la moglie di Nizar e aveva cominciato a fotografare lei mentre andava a trovarlo al Cie. Dopo un mese c'è stata una rivolta, i reclusi sono evasi e il Cie è stato chiuso. Si tratta del Cie di Chinisia, fuori Trapani: Gabriele mi ha proposto di scrivere il soggetto e poi io ho seguito Nizar in Olanda dov'era andato per raggiunegre la sua compagna in attesa di un figlio... Attraverso questi corti abbiamo, infatti, voluto raccontare sentimenti universali: l'amore, la genitorialità, la solitudine.
Nel secondo corto si parla del Cie di Torino attraverso la storia di una persona rilasciata dopo circa cinque mesi di reclusione. Al tempo abitavamo a Torino e l'unica realtà che restava in contatto con i detenuti era una radio, Radio Black Out, che metteva in onda le interviste alle persone dentro il Cie. Abdelrahim, una volta uscito, si era impegnato a fare “da tramite” e a portare dentro alcune cose che potessero servire ai reclusi, come cibi o vestiti, ad esempio; il film, infatti, inizia con lui che va al mercato a comprare reggiseni per le ragazze della sezione femminile. Abbiamo cercato di capire quanto la vita di Abdelrahim fosse cambiata dopo l'esperienza di detenuto nel Cie e abbiamo anche cercato di capire il motivo della sua scelta di mantenere questa relazione con i compagni.
La terza storia parla di una deportazione, di un rimpatrio. E' la storia di Kabbour che ha vissuto in Italia per 11 anni, ha fatto le medie e le superiori qui per poi lavorare nei mercati, ma si trova costretto a tornare in Marocco perchè vendeva CD contraffatti. E' un reato per il quale è stato considerato “socialmente pericoloso” e per cui ha perso il permesso di soggiorno ed è stato rispedito indietro. Nel frattempo, Kabbour si è formato una famiglia con una compagna, cittadina polacca, con cui ha avuto un bambino, Tareq che, l'anno in cui il padre è stato rimpatriato, aveva cinque anni.
In base alle testimonianze che avete raccolto, com'è la vita all'interno dei centri? O si deve parlare di sopravvivenza?
Una cosa interessante del primo corto è che siamo riusciti ad utilizzare materiale realizzato dai protagonisti stessi, che hanno filmato con i telefonini. Le immagini riprendono la traversata, i primissimi giorni con i festeggiamenti per essere riusciti ad arrivare, con cerchi di canti e danze, ma poi i cellulari hanno ripreso anche la situazione all'interno dei Cie, con le rivolte o con le persone che stanno lì senza fare niente, ingabbiate, a guardare il cielo. Per i reclusi la cosa straziante è non capire perchè: non hanno commesso reato, hanno solo fatto la traversata senza avere la carta giusta oppure si trovano senza permesso di soggiorno perchè l'hanno perso strada facendo o perchè il loro contratto di lavoro non è stato rinnovato. Non avere il permesso è un reato amministrativo che equivale a passare con il semaforo rosso, eppure queste persone sono detenute. Oltretutto, il periodo di reclusione è salito da sei a diciotto mesi.
Nei titoli di coda si sottolinea che il 60% delle persone trattenute non viene né identificato né rimpatriato. Dopo un anno e mezzo di Cie, cosa succede?
Una volta fuori, queste persone rischiano semplicemente di non essere ancora identificate e di essere riportate dentro. Mentre giravo la storia a Torino ci è stato spiegato che - siccome i detenuti non riescono a dare un senso a quello che succede, non sanno quando verranno rilasciati o se verranno riportati a casa - non riescono a dorire di notte e , quindi, chiedono i calmanti. I calmanti, però, vengono dati molto facilmente perchè servono anche a mantenere la calma all'interno del Cie; vengono usati per sedare la rabbia. Quando facevo le interviste per telefono, capivo che dall'altra parte c'era una persona che non riusciva a parlare perchè intontita dai farmaci.
Nel terzo corto, attraverso la storia di Kabbour e Tareq, padre e figlio, si affronta il tema del “principio del bilanciamento”, riconosciuto dalla Corte europea di Giustizia: di cosa si tratta?
Il principio del bilanciamento dice che spetta al giudice dare la priorità all'interesse del minore oppure a quello dello Stato. Se il soggetto è stato considerato un “pericolo sociale” ma ha un figlio, è lo Stato che decide a chi o a cosa dare la priorità, ma non esiste una normativa precisa riguardo a queste situazioni. Kabbour è uno di quelli che sono riusciti a vincere la causa e da circa due mesi è ritornato in Italia.