Nei
primi tre mesi del nuovo anno sono sbarcati sulle coste italiane
circa 5.500 migranti. Persone provenienti da Stati, è bene
ricordarlo, in cui imperversano le guerre civili o in cui molti
cittadini sono perseguitati per cause politiche o religiose. In
particolare i migranti provengono dalla Siria, dalla Libia,
dall'Eritrea, dalla Nigeria e dal Gambia: tanti di loro sono profughi
e richiedenti asilo.
Come
sempre è stato dichiarato lo stato di “emergenza” e, al posto di
approntare un piano di accoglienza e di predisporre strutture adatte,
anche le navi militari sono state trasformate in CIE, ovvero in
Centri per la prima Identificazione e per il rilievo delle impronte
digitali.
I CIE e
i Cas (centri di accoglienza straordinaria) sono spesso ridotti a
tendopoli o a edifici fatiscenti in cui mancano adeguati servizi di
base come, ad esempio, le strutture sanitarie. A questo si aggiunge
dell'altro: la scorsa settimana 13 persone sono state rinviate a
giudizio dal Tribunale di Gorizia per la gestione del CIE e del Cara
(Centro accoglienza rifugiati) di Gradisca d'Isonzo con l'accusa di
associazione a delinquere finalizzata alla truffa allo Stato e
inadempienze di pubbliche forniture. Con la frode, secondo l'accusa,
di 2,3 milioni di euro. Il processo a carico degli imputati inizierà
il prossimo 2 luglio.
Il
gestore del CIE è accusato di aver gonfiato il numero di reclusi
ospitati nella struttura proprio per ottenere un rimborso maggiore da
parte dello Stato e ricordiamo che ogni migrante “vale” circa 42
euro. Il rimborso statale sarebbe dovuto servire, oltre che per
fornire i servizi utili a garantire il rispetto della dignità umana,
anche per fornire ai migranti carte telefoniche, bottigliette d'acqua
e sigarette: niente di tutto questo.
Ma per
capire meglio come si vive - o meglio si sopravvive - all'interno dei
CIE l'Associazione per i Diritti Umani ha seguito un incontro,
organizzato da Stessabarca di Milano, sul tema e vi proponiamo un
breve stralcio dell'intervento di Valeria Verdolini, Associazione
Antigone: