Molti
sanno - ma tanti no - che il Regolamento di Dublino obbliga i
richiedenti asilo a restare nel primo Paese in cui arrivano dopo
essere scappati dal proprio. Nel documentario Terra
di transito - del regista
Paolo Martino, presentato con grande successo al Bif&st, il
Festival internazionale del Film di Bari - si racconta, in
particolare, il viaggio di Rahell, fuggito dalla Siria, ma non solo:
si parla anche di accoglienza, di legislatura, di speranze e
disillusioni.
Abbiamo
intervistato per voi Paolo Martino che ringraziamo molto per la sua
disponibilità.
Quali
sono le direttive del Regolamento di Dublino?
Nella
sua struttura diabolica, in realtà, la Convenzione di Dublino è
molto semplice perchè di fatto impone ai rifugiati (migranti
forzati, persone che fuggono da guerre o persecuzioni) di fermarsi
nel primo Paese d'ingresso all'interno dei confini dell' UE. Questo
perchè il regolamento stabilisce che il Paese competente per
valutare la domanda d'asilo è il primo Paese in cui il rifugiato
mette piede e ciò comporta che Paesi come l'Italia, la Grecia o la
Spagna, soggetti ai flussi migratori più di altri, siano quelli in
cui vengono fatte più richieste d'asilo.
Quali
sono le aspettative dei profughi e dei rifugiati in Italia? E con quali
difficoltà si scontrano?
I
rifugiati - anche provenienti da Paesi diversi – hanno una maggiore
consapevolezza, ormai è abbastanza noto che in l'Italia non è un
Paese in cui è facile costruirsi un futuro, mettere radici, cercare
soluzioni ai problemi da cui si fugge. I rifugiati, spesso, arrivano
già con l'idea di andare via dal nostro Paese. L' Italia ha problemi
strutturali, dal punto di vista economico e sociale, che vanno
peggiorando, quindi questo scoraggia i rifugiati a cercare qui una
soluzione ai loro. Tuttavia, per il regolamento di Dublino, sono
obbligati a restare da noi, almeno finchè non ottengono l'asilo e la
possibilità di spostarsi, ma soltanto per periodo molto brevi.
Quando
si ottiene l'asilo, non si ha automaticamente un riconoscimento pari
a quello della cittadinanza (anche se formalmente dovrebbe essere
così); in realtà, attraverso un documento che si chiama “titolo
di viaggio”, loro non possono cercare lavoro, avere assistenza
sanitaria, etc. e quindi possono viaggiare, ma per brevi periodi,
altrimenti dovrebbero restare a carico di qualcun altro.
Ci può
raccontare una storia emblematica?
Nel film
partiamo da un discorso corale e poi scremiamo fino ad arrivare a
Rahell. La sua storia spicca, ma è una storia molto comune.
La sua
famiglia fugge dall'Iraq negli anni '90 e si radica bene in Svezia,
nel lavoro e nella società. Più tardi anche lui scappa prima
dall'Iraq per ragioni politiche e poi anche dalla Siria (a causa
della guerra di oggi) ; è un musicista, una persona molto esposta e
questo, in un Paese governato da un regime, può diventare un
pericolo. Nel momento in cui arriva in Europa, in Grecia, non gli
vengono prese le impronte digitali, però impiega lo stesso un anno
per arrivare in Italia: un viaggio difficilissimo nell'Adriatico.
Sbarca in Puglia e qui gli prendono le impronte e rimane bloccato.
Siamo riusciti ad arrivare in Svezia, ma solo per pochissimi giorni e
per girare il documentario, ma adesso Rahell vive in Italia.
Quali
sono le differenze tra l'Italia e i paesi del Nord Europa in termini
di “accoglienza” ai rifugiati?
Quando
parliamo di rifugiati facciamo spesso confusione rispetto al loro
status economico, politico e culturale.
I
rifugiati non sono persone che fuggono dalla povertà. Spesso si
portano dietro un bagaglio anche molto ricco di conoscenze e, quindi,
sono persone facilmente inseribili nella società e nel mondo del
lavoro. Sarebbe importante - prima di parlare di accoglienza -
comprendere la situazione di queste persone perchè potrebbero
arricchire, con la loro esperienza, il Paese in cui arrivano.
L'Italia
ha perso clamorosamente questa occasione, non ha compreso il fenomeno
e lo ha amministrato solo con numeri e statistiche. Gli altri Paesi,
quelli del Nord Europa come la Germania ad esempio (che accoglie
quasi 1 milione di rifugiati, mentre l'Italia 50-60.000), hanno
captato questa possibilità e hanno unito la loro storica tradizione
di socialdemocrazie all'apertura verso lo straniero. Questo in
Scandinavia, Olanda, Belgio, Francia.
In
Svezia i rifugiati vengono immediatamente inseriti in programmi di
formazione linguistica e professionale, partendo dalla persona, per
capire le sue attitudini e così queste persone, in pochissimi mesi,
riescono a restituire quello che lo Stato investe su di loro. La
seconda parte di Terra di
transito testimonia
proprio questo: intervistiamo tre ragazzi palestinesi che fuggono da
Damasco, i quali si sono inseriti in questi programmi e, a distanza
di un anno, lavorano...e pagano le tasse. Intervistiamo anche una
ragazza curda che è diventata un' esponente di spicco del Partito
socialista svedese...
Cosa
avete voluto raccontare e denunciare, quindi, con questo lavoro?
Denunciamo
il paradosso evidente di un'Italia che, da una parte, continua a
livello propagandistico a proclamarsi “terra di invasione” da
parte degli stranieri e, dall'altra, accetta l'arrivo degli coatto
dei rifugiati.
Io
e Rahell stiamo continuando a seguire storie ancora in evoluzione
perchè vogliamo fare proprio una campagna su questo argomento.