Uscito da pochissimo per una casa editrice che ha un nome molto bello: Sensibili alle foglie. Stiamo parlando del romanzo di Gianluigi Gherzi, già conosciuto come attore teatrale. Il titolo del suo lavoro è Atlante della città fragile da cui è stato tratto anche lo spettacolo “”Antigone nella città” in scena fino al 2 novembre al Teatro Out Off di Milano.
“Riprendi a viaggiare!”, si dice il protagonista. Dove? Nelle strade della tua città! A far che? A dare voce a un malessere, a un brusio che suona confuso, indistinto. Viaggiare per incontrare vite, ascoltarle, sentirle prendere forma all’interno del cuore della città. Vite fragili, dappertutto. Vite che tessono un altro disegno, mappa, atlante della città, percorsi che portano a un luogo straordinario, il parco del più grande ex ospedale psichiatrico della città, dove tra alberi, panchine, musei degli orrori, appaiono infermieri specializzati nello scassinare porte da troppo tempo chiuse, segretarie innamorate della bellezza e dei giovani spettinati, receptionist in guerra coi mondi ambigui e spietati della prestazione e della performance, un ragazzo tornado bloccatosi di colpo che riprende a camminare. Tutti accompagnati e benedetti dall’antichissimo Zio Jodok. Poesia, canto lirico, storia autobiografica, pericolose avventure, strazi sottili, confessioni e canzoni per una vita che rinasce. Ogni giorno. Nell’attenzione alla “fragilità”, che è misura necessaria e preziosa del vivere.
Abbiamo realizzato, per voi, questa intervista a Gigi Gherzi che ringraziamo molto per la disponibilità.
Cosa vuol dire essere “fragili”?
Essere fragili, in realtà, è qualcosa che appartiene profondamente all'umano. E' una condizione di esposizione, di rischio che è stata vista, ultimamente come un disvalore, come un segno di debolezza, come un segno di fallimento e di inadeguatezza rispetto agli impegni e all'immagine che la società ti chiede di avere e questo ha creato molta sofferenza perchè, invece di consolidare la fragilità anche come un atto costitutivo della perona, è considerata una colpa, un peccato di cui vergognarsi. Tutto questo trasforma la fragilità in patologia, in un senso di fallimento psicologico.
I protagonisti delle sue storie sono vittima di un'ingiustizia sociale? Le istituzioni potrebbero fare qualcosa di più per le persone che fanno parte della “città fragile”?
Non sono
vittime di un'ingiustizia sociale specifica, sono quello che rimane
quando si scuote fortemente un corpo sociale per cercare di renderlo
omogeneo e rimane qualcosa impigliato dentro a quelle reti e sono
proprio quelle persone che non hanno voluto omologarsi.
Non c'è
nessun intento di denunciare una persecuzione specifica, ma si
denuncia semmai quel meccanismo che appiattisce la diversità
dell'essere umani e si cerca, invece, un'attenzione alle potenzialità
delle persone e alle loro particolarità. In questo senso tutti
viviamo in una situazione di ingiustizia, di disagio; tutti siamo
fuori dai nostri panni perchè spesso siamo chiamati a preformances
che non appartengono alla nostra vita.
In
passato era molto più facile individuare i portatori di fragilità
estreme e c'era una forte suddivisione tra loro e il mondo della
normalità; oggi, invece, se si parla con molti psichiatri dicono che
la maggior parte dei pazienti viene chiamata “normaloide” perchè
sono si tratta di persone che sembrano assolutamente normali, ma al
loro interno portano i segni di un enorme disagio, segni legati alla
complessità dei problemi attuali e a quel sistema sociale che chiede
massima operatività e omologazione. La nostra non è una società
che rispetta la fragilità, è una società della forza, della
violenza che è presente nelle relazioni, soprattutto in quelle
lavorative perchè è un modello competitivo.
Oggi il
disagio mentale fa paura?
Sì, fa
molta paura. Fa paura perchè porta con sé lo stigma di una condanna
al non poter essere protagonisti, al non poter fare carriera e al non
poter essere socialmente presentabili.
Per
questi motivi, oggi, c'è un uso nuovamente smodato dello
psicofarmaco, come farmaco adattativo che tampona o nasconde questa
realtà. Secondo me, è un disagio molto diverso dal passato perchè
anche la malattia sembra aver preso contorni più insidiosi e sfumati
in quanto si incrocia con un disagio legato all'esistenza stessa.
Come ha
raccolto le storie per il suo libro (e per lo spettacolo)?
Le
storie sono state raccontate in due modi: da una parte, cercavo
persone appartenenti a una certa normalità e che testimoniassero la
loro capacità ad essere fragili all'interno di questo mondo come, ad
esempio, una ragazza che fa uno stage all'interno di un'agenzia
pubblicitaria, una professoressa precaria, e anche un manager di
multinazionale. Questo per uscire da un'idea di fragilità di coloro
che dichiaratamente soffrono di un disturbo, vanno al CPS o hanno
subito un trattamento o un ricovero. Dall'altra parte, ho
intervistato persone che vivono o lavorano all'interno dell'ex
ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano dove l'associazione
Olinda, da tanto tempo, lavora sui diritti dei malati, sperimentando
percorsi di reinserimento dentro a una normalità professionale,
relazionale e anche di creatività culturale.
Si
tratta, però, di un romanzo per cui mi sono preso tutta la libertà
di incrociare le storie e, nel passaggio dall'intervista alla tecnica
narrativa, ho dovuto operare dei “tradimenti”, ma per mantenere
la verità.