Vincitore
del Premio “Ilaria Alpi”, nel 2013 e di molti altri
riconoscimenti in Festival nazionali, il documentario Lo
Stato della follia, del
regista Francesco Cordio, apre le porte di alcuni ospedali
psichiatrici giudiziari (OPG) italiani per denunciare le condizioni
in cui versano le persone in essi detenute. Ma non solo: l'indagine
si interroga anche sui motivi per cui alcuni vengono internati e
troppo a lungo, sulle modalità di analisi delle loro condizioni
psichiatriche, sul rapporto, del tutto burocratico, tra medici,
magistrati e pazienti.
Abbiamo
fatto, per voi, un'intervista a Francesco Cordio che ringraziamo
molto per il tempo che ci ha voluto dedicare.
Il
progetto nasce da una sua esperienza negli OPG a seguito dei lavori
della Commissione parlamentare, commissione presieduta dal Senatore
Ignazio Marino, sull'efficacia ed efficienza del Servizio sanitario
Nazionale: come sono nati il suo interesse verso questo argomento e
il progetto cinematografico?
Alcuni
Senatori della Commissione d'inchiesta - che è una commissione
straordinaria e non permanente – avevano visto dei miei lavori
precedenti e, quando hanno deciso di andare a documentare in video
quello che succedeva dentro gli ospedali psichiatrici giudiziari, mi
hanno contattato.
Io non
avevo alcuna conoscenza degli OPG e ho accettato un po' senza sapere
dove mi stessero portando, ma dal primo ingresso che ho fatto non ho
potuto fare altro, oltre allo shock, che appassionarmi al tema. Ho,
quindi, chiesto ai Senatori di poter utilizzare quel materiale che
stavo filmando per un loro lavoro interno (che per la prima volta
nella storia della Repubblica è andato agli atti nei lavori della
Commissione) anche un mio lavoro esterno più ampio, che potesse
arrivare a un pubblico più vasto. La cosa mi è stata riconosciuta
per cui, negli anni successivi, ho continuato ad occuparmi di questo
tema e ho avuto la fortuna di di conoscere l'attore Luigi Rigoni che,
invece, ha avuto la sfortuna di finire in un ospedale psichiatrico
giudiziario, quello di Aversa, e ho deciso di far raccontare a lui la
sua disavventura. Questo suo racconto si intreccia alle immagini che
ho filmato dentro gli ospedali.
Il
titolo del film può essere anche un gioco di parole: come può, lo
Stato, ripristinare una psichiatria più democratica, che garantisca
i diritti di base alle persone internate?
Ho
optato per mettere nel titolo la “S” maiuscola perchè la cosa
più assurda e paradossale è che sia lo Stato a rappresentare la
parte folle: se devono essere curate delle persone che commettono un
reato in uno stato di incapacità di intendere e di volere e, invece,
vengono mandate ad ammalarsi o a peggiorare la propria situazione,
allora vuol dire che è lo Stato ad essere folle.
Il
percorso più opportuno da seguire, secondo me, potrebbe esserci
suggerito dalla Spagna dove la persona incapace di intendere e di
volere che compie un reato non può essere internata per un tempo più
lungo della durata della pena di una persona che è in possesso delle
proprie facoltà e che ha commesso un reato.
Qual è
il nesso tra crimine e follia? E come mettere in pratica misure di
sicurezza adeguate, tenendo conto della sentenza n. 139 della Corte
Costituzionale del 1982 secondo la quale la pericolosità sociale
“non può essere definita come un attributo naturale di quella
persona o di quella malattia”?
E'
fondamentale una valutazione psichiatrica più adeguata
e,soprattutto, il percorso all'interno delle strutture ospedaliere
deve avere una maggiore assistenza psichiatrica.
Se noi
calcoliamo che dentro un OPG la visita dura in media 32 minuti...vuol
dire che si è completamente abbandonati.
E'
importante che gli psichiatri facciano valutazioni più appropriate
nella fase della perizia ed è importante che, poi, i magistrati
decidano confrontandosi di persona con gli psichiatri e con le
persone che stanno per mandare in OPG perchè, spesso, magistrati e
medici si relazionano tra loro solo tramite fax. E' tutto un fatto di
carte e di burocrazia, ma in questo modo si gioca con la vita di
persone deboli, indifese, che a volte non hanno una famiglia che le
aspetta fuori. In questo senso lo Stato è molto colpevole.
Le
misure di sicurezza risalgono ad un codice antico, al codice Rocco, e
vengono comminate nel momento in cui la persona, incapace di
intendere e di volere, compie un reato: se è minimo, la misura di
sicurezza consta in due anni di internamento e, durante questo
periodo, la Sanità nazionale dovrebbe curare l'internato per far
scemare la sua pericolosità sociale. Se, al termine della misura di
sicurezza, la nuova perizia stabilisce che la persona è ancora
pericolosa, si può decidere per una eventuale proroga. E si arriva a
20,30 anni o ai famosi “ergastoli bianchi”.
Ci può
riportare le voci di qualche persona rinchiusa, ad esempio, a
Montelupo Fiorentino, a Reggio Emilia o ad Aversa, per citare solo
poche strutture?
Tra le
tante testimonianze che ho registrato, quella che più mi ha colpito
è quella di un ragazzo internato a Reggio Emilia che, con grande
lucidità, dice una frase: “ L'Uomo è un animale che può
abituarsi a tutto, ma qua viene messo a dura prova”. Dopo qualche
mese il ragazzo ha deciso di togliersi la vita.
Nei
titoli di coda scrivo che il film è dedicato a lui e a tutti coloro
che non ce l'hanno fatta.